Un brivido freddo corse improvviso tra le foglie. Il vento era cambiato.
Il viale d'accesso alla vecchia casa di campagna era presidiato da due file di ulivi secolari, maestosi ed attempati come reduci alla parata militare, con il corpo fiaccato dal tempo e lo sguardo ancora lucente di antica fierezza.
Nei campi, poco oltre, le zolle divelte dalla solerzia dell'aratro mugugnavano malumori al cielo, già troppo stanco di nubi per badare agli effluvi di terra bagnata provenienti dal basso.
Ma dopotutto, l'arrivo dell'autunno era stato un sollievo.
Solo tre mesi prima ardeva, il terreno, sotto i colpi inferti da un sole impietoso e tutto, intorno, giaceva sotto una coltre calda e spettrale, mentre la nenia infinita di grilli e cicale stonava le ore, senza riguardo.
Anche il giorno del funerale, l'afa mordeva.
Prima in chiesa, giù in città, dove l'incenso sposava l'olezzo dei fiori, davvero troppi -davvero- e dove le preghiere si scioglievano in un salmodiare soffocato di lacrime e pianti che echeggiava tra le navate, salendo fino a lambire le volte affrescate, per poi ricadere giù, stancamente, tra i banchi gremiti; poi, poco più tardi, al cimitero del paese, dove una teoria di tombe assolate scandiva il percorso, e lo spazio, così geometrico e ordinato, dimostrava, con logica marmorea, l'assurdità covata in ogni gesto. Una volta concluso lo straziante cerimoniale della tumulazione, di tutti quei fiori, davvero troppi -davvero- non si sapeva che cosa farsene; non c'era modo di sistemarne che una minima quantità e anche quelli, avrebbero retto ben poco sotto il fuoco incrociato dei raggi in agosto. E infondo, forse era meglio così; meglio seccare in fretta, folgorati dal bacio del sole, che marcire lentamente nell'attesa.
Ora, dopo tre mesi, a tornare in quel vetusto casale di famiglia, dove da anni si trascorrevano le vacanze estive, sembrava tutto diverso.
Eppure era tutto ancora uguale.
Il cancello sbilenco, il viale dissestato, le persiane di legno sempre sul punto di cadere, da anni, e da anni ancora miracolosamente al loro posto, la vecchia lampada arrugginita sul portone d'ingresso e la sedia, abbandonata davanti casa, vuota.
Solo la luce, sì, la luce era cambiata. Le note isteriche a picco sul mondo si erano finalmente smorzate. La sua bellezza sferzante s'era fatta discreta, pacata, e accarezzava dolcemente ogni forma, ogni contorno, con l'amorevolezza struggente di una madre che veglia sul sonno incipiente del figlio.
C'era un figlio, infatti, che dormiva nella tomba, e la tomba era un giaciglio senza tempo, anche se il tempo, inspiegabilmente, non si era fermato quell'estate. Aveva rallentato, questo è vero, o almeno così era parso, come se avesse fatto un cenno, togliendosi il cappello.
Ma non si era fermato.
E andava così, tenendo il passo e appoggiandosi ogni tanto al suo bastone da passeggio, più per vezzo che per necessità, risalendo lungo il viale, tra file di ulivi davvero troppo vecchi, e troppo stanchi -davvero- per poterlo ancora salutare.
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