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Un giorno arrivò alla fattoria una camionetta

di Roberto Maggiani
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Pubblicato il 18/10/2015 17:24:23

 

[...] La guerra è passata esattamente in mezzo alla mia adolescenza, devastandola. Sono della generazione Flakhelfer, come vengono comunemente chiamati i nati del 1926-27. Ero un soldato bambino tedesco. Pertanto fui impiegato da Hitler nel programma Luftwaffenhelfer, implementazione dell’ordine di “Kriegshilfseinsatz der Jugend bei der Luftwaffe” e cioè “Utilizzazione dei giovani per supportare lo sforzo di guerra delle forze aeree”, emesso il 22 gennaio 1943. L’ordine chiedeva l’arruolamento di intere classi scolastiche maschili di studenti nati nel 1926 e 1927 (successivamente esteso per includere i nati nel 1928 e 1929), in un corpo militare supervisionato da personale della Gioventù Hitleriana e della Luftwaffe. Prevedeva un indottrinamento ideologico, doveri militari e una continuazione limitata del normale curriculum scolastico. Per diversi mesi feci parte del programma ma non riuscirono mai a innestarmi nel sistema, rimasi sempre segretamente dissidente, finché riuscii a fuggire in Svizzera con i miei genitori contadini, dove vissi fino alla fine della guerra, ospite di alcuni nostri lontani parenti: i coniugi Huber. Viveva con loro il nipote Karl, un ragazzo austriaco rimasto orfano. Il capofamiglia si chiamava Gerg, la moglie, Adelmute. Era una famiglia molto generosa che in tempo di guerra sfruttò ogni occasione per contrastare il nazismo con atti concreti di accoglienza e sostegno alla Widerstand, la Resistenza tedesca, oggi celebrata da una scritta sul Monumento di Berlino eretto in onore di tutti i resistenti: “Ihr trugt die Schande nicht, Ihr wehrtet Euch, Ihr gabt das große ewig wache Zeichen der Umkehr, opfernd Euer heißes Leben für Freiheit, Recht und Ehre.”

 

Me lo potrebbe tradurre Eccellenza? Il tedesco non è il mio forte…

 

Significa: “Voi non avete portato la vergogna, vi siete difesi, avete dato il grande, per sempre vivo, segno del cambiamento, sacrificando la fiamma della vostra vita, per la libertà, la giustizia e l’onore.”

 

Nella Germania nazista anche le Chiese Cattolica e Protestante, nonostante una decisa inclinazione, per me imperdonabile, a non contrapporsi alle linee di governo, ebbero, tra le loro fila, alcuni oppositori che attaccarono con coraggio e apertamente, anche in pubblico, il regime inumano di Hitler: aiutarono gli ebrei ma senza riuscire ad allineare le intere comunità religiose contro il regime. Tra questi ricordo Martin Niemöller e il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer (assassinato dai nazisti), o la Bekennende Kirche, formazione critica all’interno della Chiesa Protestante. Personaggi autorevoli, quali i vescovi cattolici Clemens August von Galen e Theophil Wurm, protestarono contro l’attuazione del cosiddetto “Programma eutanasia”, ossia l’eliminazione o la sterilizzazione di tutte le persone affette da malattie genetiche. Tutti costoro agirono in modo individuale e rimasero isolati senza ricevere alcun appoggio da parte delle loro Istituzioni.

 

Rimasi in Svizzera circa un anno, dove riuscii, tra un lavoretto e l’altro, a continuare i miei studi, mentre i miei genitori aiutavano Gerg e Adelmute negli impegni della fattoria. Arrivavano le notizie tragiche della guerra ma, nonostante tutto, sentivamo vicina la liberazione.

Karl aveva la mia stessa età, era un ragazzo biondo, magro, con gli occhi azzurri e un bel volto ariano, diventammo subito molto amici. La domenica mattina, solitamente, dopo colazione, andavamo a fare un’escursione in montagna.

Partivamo presto, camminavamo ore per arrivare sui picchi dai quali si potevano ammirare le pianure circostanti e un bellissimo lago che mi ricordava il lago di Bodensee, dove d’estate andavo a rinfrescarmi con la mia famiglia.

Karl e io, durante la settimana, la mattina studiavamo mentre nel pomeriggio ci dedicavamo a fare dei lavori che i nostri genitori programmavano per noi. La convivenza era snella, serena, ognuno faceva il proprio dovere, per quanto, talvolta, si trattasse di piccole cose. Eravamo tutti coscienti che soltanto così, lì dove eravamo, nella nostra apparente impotenza, avremmo potuto avere la meglio sulla distruzione nazista.

 

Un giorno arrivò alla fattoria una camionetta. L’autista era un omaccione barbuto, quando scese si guardò intorno e, dopo aver stretto la mano a Gerg e a mio padre, entrò in casa al loro seguito. Uscirono dopo un quarto d’ora dirigendosi tutti e tre verso la camionetta, dalla quale, a un richiamo dell’autista, scesero, da dietro, tre giovani uomini. Si vedeva chiaramente che erano militari in borghese, vestiti malamente con taglie non loro e con la barba incolta. Erano tedeschi disertori.

