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Schizzo

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 25/02/2024 12:32:21

SCHIZZO

È arrivata la solita lettera fiume. Le ho risposto evitando di omettere qualche punto. Ha replicato affermando che il nostro dialogo si riduce alla formula: a domanda risponde. Dove a domandare sarebbe sempre lei e a rispondere, io.
Ma che dovrei fare? Il mio mondo è la pittura, l’Accademia e la quiete. Soprattutto la quiete.
Dice che sta avviando le pratiche per il divorzio e che vorrebbe essere sostenuta in questo difficile momento. Difatti io la sostengo. Poi, non so cosa farà. Non mi riguarda.
Dice anche che vorrebbe andare al Comunale con me almeno una volta, che la stagione è zeppa di novità. Le rispondo che usare la macchina a Bologna significa non parcheggiare.
Lei ridacchia e si vanta di andare al tribunale in motocicletta appoggiando sui pedali le scarpe con i tacchi. E dice che potrei anch’io dotarmi del centauro. Ma io mai, e neanche sotto tortura, mi metterei a cavallo di quella forma sgraziata e mostruosamente bardato. Per me esiste la camminata a piedi sotto i portici con i passi che rimbombano solitari assieme ai pensieri.
So che mi idolatra da quando insegnavo al Galvani e, dopo che mi ha rincontrato sul blog, e io, sventurato, le ho risposto, non mi molla un secondo come se io fossi la risoluzione a tutti i suoi mali.
Tu sei sensibile, tu mi capisci, tu sei un artista, ma anche: sei narcisista, sei chiuso, sei cinico.
È una bambina graziosa e capricciosa, disarmata e dispotica.
Non capisce che io vivo nel mondo recitando la mia parte da buon attore. È l’unico modo che conosco per non farmi trafiggere, sapendo la precarietà dei sentimenti, la volubilità degli esseri umani e le loro contraddizioni. Assecondo empaticamente cercando di vivere l’altro, so di essere io stesso abitato dall’alterità e perciò faccio grazia di attenzione ma non fino ad annullarmi, è ovvio.
Incontro gli studenti non solo durante le lezioni canoniche ma anche nel pomeriggio dei venerdì, in Accademia, nella piccola aula che raccoglie i calchi con le cere. Dico loro che bisogna evitare gli stereotipi e che non devono smettere di cercare nella profondità del sentire le corrispondenze solo apparentemente alogiche.
Non so perché mi attribuiscano qualità superiori a quelle che realmente possiedo. Confesso che la cosa in parte mi infastidisce ma, a volte, mi risulta comoda.
Dicono che faccio sentire le persone importanti, ma il momento che prediligo è quando chiudo il di fuori con la porta di casa e assaporo la quiete, lontano dal frastuono, dalle discussioni inutili che sottraggono energie e quasi sempre non hanno risoluzione.
Lei si è incuneata dentro la mia quiete agitando le nacchere, in un presenzialismo continuo che, forse, vorrebbe diffondere affascinanti rapsodie ma che si traduce spesso in un accompagnamento giocato sulle stesse note.
Io spremo i miei tubetti e do forma alle idee distribuendo il colore. A volte sovrappongo il figurativo che non ho mai abbandonato ma credo che lei capisca ben poco della mia arte, benché affermi di capire e avanzi considerazioni. La verità è che mi usa e io mi faccio usare, anche quando mantengo le distanze.
Ci sono in lei delle dimensioni che mi sono estranee. Quel certo dinamismo un po’ sbracato e quell’esuberanza da figlia del popolo non mi piacciono.
Lei dice che sono un sofisticato cultore dell’eleganza con cui voglio elevarmi al di sopra della massa come un moderno Des Esseintes. Poi si corregge e si sforza di riconoscere le componenti del mio Io. Senza riuscirci, se non in parte.
Io, del resto, non conosco appieno le sue sfaccettature e in questo quantomeno siamo pari. Anzi no. Non possiamo esserlo. Perché lei punge e accusa da buona venusiana, io, invece, taccio e non mi aspetto nulla.

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