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Novelle anni ’60. II. La tuta

di Silvia Rizzo
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Pubblicato il 08/12/2010 12:27:08

Era minuta ed esile, di statura non alta, e dimostrava anche meno dei suoi diciotto anni. Era diversa dalle compagne con cui si allenava, tutte pienamente sviluppate, alte e fiorenti, con seni rigogliosi. Forse non era brutta e a guardarla attentamente poteva anche dirsi graziosa, ma facilmente passava inosservata, anche perché era schiva, timida, di poche parole. Da quattro anni veniva regolarmente al campo ad allenarsi e partecipava a tutte le gare senza mai arrivare né prima né ultima. Era ormai fra le più anziane della società sportiva. Del resto molte lasciavano dopo due o tre anni perché cominciavano ad uscire col ragazzo e non avevano più tempo né interesse.
Si allenava quasi sempre da sola - non aveva fatto amicizia con nessuno - eseguendo coscienziosamente i compiti che l'allenatore le assegnava. Veniva tutto l'anno: d'estate, quando il campo era oppresso dall'afa e solo poche ragazze si allenavano correndo svogliatamente sull'erba a piedi nudi e qualcuna si sdraiava madida di sudore all'ombra dei grandi pini; d'inverno, quando una pioggia leggera, monotona e sottile penetrava a poco a poco attraverso le tute o quando l'aria era invece gelida e tersa e le rovine rossicce delle terme di Caracalla nello sfondo, le verdi ombrelle dei pini, la trama sottile dei rami degli alberi spogli erano nitidi e lieti nel sole invernale; in primavera, quando il campo era affollato di tute rosse, gialle, blu, nere, che correvano su e giù, sparpagliate o in gruppi, e c'erano bianche margheritine e odore d'erba calpestata e negli spogliatoi fra le docce fumiganti un afrore forte emanava da tutta quella carne giovane e accaldata dall'attività fisica.
Veniva e si allenava e l'allenatore non l'aveva mai sentita dire «Sono stanca». Faceva gare impegnative: i quattrocento e gli ottocento metri piani, gare nelle quali gli ultimi cento metri fino al traguardo sono spesso una lotta contro la fatica che fiacca le gambe, un correre ormai solo con la volontà e un gettarsi sul filo di lana con le ultime forze per strappare un piazzamento migliore. L'allenatore diceva che aveva «grinta».
Non era cresciuta né cambiata dalla prima volta che si era presentata accompagnata dalla mamma ed era stata accolta nella società: sempre uguale, sempre infagottata in una sua tuta di una taglia superiore alla sua, che la rendeva goffa. La tuta: ecco il suo grande, inconfessato desiderio. La tuta col marchio della società in un triangolino sul petto, di maglia aderente, di un azzurro elettrico, con la chiusura lampo davanti come nelle giacche a vento e il collo un po' alto. Tutte l'avevano nella società e anche a quelle venute da poco l'allenatore si affrettava a darla. La desiderava tanto, ma non osava chiederla. Si accontentava di sognare il giorno in cui, in una gara molto importante, lei sarebbe arrivata prima con un ottimo tempo facendo prendere un buon punteggio alla società. In premio avrebbe finalmente avuto la tuta nuova, fiammante.
Un giorno l'allenatore le chiese una dura prova: partecipare alla corsa campestre, la gara più difficile e faticosa, quella che tutte temevano. Accettò e si preparò col solito scrupolo, raddoppiando le distanze percorse in allenamento e lottando contro la fatica.
Il giorno prima della gara accadde una cosa incredibile: stava per tornare nello spogliatoio quando l'allenatore la chiamò, tirò fuori dalla borsa una tuta nuova e gliela consegnò. Il cuore le dette un balzo. La prese con reverenza e riuscì a dire appena un timido «Grazie!», ma gli angoli della bocca le si aprivano involontariamente al sorriso. Volse il capo per nasconderlo e corse via.
Tornò a casa con due tute nella borsa, la nuova e la vecchia. La borsa pesava, ma lei non se ne curava; desiderava soltanto che il tram corresse più veloce senza fermarsi ogni momento per far salire e scendere i passeggeri, costringendola a ripetere sul ritmo del motore: «La tu-ta, la tu-ta». Avrebbe voluto essere già a casa per indossarla e mostrarsi tutta fiera alla mamma e ai fratelli.
Giunse finalmente. Corse su per le scale facendole a due a due e andò a chiudersi in camera col cuore in gola. Tirò fuori la sua bella tuta nuova e la distese sul letto; le parve un po' grande, ma non ci fece caso. Ma poi la indossò e allora osò appena sollevare lo sguardo allo specchio; e lo specchio le rimandò beffardo l'immagine di una ragazzina minuta (oh, non li dimostrava certo i suoi diciotto anni!) infagottata in una tuta enorme, con le braccia che sparivano nelle maniche lunghissime e la maglia pendeva tristemente da tutte le parti sul suo corpo piccolino. Restò a lungo a guardarsi; poi con gesti rapidi si tolse la tuta, la ripiegò con cura e la nascose nel più profondo dei suoi cassetti.

(19 marzo 1964, rivista il 23 dicembre 2003)

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