Poco dopo il camion si rimise in moto e partì lasciando dietro di sé i tre giovani tedeschi circondati da una fumata nera che lentamente si dileguò nell’aria. In silenzio furono accompagnati nella baracca adiacente alla stalla, dove erano stati allestiti, già da tempo, alla bene e meglio, dei giacigli. Uno di loro, forse il più giovane dei tre, passandomi vicino alzò lo sguardo da terra e mi sorrise, ricambiai. Ricordo i suoi occhi chiari e luminosi che mi indussero a pensare alla terribile perdita che sarebbe stata la sua morte: quegli occhi, così vivi e fieri, che rivelavano lo spazio immenso e forse irraggiungibile dell’anima, rappresentarono, per me, quella di ogni uomo. Come sarebbe stato il mondo senza quel ragazzo? Quanti sguardi simili la guerra aveva oscurato? E quante anime aveva cacciato via dai corpi?

Tra me e me pensai a Dio, non so perché ma davanti a quegli occhi mi posi il problema dell’esistenza di Dio, per la prima volta la pensai necessaria. Tutto il dolore che la guerra aveva portato, tutte quelle morti di donne e uomini, di bambini, giovani e anziani, le persecuzioni, le torture, avrebbero trovato, senza Dio, il loro riscatto, il loro perché? Dio mi parve necessario per riscattare tutti, non poteva non esserci, la sua assenza sarebbe stata un’ingiustizia immensa nei confronti di tutti loro. In quegli istanti, mentre seguivo con lo sguardo i tre soldati che andavano verso il loro alloggio, pensai: “Non è possibile che la morte possa annientare la coscienza e la bellezza che ogni uomo porta in sé.” Mi pareva assurdo, inconcepibile, doveva esserci un modo per salvare tutto questo. In quel mentre Karl mi diede una pacca sulla spalla e fu come se mi svegliasse. Stavo in una nuvola di pensiero tutta mia, è straordinario come il nostro cervello riesca a isolarci dal mondo, sollevandoci in luoghi personalissimi, terribili o sublimi. Sorrisi a Karl e ci avviammo a fare il nostro lavoro programmato, dovevamo tagliare la legna. Era la fine dell’estate del 1944, bisognava iniziare a fare le provviste per l’inverno.

Il giorno dopo, Karl, mi disse che aveva parlato con i tre giovani soldati, ai quali aveva portato del latte e del pane per la colazione, erano soldati della Schutzstaffel, le famigerate SS. La cosa mi inquietò e non poco, però mi rasserenai appena Karl mi disse che erano stati assegnati non da molto a tale reparto e proprio per quella loro assegnazione avevano disertato. Non avevano trucidato nessuno… per fortuna.

Il giorno successivo al loro arrivo, tra lo studio e alcune commissioni in paese, rimasi fuori tutto il giorno. A sera, Karl, quando mi vide arrivare in lontananza, mi venne incontro in bicicletta e fece l’ultimo pezzo di strada insieme a me a piedi. Mi disse che nel pomeriggio aveva accompagnato i tre soldati a passeggiare tra i prati, gli avevano raccontato le atrocità della guerra, dei campi di sterminio e del pericolo che correvano le loro famiglie se si fosse scoperta la loro diserzione. Erano tre ventenni che provenivano dallo stesso paese della Germania, diventati amici sotto le armi.

Poche settimane prima riuscirono ad avere, contemporaneamente tutti e tre, quattro giorni di licenza. Fu in quell’occasione che, tramite una persona a conoscenza dell’antinazismo segretamente custodito dalle loro famiglie, si misero in contatto con la Resistenza tedesca e organizzarono la loro diserzione e scomparsa prima che qualche ufficiale delle SS li costringesse a compiere dei crimini.

Alcuni uomini della Resistenza riuscirono a simulare il loro sequestro proprio durante il rientro in caserma dopo la licenza, nel bel mezzo di un tratto di strada disabitato per chilometri, con tanto di fuoco incrociato e spargimento di sangue. Una gallina fu sacrificata, in modo da spargere del sangue sul mezzo che li trasportava; insomma, fu un sequestro simulato e compiuto ad arte, proprio in una zona della Germania in cui era totalmente insospettabile la presenza della Resistenza, infatti, il loro era uno dei distretti in cui la popolazione sosteneva maggiormente il Führer, con varie attività propagandistiche e ingenti donazioni alla causa. Non sarebbe stata facile una rappresaglia, poiché abitavano in quell’area molte famiglie e parenti di ufficiali nazisti. Fu la Gestapo a gestire il caso, con indagini che finirono nel silenzio quando uno dei comandanti della stessa Gestapo, proprio originario di quel distretto, impartì l’ordine che nessuno lì dovesse essere toccato. Così si limitarono, su disposizione del comandante, ad aumentare la presenza della polizia segreta e dell’esercito sul territorio. I boschi, dove frange della Resistenza potevano avere il loro rifugio, vennero setacciati in lungo e in largo ma senza risultati.

