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Recensione Giancarlo Pontiggia: Primavera di Menotti Lerro

Argomento: Letteratura

di Menotti Lerro
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Pubblicato il 07/11/2024 20:49:24

La recensione di Giancarlo Pontiggia a Primavera di Menotti Lerro (2010).

 

Di Menotti Lerro, nato nel 1980, attualmente dottorando presso il dipartimento di anglistica dell’Università di Salerno, dove si è laureato con una tesi sulla poesia di Eliot e Montale, è uscito un amplissimo volume, Primavera, che vuol essere una sorta di compendio antologico di tutta la sua produzione precedente. Il titolo allude alla prima stagione della vita, guardata con gli occhi di chi quella stagione l’ha già vissuta, e sente il bisogno di ricapitolarla conferendo ad essa un ordine, che sarà innanzi tutto – com’è inevitabile – l’ordine del tempo e delle sue stagioni.
E infatti il libro si articola in quattro sezioni, che si allungano dall’Infanzia, attraverso una Adolescenza e una Giovinezza, fino alla conquistata Maturità,
prevedendo, all’interno di ciascuna sezione, una sorta di progressione dei pensieri e delle emozioni, scandita anche numericamente (22 poesie nella prima sezione, 31 nella seconda, 73 nella terza, fino al simbolico 100 nella quarta e conclusiva) e cronologicamente (si va dal 1997 fino al 2007). Accompagnano ciascuna sezione titoli che esprimono una trepidante, angosciosa sensibilità, in parte recuperati da raccolte precedenti (Ceppi incerti; I battiti della notte; Senza cielo; Tra-vestito e l’anima). Un percorso di
vita e di conoscenza che non può non sorprendere in un poeta così giovane, sia per la ricchezza dei temi esistenziali, che si ampliano anche ai grandi interrogativi religiosi, sia per la tensione tragica del discorso, su cui incombe, come il peso di un grande disastro, la percezione traumatica (quasi originaria,
fondativa) di un mondo che ha perduto, indistintamente, anche l’idea del cielo (motivo ricorrente della terza sezione): «Dublino è senza cielo come Omignano e Milano, / Oxford e Londra, Madrid, Barcellona e Bilbao, / come Praga e Budapest, Francoforte e Monaco... / Non c’è casa» (p. 162). Molte di queste pagine vanno a comporre come una sorta di diario privato, affidato a un linguaggio di forte impatto emotivo, non di rado intessuto dei tòpoi più vistosi dell’immaginario poetico postromantico (con singolari accenti scapigliati), come in questa sequenza della terza sezione (si tratta dei testi numerati 6-7-8-9): «Guardandomi da vicino, / a tre centimetri dallo specchio, / il viso s’appanna in un istante, / sono già vecchio» (p. 102); «Ogni giorno ombre mi parlano, / m’inseguono in ogni angolo di cervello» (p.103); «Eppure respiro ancora, / in questa stanza senza luce / tra la polvere e la noia» (p. 104); «E poi chissà cosa mi attende / quando in cento lune / la
carne pullula di vermi, / nutre le bestie immonde / venute a divorarmi» (p. 105). Lerro, si è capito, è poeta che ha bisogno di distendersi in vasti spazi, di
far ricorso al più vasto repertorio delle figure (egli stesso, in una nota, confessa di avere amato «metafore, inversioni sintattiche, ossimori, metonimie, parole ricercate, rime, assonanze, anafore», p. 28), di cercare forme espressive dotate di una forte tensione comunicativa, come quando, giunto ormai alle pagine conclusive del libro, si congeda dal lettore tracciando un testamento della propria vita («Ho deciso di lasciare il corpo, / ed è ora di fare testamento. // Alle donne che mi conobbero lascio le ombre, / i sogni che non si realizzarono; / Al mio paese lascio tormenti / e bei ricordi; / Ad Oxford l’amore, / a mia madre il cuore. / Agli amici le strade che percorsi, / a mio padre lasciategli la mente, / ai gatti le viscere. // questa penna e queste carte / a colui che ci si imbatte»; p. 266), o come quando, proprio nel componimento di congedo, assume i panni del solitario
viandante di romantica memoria («quando nella notte buia, confuso col vento freddo, / la neve e il fruscio degli oleandri, / sentirete da lontano uno
stridulo canto, / come di un lupo, quando cerca malinconico la luna / da uno spigolo di roccia... / allora uomini, rivolgete a quest’ombra un pensiero, / poiché quello è il canto di uno stanco / viaggiatore solitario »; p. 290).
Se da una parte colpisce la qualità, anche retorica, di questa poesia, dall’altra può lasciare perplessi l’eccesso di facilità con cui l’autore fa uso dei suoi materiali, sia biografici sia letterari, nonché la tendenza ad abusare di immagini di abiezione e desolazione (penso a poesie come iv, 74: «Dura uno
schiamazzo la vita. / Tutto è carne buona per un’ora, / osso in preda ai tarli, formicaio in delirio, / sputo marcio di vecchio»; p. 255). Ma, come per altri poeti nati negli anni Settanta e Ottanta, ed è certo un merito rispetto al minimalismo imperante nelle generazioni precedenti, la letteratura appare a Menotti Lerro come uno spazio di verità cui consegnarsi senza esitazioni e diffidenze, un repertorio di stili e di simboli che continuano a bruciare sulla pagina, a nutrire di miti e di ragioni il proprio “io” sanguinante e ferito. Fra tante maniere che popolano il libro, preferiamo il poeta bachelardiano che scrive: «Ho spento la candela nella notte / restano le ombre sui muri della mente» (iii, 59; p. 170).


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