:: Pagina iniziale | Autenticati | Registrati | Tutti gli autori | Biografie | Ricerca | Altri siti ::  :: Chi siamo | Contatti ::
:: Poesia | Aforismi | Prosa/Narrativa | Pensieri | Articoli | Saggi | Eventi | Autori proposti | 4 mani  ::
:: Poesia della settimana | Recensioni | Interviste | Libri liberi [eBook] | I libri vagabondi [book crossing] ::  :: Commenti dei lettori ::
 

Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

Sei nella sezione Proposta_Articolo
gli ultimi 15 titoli pubblicati in questa sezione
gestisci le tue pubblicazioni »

Pagina aperta 2068 volte, esclusa la tua visita
Ultima visita il Mon Apr 8 03:06:38 UTC+0200 2024
Moderatore »
se ti autentichi puoi inserire un segnalibro in questa pagina

È tempo di scrivere...

Argomento: Letteratura

Articolo di Daniele Garritano (Biografia)

Proposta di Redazione LaRecherche.it

« indietro | stampa | invia ad un amico »
# 0 commenti: Leggi | Commenta » | commenta con il testo a fronte »




Pubblicato il 11/07/2013 19:45:41

È TEMPO DI SCRIVERE. NOTE SULL’ARTE COME ESPERIENZA RELIGIOSA IN LE TEMPS RETROUVÉ

 

[ Articolo pubblicato in Salon Proust ]

 

  

Honoré Daumier, caricatura del Salon de Paris

 

 

In un saggio pubblicato nel 1959, Maurice Blanchot affida a queste parole un tentativo di spiegazione dell’esperienza proustiana di un tempo sacro, separato dal tempo comune, che costituirebbe la condizione di possibilità dell’opera d’arte nella Recherche:

 

Indubbiamente Proust non rinunciò mai ad interpretare anche questi istanti come segni dell’intemporale; egli li vedrà sempre come una presenza liberata dall’ordine del tempo. Lo «choc» meraviglioso che egli prova vivendoli, la certezza di ritrovarsi dopo essersi perduto, questo riconoscimento è la sua verità mistica, che non vuole mettere in discussione. È la sua fede e la sua religione, così come egli tende a credere che vi sia un mondo di essenze intemporali che l’arte può aiutare a rappresentare[1].

 

È così, con il carattere di choc, che taluni episodi – schegge del reale che fendono la superficie della coscienza – vengono «vissuti e rivissuti nella simultaneità intermittente di tutta una vita». E sono proprio questi episodi fulminei a rivelare il carattere orizzontale della rigenerazione del tempo che segna l’esperienza dell’arte in quanto apertura al sacro.

 

Cattedrale o monumento druidico?

 

Se la memoria involontaria rappresenta una delle principali modalità di rivelazione dei «segni dell’intemporale», sarà necessario riconoscere nel Tempo ritrovato non soltanto una “monumentale” lezione d’estetica, ma anche una sorta di documento in cui si compie la confessione volontaria di Marcel in quanto eroe e narratore del romanzo. Ora – ammesso che si possa inquadrare in questo senso il lascito dell’ultimo libro della Recherche – resterebbe in ogni caso una domanda ineleminabile: quale valore dare a questa (possibile) confessione? L’idea che anima questa parte dell’opera potrebbe non essere troppo distante da ciò che Rousseau aveva affermato, nelle sue Confessioni, a proposito del valore dei fatti in un’autobiografia spirituale. La relazione tra gli avvenimenti della vita è posta per supportare una seconda biografia, quella della vita interiore. Anche gli incidenti minuscoli dovranno rientrare nel racconto dei fatti, poiché i fatti stessi «ne sont ici que des causes occasionelles»[2]. La vita del protagonista della Recherche è dominata, da un certo punto in poi (ovvero dal momento in cui l’esperienza della morte e della separazione s’installa definitivamente nel cuore del protagonista, allo stesso modo in cui l’asma si era installato così presto nei suoi bronchi) da un repentino ritiro dal mondo. Sarebbe interessante provare ad analizzare nel dettaglio la nozione di “mondo” in Proust. Essa non nasconde un riferimento al Faubourg Saint-Germain: al tempo perduto della mondanità in cui lo scrittore è stato immerso, da cui ha tratto ispirazione per molti dei suoi personaggi e, probabilmente, per l’idea stessa di “rappresentazione” insita nel Faubourg in quanto scena all’interno del romanzo[3]. Tuttavia l’interesse sociologico e teatrale di questa nozione di mondo è, almeno in questo caso, secondario rispetto al significato segreto del ritiro che porterà l’eroe a decidersi, per un senso di necessità intrinseca, ad iniziare di colpo ciò che aveva rimandato per tutta la sua esistenza.

In questo ritiro dal mondo si inscrive ciò che Roland Barthes ha definito, in un articolo del 1979, l’enigma della creazione di Proust[4]. Alla base della curiosità di Barthes troviamo il cambio di passo repentino che ha definito, nella biografia di Proust, la decisione di iniziare a scrivere la Recherche. Fino al 1909 lo scrittore conduce una vita mondana assai attiva, «scrive qua e là, questo o quello, cerca, prova, ma evidentemente la grande opera non “prende”»; cosa succede a partire da quell’anno, più precisamente dal mese di settembre? Il silenzio in cui si rinserra il Proust mondano è leggibile come una sorta di valico che definisce un “prima” («la mondanità, l’esitazione creativa») e un “dopo” («il ritiro, la disciplina»). Tra queste due fasi della vita artistica di Proust si incrocia la scoperta di un ordine creatore: a partire da quel momento – e fino agli ultimi giorni di malattia nel 1922 – lo scrittore dedicherà tutte le sue forze alla stesura febbrile del suo romanzo, trasformando la notte in giorno, in una sorta di isolamento mistico. Così, almeno, nella lettura di Barthes.