I tre soldati, opportunamente nascosti, furono portati in Svizzera. Le loro famiglie vennero aiutate, nel loro sostentamento, con una colletta dell’intera comunità, incosciente del loro antinazismo, e i figli inneggiati a eroi finiti nelle mani dei traditori, forse per essere giustiziati. Invece vennero presi in consegna da una sezione svizzera della Resistenza, capeggiata da un amico di Gerg, e portati da noi. Si seppe poi che le famiglie furono messe sotto stretta sorveglianza, non si riuscì a capire se per proteggerle, per attendere eventuali contatti dei rapitori o se per controllarne i movimenti nel dubbio che fossero collusi con i resistenti. Questi ultimi furono attivi in Germania negli anni dal 1938 al 1944. Furono responsabili di diciassette attentati alla vita di Adolf Hitler, l’ultimo dei quali, il complotto del 20 luglio del 1944, causò la cattura e l’esecuzione di più di duecento oppositori del regime (certi o solo sospettati), il movimento ricevette un colpo mortale e venne praticamente stroncato, anche se alcune piccole cellule rimasero attive, tra queste c’era proprio quella che aiutò i tre soldati a fuggire.

 

Il soldato, che il primo giorno del loro arrivo mi aveva sorriso, si chiamava Jürgen, era un ragazzo molto cordiale. Fui colpito dalla sua bellezza, portava i capelli rasati, aveva lo sguardo sereno, si rispecchiava nei suoi occhi il verde dei campi, le labbra rosse erano scolpite sul chiaro della carnagione ed era evidente la sua dentatura perfetta. In quei giorni di fine estate, la sera, andava a correre nei campi, quando era distante dall’abitazione si toglieva la maglietta e rimaneva a petto nudo, aveva un fisico invidiabile.

La domenica successiva all’arrivo dei tre soldati, io e Karl, li accompagnammo a fare una gita in montagna, passammo una giornata stupenda, tra un gioco, una chiacchiera e uno scherzo ci raccontarono le loro esperienze militari. Ben presto diventammo molto amici e confidenti, eravamo una sorta di banda, una piccola brigata partigiana contro i nazisti; stavamo pensando di metterci a disposizione della Resistenza, qualora fosse stato necessario, di rientrare in Germania per dare sostegno logistico ai resistenti.

Un pomeriggio Karl, Jürgen e un altro di loro, Curd, andarono al fiume. Io e il terzo, Eilmar, rimanemmo a casa a preparare la cena per tutti, a tavola eravamo ben nove, se poi c’erano degli ospiti, arrivavamo tranquillamente a fare la stessa tavolata dell’“Ultima cena”, e succedeva spesso. Mi pare di ricordare che preparammo un ottimo brodo di gallina e polenta con erbe raccolte nei campi.

Quella sera Karl, Jürgen e Curd stavano ritardando a rientrare, la cena era ormai pronta da un pezzo, li stavamo tutti aspettando, impazienti per la fame e leggermente preoccupati.

Arrivarono di corsa, trafelati, consci del ritardo e scusandosene. Karl mi guardò fisso negli occhi, come se volesse verificare se avevo qualche domanda da fargli. Da un gesto che fece mi parve ansioso di parlare con me. Jürgen era sorridente, come sempre, ma anche lui mi guardava con uno sguardo diverso, sembrava in cerca di complicità, spostava lo sguardo su Curd e Karl, si sorridevano l’un l’altro, non li capivo, era successo qualcosa ma non capivo che cosa.

