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Marianna al bivio

di Alberto Rizzi
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Pubblicato il 28/02/2017 15:59:44

La città era un brivido di gelo; nient’altro.

         Non sapeva come fosse finita lì, in quella stazione nella quale aveva passato la nottata, scossa dal rotolare cadenzato dei treni alle sue spalle; ma in quella circostanza contava poco. Tanto, non si sarebbe potuta permettere un albergo; tanto, non era venuta per restare. Uscì ad affrontare le strade di periferia e la neve sovrana che le ricopriva di calma uniforme.

         Della notte ricordava poco e oltretutto di ricordare le importava meno; nessun sogno particolare, il rumore dei treni che ogni tanto la faceva riemergere, quasi naufraga, alla superficie del sonno; aveva avuto la certezza che qualcuno (più d’uno: extracomunitari? tossici? barboni?) ogni tanto le si fosse avvicinato. Aveva confidato nel mazzo di chiavi stretto fra le nocche della destra, le loro punte sporgenti in fuori come un tirapugni: non era accaduto nulla.

         Ad ogni modo i pensieri non l’avevano abbandonata, nemmeno in quel sonno agitato. Scappare di casa a sedici anni per andare ad una festa in una città straniera? Strafarsi di alcool e chissà che altro con un paio di amiche? No, non l’avrebbe fatto, se non fosse stata certa che ci sarebbe stato “lui”: lui che sapeva di angelo caduto nel modo di vestirsi, di muoversi e di guardare; che aveva incontrato per caso e che l’aveva lasciata con una promessa; lui che le ricordava i suoi sogni ad occhi aperti, in faccia alla copertina di qualche CD.

         Lui che, durante quella festa, l’aveva solo salutata e stretta in un abbraccio di circostanza, per dedicarsi subito ad un’altra.

         E adesso, perché aveva quei due segni sul viso, quei due lividi di cui nulla ricordava? Era così normale avanzare in mezzo alla neve di quelle strade viste prima solo di sfuggita, con indosso un giubbotto che non ricordava suo, e sotto il leggero vestito della sera di festa, pizzi e plastica nera? Si tastò quei due segni e, mentre continuava a camminare verso nessun dove, ebbe come un capogiro, una vertigine, un ritorcersi in negativo del paesaggio attorno con il nero per il bianco e viceversa.

         E allora abbassò gli occhi e la vide, emergente dal nigrore che segnava la strada, come un relitto mezz’impaltato nel fango del fondo di una palude: carne aperta da coltello, i due lividi sul viso ben noto da cui nasceva una domanda.

         “E’ questo il mio destino?”

         Forse.” – Le mormorò la voce dentro.

         “Forse non è una risposta: è né sì né no, né carne né pesce.”

         È vero; però è in questo modo che stanno le tue cose. Tutti voi scegliete senza accorgervene: siete ogni momento di fronte a dei bivi, le direzioni sono preordinate, ma la scelta è libera; e c’è sempre una scelta. Questo è uno di quei momenti, così rari ormai per voi umani dopo epoche andate nelle quali non era così, quando è possibile rendersi conto delle conseguenze di tali scelte.

         “E chi dovrei ringraziare per questo?”

         Non ti è concesso, per ora, di sapere.

         Provò con qualche altra domanda, ma la voce le si era taciuta. Ai suoi piedi solo la carcassa di un grosso ratto, il ventre squarciato e svuotato dagli artigli di un qualche predatore; attorno i colori erano tornati naturali, dominante di bianco nei rumori attutiti delle rare automobili, nelle sue ossa che tremavano a ritmo col gelo mattutino. La stazione da una parte, la città dall’altra.

         Marianna si guardò intorno e scelse la direzione.


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