Era un gennaio fin troppo mite ed incolore per i miei gusti.
Un pomeriggio, durante una delle mie passeggiate a caccia di immagini da fotografare, avevo lasciato la strada e avevo diretto i miei passi verso i campi incolti che costeggiavano silenziosi la ferrovia.
L'erba era alta ed il terreno irregolare. Andavo avanti alla ricerca di qualche soggetto interessante da ritrarre e benché fossi distratta e svogliata, non volevo tornare indietro. Vagavo tra quello che era ormai diventato un dedalo inospitale di rovi, quando intravidi tra la sterpaglia un piccolo sentiero.
Mi fermai, incerta.
Ero curiosa di sapere dove conducesse quell'inaspettato viottolo nel bel mezzo del nulla, così mi incamminai.
Man mano che procedevo, il sentiero si faceva più netto, più agevole, quasi mi invitasse a proseguire. Ed io andavo, sempre più spedita, sempre più leggera. Sempre più curiosa.
Intanto i rovi erano diventati cespugli alti e fitti e senza rendermene conto mi ritrovai in un boschetto di rami scheletriti. Per terra sterpaglie nodose ed intricate soffocavano il verde che a stento cercava di sopravvivere a quel tiepido inverno. Del sentiero, all'improvviso, si perdevano le tracce. Guardai indietro. Da lì non riuscivo più a vedere né la strada, né la ferrovia.
Stavo cominciando a pensare che quella desolazione fosse la mia misteriosa destinazione, quando una voce dal nulla mi fece sussultare. "Non avere paura" disse " Sono qui a tagliare un po' di legna da ardere nel camino. Abito laggiù, vedi, in quella casetta".
Presa alla sprovvista, sussultai. Diedi una rapida occhiata all'uomo che mi stava davanti. Il primo impulso fu quello di allontanarmi in fretta.
Se ne accorse.
"Forse è meglio che torni da dove sei venuta. Non credo che qui ci sia qualcosa per te."
Sorrise.
Allora lo guardai meglio. Poteva avere all'incirca la mia età. Altezza e corporatura medi, aspetto curato, gradevole. Aveva uno sguardo serio ma caldo. Ma soprattutto aveva una voce pacata, profonda.
"Stavo solo facendo due passi, ma senza rendermene conto mi sono allontanata troppo", dissi.
Cominciammo a parlare. Come capita alle volte con gli sconosciuti, entrammo subito in sintonia, come se fossimo amici di vecchia data. Mi parlò della sua famiglia, del suo lavoro e della sua passione per la pittura.
Poi, ad un tratto mi disse: "Facciamo un gioco? " Io annui incuriosita. "Appoggia la mano sinistra sul ceppo", continuò.
L'appoggiai e alzai lo sguardo su di lui, aspettando che proseguisse . Poi lo vidi sollevare l'ascia e, in una frazione di secondo, compresi l'orrore.
Il buio più fitto si accese di miriadi di luci impazzite. Il silenzio divenne ronzio, il ronzio rombo e il rombo un urlo strozzato spezzato dal tonfo secco del mio corpo sul terreno.
Poi, più nulla....
È primavera, oramai, e sto tornando a casa dalla clinica dove ho passato gli ultimi tre mesi. Mentre il treno prosegue ignaro la sua corsa lungo i binari che costeggiano quel boschetto, guardo fuori dal finestrino e rifletto.
Si può vivere senza una mano?
Si, si può, naturalmente.
Ma non è facile. Soprattutto quando sai perché l'hai persa. E la cosa peggiore è che alle volte hai la netta sensazione che sia ancora lì, al suo posto, attaccata al tuo corpo, ossa, nervi, muscoli, sangue, ogni cosa dove è sempre stata, e dove avrebbe potuto ancora essere.
Se solo non avessi seguito quel sentiero, lì, proprio in fondo a quella strada....