Finita la cena, svoltasi in serenità, Karl mi chiese se potevo andare con lui in camera nostra, dormivamo nella stessa stanza in due letti separati. Lo seguii incuriosito, a mia volta seguito dallo sguardo luminoso di Jürgen e quelli di traverso di Curd ed Eilmar. Mi fece entrare in stanza. Dopo essersi assicurato che non ci fosse nessuno sul pianerottolo, chiuse la porta. Andò a sedersi sulla sedia a dondolo vicino alla finestra, io mi sedetti sul letto. Mi guardò e disse: “Sei capace di tenere un segreto, anche se quanto ti dico non trovasse il tuo favore? Per amicizia?” Dissi di sì, continuò: “Oggi è stata una bella giornata, con Jürgen e Curd siamo arrivati al fiume, quasi rincorrendoci l’un l’altro, avevamo voglia di tuffarci, di scrollarci di dosso la pesantezza di questi giorni tremendi in cui arrivano, da tutta Europa, notizie preoccupanti, terribili, disgustose. Arrivati al fiume, nel solito posto che conosci, ci siamo spogliati… io e te teniamo sempre addosso le mutande, loro due, invece, si sono spogliati completamente. Non nego che ero in imbarazzo: se ne sono accorti, così mi sono venuti vicino e mi hanno tolto le mutande, sono rimasto pietrificato. Vedendomi paralizzato, Jürgen mi ha detto: ‘Che piccolo!’ Riferito al mio membro, a quel punto siamo scoppiati tutti e tre in una fragorosa risata e ci siamo buttati in acqua, rimanendo in ammollo, tra una burla e l’altra, per una ventina di minuti. Usciti dall’acqua ci siamo stesi sull’erba, al sole. Si stava così d’incanto che ci siamo addormentati, penso che abbiamo dormito una mezz’oretta. Il primo a svegliarsi sono stato io. Mi sono stropicciato gli occhi e, rimanendo seduto, mi sono messo a osservarli. Non avevo mai visto, così da vicino, due corpi integralmente nudi, erano belli, distesi in quel silenzio scrosciante d’acqua e nel verde della natura. Jürgen era vicino a me, sembrava immerso in un sonno profondo ma, all’improvviso, ha aperto gli occhi; intimidito ho distolto bruscamente lo sguardo dal suo corpo ma, ormai, si era accorto che lo stavo contemplando. Fissandomi negli occhi si è fatto più vicino: mi sono sentito imprigionato dai suoi occhi verdissimi, i denti bianchi come il marmo, le labbra rosse come amarene. Il suo volto si avvicinava sempre di più al mio, con lentezza, mi fissava e io non riuscivo a distogliere lo sguardo, penso che i serpenti facciano una cosa simile per incantare le loro prede, la paura ha lo stesso effetto immobilizzante e attrattivo della passione che monta. Iniziavo a sperare che non si fermasse e infatti non lo ha fatto: ha continuato il suo percorso fino ad arrivare con la sua bocca vicino alla mia, ne sentivo il respiro, a quel punto una fortissima eccitazione mi ha spinto verso di lui. È successo come quando si avvicina una calamita a un pezzo di ferro, dapprima quello resta fermo ma quando la calamita arriva a una certa distanza fa uno scatto improvviso e si attacca alla calamita. Così ho fatto io, gli sono caduto sulle labbra, perdendomi in un lungo bacio, sia io che lui abbiamo avuto un’erezione. Curd si è svegliato proprio quando Jürgen stava allungando la sua mano verso i miei genitali, lo vedevo soltanto io, Jürgen non se ne era accorto e continuava. Con gli occhi sbarrati guardavo Curd, non riuscivo a muovermi, nessuno mai mi aveva toccato i genitali, ero in estasi. Curd, anziché avere un motto di repulsa, disgusto o sorpresa, si è avvicinato a noi e ha iniziato a carezzare Jürgen da dietro, poi ha iniziato a baciarlo sulla schiena e a carezzare anche me. Abbiamo giocato così, in tre, per lunghi minuti, finché siamo arrivati all’apice del piacere. A quel punto ci siamo accasciati nuovamente sull’erba e siamo rimasti così abbracciati fino a quando abbiamo pensato che forse, vista l’ora tarda, era il caso di rientrare, e di corsa. Ecco tutto.”

Davanti a quel racconto non rimasi né scandalizzato né stupito ma solo incuriosito e anche un po’ eccitato a mia volta. Posso dirlo no? Anche noi vecchi siamo stati giovani e anche noi preti siamo uomini. Karl disse che tra Jürgen e Curd non era la prima volta che succedeva, anche Eilmar ne era a conoscenza ma lui, pur favorevole a quei loro incontri amorosi, non partecipava. Jürgen e Curd avevano avuto anche delle ragazze, almeno così dissero a Karl, ma non gli dispiaceva giocare tra loro, la cosa era nata proprio sotto le armi. Se li avessero beccati sarebbero stati giustiziati ma, disse, erano stati sempre molto prudenti, Eilmar, di cui si fidavano come un fratello, faceva loro da spalla.

 

Una notte Karl si alzò, nonostante nel vestirsi si muovesse cautamente, mi svegliai, gli chiesi dove stesse andando. Disse che aveva voglia di incontrare Jürgen, gli chiesi allora se non gli dispiacesse che lo accompagnassi. Fu molto contento della mia richiesta, mi vestii e scendemmo insieme. Era una notte di Luna quasi piena e i grilli cantavano a più non posso, il paesaggio, così illuminato, sembrava fantastico.

Il riflesso della Luna sul selciato davanti a casa, l’ombra degli abeti, i profumi sparsi di quella notte, portavano con loro, per me, la mia infanzia trascorsa a Marktl, dove vissi felice insieme alla mia famiglia. Si aprì un varco nel tempo e vi entrai, per un attimo mi smarrii nel passato, dove scorsi un disegno d’amore a cui non avevo mai fatto caso. Ero cristiano ma non praticante, eppure quella notte, davanti a quello scenario in connessione col mio passato, vidi chiaro un disegno d’amore infinito, una voragine d’amore inglobava la mia vita, Karl e tutto il creato, anche quell’assurda e stupida guerra. Pensai che forse era stato Dio, in quel momento inaspettato, ad aprire per me il Paradiso.

