Un messaggio ampio, prolungato, mai scarnito, apodittico, quello di Ivan Pozzoni. Si può senz’altro dire che la sua poesia appartiene a un rituale nuovo, lontano dalla classica positura, da un verseggiare fatto di fiori e rosette affidati a un linguismo di sinestetici accostamenti. I problemi si accavallano nel suo poema, si fanno cocenti nell’intenzione di delineare un sociale da correggere e rivedere. Si apprezzano da subito i titoli, gli incipit delle sue poesie che ci svegliano, facendoci sobbalzare, inquietandoci, e sottraendoci alla nostra indifferenza: I morti di fame stanno nelle accademie, Pane al pane, Assalto ai forni, In vino vanitas, All’osteria dell’amore solido, Mamma, sono un autistico, Il medico dei matti, Equitaglia, fino a L’epigrammista menefreghista:
“Per farti divertire, lettore sbracato sul divano
devo inventare senza sosta rime da sciamano,
non bastano al feroce epigrammista assonanze cuore – sole- mare, –
desideri torcermi il cervello con rime tipo gong/ sarong o bordeaux/ trumeau,
ma, credendo di mettere i tuoi tredici neuroni in un caveau,
ricevi, inaspettatamente, in cambio, un radioso “vaccagare”.
Non c’è altro da dire: un realismo da pane al pane e vino al vino; o meglio, da “scrivi come mangi!, e non ti nascondere in virtualismi letterari di sapore arcaico”.
Modernità a tinte forti, dove la ricerca del verbo si incanala in un fiume che talvolta scende nel sottosuolo come un torrente carsico, finché scopre un’apertura, vede la luce, brilla e scorre in superficie; va impetuoso portandosi riflessi di sole e ombre di selve. Ma l’acqua che fluisce è limpida e chiara, e nella corsa fa trasparire la varietà cromatica dei fondali; l’energica freschezza.
[recensione a Cherchez la troika, Limina Mentis, 2016, sul blog Alla volta di Leucade]
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