Poco prima chiesi a Karl di andare con lui da Jürgen, perché avevo voglia di affetto, di amore, ma uscendo da casa trovai quest’ultimo lì davanti a me, nel creato, nel ricordo degli anni passati, nel bene ricevuto, nelle sofferenze subite, come una medaglia che da un lato ha la croce e dall’altro la resurrezione, in mezzo essendoci lo spessore di un’esistenza, la mia, per quanto fosse ancora breve. Mi commossi.

Karl aveva già svegliato Jürgen e Curd, stavano uscendo dalla baracca e mi facevano cenno di seguirli nella campagna. Andammo veloci, correndo nei prati, ma ero ancora scosso ed emozionato per quella visione interiore che, come un godimento, tardava a scemare, anzi, persisteva. Arrivammo in prossimità di un fosso asciutto, al riparo di un abete altissimo, con i suoi rami più bassi lo nascondeva, nel fosso c’era un muschio soffice. Io e Karl andavamo spesso lì a riposare al riparo dalla calura estiva, talvolta a leggere.

I raggi lunari riuscivano a penetrare fin sotto i rami, illuminando a chiazze il terreno e i nostri volti. Disposti in cerchio, ci guardavamo sorridenti, eccitati, finché iniziammo a baciarci l’un l’altro in un vortice d’amore e a spogliarci all’impazzata. Tornammo all’alba, quando tutti ancora dormivano ignari della nostra nottata, tranne Eilmar.

 

Mi porto quella notte in cuore come un dono d’amore. È incredibile no?, Daniele, come un vescovo della Chiesa Cattolica possa portarsi un’esperienza siffatta nel bagaglio della propria vita e pensarla, addirittura, come un’esperienza divina, un incontro con Dio: il momento esatto in cui sentii la chiamata al sacerdozio anche se, in quel momento, non sapevo che fosse la mia chiamata.

Il sacerdozio! Che cos’è se non un allargare le braccia sul creato in cui Dio si è compiaciuto? Che cos’è se non il recupero del Paradiso perduto nel cuore dell’uomo al centro del Creato? Quella notte mi parve di capirne il senso e il significato, vidi il Cosmo tra le mani di Dio, lo spazio e il tempo contratti in un solo punto dentro la mia anima, assaporai l’amore irrinunciabile di Dio per me e per ogni uomo, anche nell’eccitazione, tra le carezze di quegli amici: l’amore è una promessa che nessuna spada potrà ferire, nessuna disgrazia, nessun delitto, nessun peccato, non certo la morte.

 

Eccellenza, queste sue ultime parole mi portano alla mente certe vicende bibliche in cui sembrano mescolarsi sacro e profano, con slanci verso il divino a partire dalla debolezza della natura umana, senza complicati moralismi: Sara, non riuscendo ad avere figli da Abramo, pur avendo una promessa di Dio riguardo alla loro discendenza, permise alla sua schiava, Agar, di essere ingravidata da Abramo, per poi farla partorire tra le sue gambe, una modalità ora impensabile per l’artificiale morale cattolica.

A questo punto mi sorge una domanda, mi scusi, Eccellenza, se è indiscreta: ha avuto altre esperienze di natura omosessuale?

 

No, Daniele. Non ne ho più avute da quella notte. Anzi, nei giorni successivi incontrai in paese una ragazza di cui mi innamorai. Era una bella ragazza mora, occhi neri, magra, alta quanto me, un anno più piccola. Era la figlia del macellaio. La notai un giorno mentre stavo passando, con affanno, davanti al loro negozio, correvo perché ero in ritardo, avevo un appuntamento con il verduraio, al quale dovevo portare delle verdure che coltivavamo alla fattoria e che lui vendeva alla sua bancarella.

Avevo una cesta pesantissima sulle spalle ma non potei non incantarmi quando vidi Landeline in piedi sulla soglia della bottega del macellaio. I miei occhi si piantarono su di lei e non riuscii a distoglierli, se non quando scappucciai sull’orlo del marciapiede e finii in terra con tutte le verdure che rotolavano intorno. Lei corse in mio soccorso, insieme ad alcuni passanti mi aiutò a raccogliere le verdure, la ringraziai e, salutandola, me ne andai frastornato.

Il giorno dopo riuscii a indurre in casa la necessità di carne, così mi offrii per andare a comprarla dal macellaio del paese. Quando varcai la soglia della macelleria il padre di lei ricambiò il mio saluto e mi chiese che cosa desiderassi; notai la ragazza in un angolo, nascosta dietro il bancone di marmo mentre stava spennando un pollo, la salutai con un sorriso. Il padre mi richiese, stavolta malamente, che cosa desiderassi, dissi: “Un pollo, grazie”, sebbene alla fattoria avessimo polli a bizzeffe. Landeline mi riconobbe. Ricordo i suoi occhi su di me mentre il padre, voltatosi di spalle per andare a prendere un pollo appena spennato da lei, non poteva vederla. Le feci un ampio sorriso, da lei corrisposto.

Pagai e me ne andai con il pollo in un cartoccio da cui pencolava la testa, ero così incantato a pensare alla bellezza di Landeline che, appena uscito dalla macelleria, un cane gli diede un morso staccandogliela.

Il giorno successivo raccontai a Karl di chi mi ero invaghito, lui conosceva molto bene la famiglia di Landeline, così andò a trovarli con la scusa di portargli delle verdure, in tal modo riuscì a dare di nascosto a Landeline un mio biglietto. Le scrissi per chiederle se potevamo stare un po’ insieme per conoscerci; se voleva rispondermi bastava che desse il suo biglietto al figlio del verduraio, già amico di Karl e Landeline e diventato, poi, anche mio amico. Il ragazzo, opportunamente istruito da me, sarebbe stato discretissimo. Se Landeline gli avesse dato il biglietto avrebbe dovuto raggiungermi subito e io l’avrei in qualche modo ripagato della cortesia.

Ricevetti ben presto il tanto sperato biglietto, nel quale ella scrisse che era rimasta molto attratta da me, le piacevano i miei occhi allegri e il mio fare un po’ goffo per la timidezza, avrebbe voluto conoscermi di più. Ci incontrammo lungo un sentiero che attraversava il bosco vicino a casa sua, dove lei era solita fare, da sola, una passeggiata la domenica mattina dopo la Messa, in attesa del pranzo. Quella domenica, caso eccezionale, andai anch’io a Messa, poi la seguii di lontano, quando si inoltrò nel bosco, lungo il sentiero, al riparo da sguardi indiscreti, la raggiunsi.

Be’, devo dire che la Messa fu interessante. Venne letto il Vangelo in cui Gesù chiese, a quelli che sarebbero poi stati i suoi apostoli, di tornare, dopo una pesca fallimentare, a gettare le reti nel lago, promettendo loro che, sulla sua parola, avrebbero pescato tantissimi pesci. Lo fecero e, per quanto dubbiosi, pescarono i pesci promessi, anzi, ne pescarono così tanti che dovettero chiamare altre barche ad aiutarli. Quel Vangelo fu come un dardo infuocato che centra il suo bersaglio, il bersaglio ero io.

Andai all’incontro con Landeline, ancora pensando a quanto avevo ascoltato. Le chiesi se il Vangelo l’avesse colpita, disse che non se lo ricordava, sorrisi. Passeggiammo e parlammo divertiti di noi. Quando per lei fu il momento di andare a pranzo ci salutammo, ma prima le chiesi se avrebbe avuto piacere di incontrarmi nuovamente. Disse di sì, intenzionata a chiedere a suo padre se la domenica successiva avrebbe potuto, con due sue care amiche, venire a fare una gita in montagna con Karl e me. E così avvenne: la domenica successiva andammo in montagna. I tre soldati rimasero a casa, era meglio lasciare le donne in maggioranza, il padre di lei sarebbe stato più tranquillo.

Andammo a prendere Landeline a casa sua, dove già stavano le sue due amiche ad aspettarci, io e Karl non entrammo in casa, appena ci videro arrivare, le tre ragazze, uscirono velocemente. Mentre ci allontanavamo vidi il padre e la madre di Landeline che ci stavano osservando attraverso i vetri della finestra, lei si voltò verso di loro, la salutarono con un gesto delle mani.

La giornata passò bene, fu una gita spensierata di adolescenti, camminammo, mangiammo e giocammo sui prati, le ragazze erano molto simpatiche. La sera le riaccompagnammo a casa. Lasciate le due amiche davanti alle rispettive case, Karl si propose per presentarmi al padre di Landeline, lei fu entusiasta di quell’idea.

Il padre venne alla porta con uno sguardo burbero, prevenuto ma, quando la figlia, raggiante, gli si gettò con le braccia al collo, si sciolse in un vasto e prolungato sorriso, le accarezzò il volto e disse: “Figlia mia com’è andata la gita? Sei stata bene?”. “Sì papà, molto bene. Abbiamo camminato, corso e sorriso molto. Lui”, rivolta a me, “si è anche arrampicato per raccogliere questo bellissimo fiore, solo perché quando l’ho visto lassù in alto”, e indicò con il dito un punto imprecisato, “ho detto: ‘Quello è il fiore della regina delle montagne’.” Il padre mi guardò di sbieco come a intendere: “Non aspettarti che ti ringrazi, anzi stai bene attento a te.” Poi rivolgendosi a Landeline disse: “Vai in casa a salutare la mamma.” Lei andò di corsa. Rimasi con Karl e il padre. Karl prese la parola interrompendo il mio imbarazzo, mi presentò al padre dicendo che ero un suo cugino, figlio di bravissima gente venuta dalla Germania perché antinazisti. A quelle parole il padre si rasserenò, mise via l’artiglieria fittizia e accennò un sorriso stringendomi la mano. Stranamente, dopo due mie battute azzeccate, gli rimasi simpatico e mi invitò a cena con Karl per il sabato seguente. Landeline, che era appena tornata sull’uscio, appresa la notizia esultò, io con lei.

 

Io e Landeline ci frequentammo per tutto l’inverno come amici, non eravamo fidanzati. Nel corso di quei mesi non ci demmo mai neppure un bacio. Passammo anche il Natale insieme, le nostre famiglie con quella di lei. Non osavo chiedere la mano di Landeline perché sapevo che prima o poi avrei dovuto lasciare la Svizzera per tornare nella mia patria.

Tra aprile e maggio del 1945 tutto precipitò, la Germania iniziò a capitolare, l’esercito sovietico e quello statunitense si incontrarono, il 25 aprile, tagliando la Germania in due. Le prime unità a prendere contatto furono la 69ª divisione di fanteria statunitense e la 58ª divisione sovietica, vicino a Torgau, sul fiume Elba. Hitler si suicidò il 30 aprile, la guerra finì. E tutto precipitò anche su di me, i miei decisero di rientrare in Germania, di tornare a casa, c’era da ricostruire la Nazione. Ero disperato, lì avevo Landeline, Karl, nuovi amici, in Germania non avevo nessun amico come loro.

Scusa Daniele, ecco suor Ermenegilda. Prego, venga, Daniele la stava aspettando con l’acquolina in bocca.

 

Chiedo scusa per il disturbo ma questi pasticcini non possono più attendere, iniziano a manifestare una certa insofferenza, vorrebbero essere gustati. Ecco qua, anche per lei Eccellenza. Questa sera le farò il brodino, ora può fare il goloso.

 

Grazie suor Ermenegilda, non vedo l’ora di assaggiare il suo brodino, se poi vorrà metterci dentro qualche cappelletto, sarà una festa.

 

Vedremo Eccellenza, vedremo. Non mi trattengo ché vi so impegnati. Buona continuazione. Ciao Daniele.

 

Grazie suor Ermenegilda. È sempre molto gentile. Arrivederci.

 

Continuo. Tu Daniele mangia pure, se vuoi prendi anche i miei pasticcini, in ogni caso il brodino è assegnato.

 

I tre giovani soldati, Jürgen, Curd e Eilmar partirono alla fine di maggio, tornarono dalle loro famiglie, erano felici. La mia partenza fu invece uno strazio, Landeline era affranta dalla notizia, le dissi: “Se sarà volontà di Dio tornerò.” Non so perché dissi così, non era una affermazione che mi apparteneva, mi era uscita dalla bocca senza volerlo, e lo notai.

La sera che seppi la data della mia partenza feci arrivare un messaggio a Landeline, la quale, molto scossa, volle a tutti i costi vedermi. Trovammo una copertura grazie a una sua carissima amica, una delle due ragazze della prima gita in montagna. Disse ai genitori che sarebbe andata da lei e, invece, venne da me.

Arrivò nel buio, le corsi incontro. Mi abbracciò piangendo, anch’io la abbracciai molto forte, finché smise di piangere. Sentivo il profumo dei suoi capelli salire nelle mie narici, aveva intorno alla testa un alone “luminoso” per l’olfatto; quel profumo gliel’avevo sempre sentito addosso ma solo ora diventava per me così necessario e scoprivo quanto avrei voluto averlo sempre nelle mie narici, ogni notte, con lei tra le mie braccia: Landeline e io, insieme per sempre. Mi destai da questi pensieri quando mi fece una carezza sul volto. Le baciai la mano e decisi di portarla nella “Fossa della luna e dell’amore” (così avevamo chiamato la fossa sotto l’abete dopo quella notte d’amore con Karl, Jürgen e Curd).

Lì nascosti, nel silenzio della sera illuminata da una debole luna primaverile, ci stringemmo l’un l’altra, senza troppe parole. Il battito del suo cuore sul mio e il suo respiro vicino al mio orecchio, erano tutto ciò che pensavo di desiderare per la mia vita futura. La scostai un poco per guardarla in volto, dove i raggi di luna toccavano la sua pelle, la rendevano chiara come alabastro, gli occhi lucidi erano come due perle; non potrò mai dimenticare lo sguardo d’amore di Landeline mentre si avvicinava lentamente con il suo volto, fino ad appoggiare le sue labbra sulle mie, restammo così, a occhi chiusi, nei fiati si rimescolavano anche i nostri pensieri. Infine non resistetti, aprii la bocca e la baciai, facemmo l’amore. Fu come un frutto maturo che si dischiuse da solo, all’improvviso. Lo gustammo dolcemente.

Restammo a lungo sdraiati nella fossa, fintanto che l’ora tarda e il freddo ci imposero di tornare alle nostre case, la accompagnai. Camminavamo abbracciati e in silenzio. Sembrava preoccupata, forse perché mi aveva donato qualcosa che non avrei più potuto ridarle ma era felice, mi disse proprio così: “Sono felice”.

Personalmente avevo il timore che fosse rimasta incinta, non mi ero infatti regolato e, andando via, la lasciavo sola. Pensai però che non avrei esitato a tornare, qualora fosse successo il fatto, ma non sapevo come dirglielo. Aveva anche lei quella stessa preoccupazione? Decisi di informare Karl dell’accaduto, gli imposi il segreto e la discrezione e di vegliare su di lei; gli dissi che se avesse avuto anche solo il vago sentore di una sua gravidanza di farmelo immediatamente sapere, sarei in qualche modo tornato.

Di lì a pochi giorni partii con la mia famiglia, avevo ormai diciotto anni.

 

Gli anni passarono e non rividi mai più Landeline. Continuammo a scriverci lettere per cinque o sei mesi dal nostro distacco, poi, rassicurato da Karl, decisi di entrare in Seminario, la informai, di comune accordo interrompemmo la corrispondenza. La decisione di entrare in Seminario mi entrò in cuore e non tornai più indietro. Dovevo diventare veramente sacerdote? Forse sì, oggi posso dire che c’è un’altissima probabilità che fosse proprio quello che Dio chiedeva a me… ma la certezza assoluta non ce l’ho.

Tutta la mia vita fu decisa in quell’anno di esilio svizzero. Feci l’esperienza omosessuale, l’esperienza eterosessuale e l’esperienza del sacerdozio universale, scelsi quest’ultimo e la castità che richiedeva. Quando entrai in Seminario, il primo giorno, mi sentii alleggerito e libero, molto semplicemente pensai: “Se son rose fioriranno.” In tutti questi anni posso dire di essere stato fedele alla mia scelta: con la grazia di Dio, almeno fino a ora, sono state rose fiorite… ma anche spine.

La vita è una questione di fedeltà, dalla quale si evidenziano la forza e la personalità di un individuo. Fai una scelta e sii fedele alla scelta, cambia la rotta soltanto quando il mare che stai navigando non è in tempesta, così insegnava Sant’Ignazio di Loyola.

Ci vogliono discernimento e capacità di attesa, qualche volta bisogna saper sdrammatizzare e sorridere dei nostri errori, in tal modo si riesce a vedere la strada anche nella notte; poi arriva l’alba e le motivazioni tornano chiare.

La maggior parte dei problemi, derivanti dalle nostre scelte, sono dovuti alla modesta scorta di “viveri”, alias fede e motivazioni, che facciamo alla partenza e che non ci permettono di arrivare neanche alla prima tappa, siamo cioè degli sprovveduti.

Perché scegliamo di percorrere una certa strada? Per opportunismo? Per prestigio? Perché tutti lo fanno? Per paura di quello che altrimenti potrebbe pensare la gente?

Penso che una strada vada scelta e percorsa perché siamo intimamente certi, in coscienza, in un momento di profonda verità con noi stessi, che quella è per noi la Strada. Allora facciamo scorte sufficienti per arrivare almeno alla prima tappa e partiamo.

Caro Daniele, riguardo alla mia storia ci sarebbero da dire molte altre cose, ma ciò che mi interessava era parlarti delle tre possibili vie che mi si presentavano davanti.

Perché ho scelto proprio questa in cui mi vedi? Non lo so. So solo che, in un momento di verità con me stesso, ho pensato che questa fosse la mia, anche confermata da chi di dovere. Ti faccio notare che le altre due opzioni sarebbero state entrambe possibili, non è che non le ho scelte per moralismo cattolico, o perché conoscevo la dottrina della Chiesa sul peccato e pertanto, per paura dell’Inferno, ho messo da parte la scelta omosessuale, no, non le ho scelte semplicemente perché questa soltanto, in cui mi vedi, ho avvertito essere la via adatta a me. Perché lo era? Boh, potrei raccontarti mille fatti che cercherebbero soltanto vagamente di giustificarmi, ma non riuscirei mai a farti vedere ciò che io vidi in me e intorno a me, per cui la scelsi. È stata una chiamata? Forse. Ma poteva essere una chiamata anche vivere la mia vita con Landeline, oppure con un uomo, con Karl? Con Jürgen? Con Curd? Con tutti e tre? La chiamata di Dio è una chiamata alla vita piena, è un invito a andare incontro a sé stessi e al Dio in noi; la nostra coscienza sa quello che siamo e quello che effettivamente dobbiamo fare per arrivare alla casa del Padre, come bambini in corsa che solo lì hanno rifugio e riposo. Ci sono delle aspirazioni profonde che Dio mette in noi e che ci costituiscono.

Dunque la domanda che ti devi porre è: “Che cosa vedo davanti a me? Quale strada mi mette nella pace? Che cos’è che veramente vorrei realizzare nella mia vita? Se fossi sul letto di morte, che rimpianto avrei, che cosa non ho fatto e che avrei dovuto o voluto fare?” A te la risposta per te stesso. [...]

 

[ Racconto estratto dal X capitolo del romanzo L'ordine morale del Paradiso, di Roberto Maggiani, LaRecherche.it ]

 


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