Il ritiro dal mondo, la decisione di escludere dall’ordine degli impegni quotidiani tutta una serie di occupazioni (visite, corrispondenza, serate ufficiali...) per far spazio all’unica attività cui valesse la pena sacrificare le ultime energie concesse dall’aggravarsi dell’asma, costituisce perciò un punto limite. Il limite di questo punto rappresenta per Marcel Proust l’esperienza della soglia, della porta da valicare per accedere al dominio dell’arte. La dimensione sacra dell’arte – eccedenza di cui la vita non conserva che qualche sentore – è accessibile solo attraverso un passaggio, che in parte coincide con un sacrificio. Così, per tornare al romanzo, possiamo leggere nel Tempo ritrovato passi come il seguente:

 

Non sapevo se si sarebbe trattato di una chiesa dove dei fedeli avrebbero potuto a poco a poco apprendere verità e scoprire armonie, il grande progetto d’insieme, o d’un qualcosa destinato a restare per sempre infrequentato, come un monumento druidico sulla sommità di un’isola. Ma ero deciso a consacrarvi le mie forze, che svanivano come a malincuore e come se avessero voluto lasciarmi il tempo, portata a termine la struttura perimetrale, di chiudere “la porta funeraria”[5].

 

A quale costruzione l’eroe del romanzo decide, finalmente, di consacrare le sue forze? Certamente il libro, la risposta è scontata. Ma si tratta di interrogare, più che il risultato del lavoro (posto, nel precedente passaggio, in chiave ipotetica dallo stesso narratore), il movimento che precede e in qualche modo informa tale costruzione. L’esperienza del ritiro coincide, a questo punto del romanzo, con quella di un raccoglimento estremo, di una concentrazione di energie, di un silenzio che può far pensare all’esperienza del deserto. Il carattere religioso dell’esperienza letteraria proustiana è indisgiungibile dall’esperienza del mistico, che fa del desiderio di unione con Dio una disciplina rigorosa, rispetto alla quale tutto il resto dev’essere sacrificato[6]. Il silenzio di Proust non è, dunque, un segno di paralisi né di rassegnazione di fronte all’ineludibile della morte; al contrario, esso rappresenta lo stadio di una mobilitazione di tutte le energie necessarie alla realizzazione dell’opera d’arte. Proust, d’altronde, era ben consapevole del carattere totale di quest’investimento, il cui riverbero si avverte soprattutto nel Tempo ritrovato. Egli sapeva fin troppo bene che la via da percorrere non gli avrebbe concesso più altro tempo, poiché finalmente si trovava sulla “stella” di un crocevia, al punto di convergenza fra le strade più disparate della sua vita.

 

Quell’idea del Tempo aveva infine per me un ultimo pregio, era un pungolo, mi diceva che era tempo di cominciare se volevo giungere a ciò che avevo qualche volta sentito nel corso della mia vita, a brevi lampi, (…) e che mi aveva fatto considerare la vita come degna di essere vissuta. Quanto più mi sembrava tale ora, ora che mi sembrava possibile, lei che viene vissuta nelle tenebre, chiarirla, riportarla, lei che falsiamo senza sosta, al vero di se stessa, insomma realizzarla in un libro[7]!

 

La trasfigurazione che caratterizza il dominio dell’arte finisce per agire sull’artista stesso, che si trova a comporre se stesso nel momento in cui compone la propria opera. Ciò a cui Proust si riferisce parlando di «un pungolo» può esser paragonato alla pressione che il Tempo esercita sul corpo e, attraverso esso, sull’intera vita del soggetto dell’esperienza. Nella narrazione proustiana si apre uno scenario in cui l’arte interviene indirettamente sull’esistenza per modificarla attraverso le sensazioni e gli affetti che agiscono sul piano sensibile. L’intermediario di questa trasfigurazione è il desiderio di congiungersi a un altro tempo (quello che irrimediabilmente sfugge): è così che nasce materialmente il desiderio di scrivere. Questo punto significa per Proust l’uscita dal mondo, la scommessa di poter raggiungere una salvezza senza Dio, che egli ha cercato nella scrittura e nell’arte. Il carattere “privato” di questa impresa di redenzione genera uno stato di tensione rispetto alla possibilità di aprire l’involucro di quest’esperienza, di trasfigurarla in un libro, di farne qualcosa per sé e per gli altri che verranno dopo: di «realizzarla». Il narratore stesso sembra non sapere se il monumento che si accinge a costruire sarebbe stato «il grande progetto d’insieme» di una cattedrale, oppure «il monumento druidico sulla sommità di un’isola», «destinato a restare per sempre infrequentato». Questa tensione, tuttavia, non genera un effetto paralizzante sullo scrittore; anzi, è uno di quegli interrogativi in grado di alimentare la solida incertezza che è la realtà del desiderio.

È Proust stesso ad attraversare questa impasse, quanto meno a livello delle intenzioni, quando descrive il compito dello scrittore definendolo come una forma di «egoismo utile agli altri». «La redenzione è una mia impresa privata»: queste parole di Proust – care a Walter Benjamin – assegnano alla solitudine il ruolo di un’impronta indelebile posta nel cuore dell’esperienza proustiana[8]. A scandire le tappe di questo percorso, potremmo rileggere uno tra i più famosi versi di Hölderlin: «là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva». Essendo la salvezza, la sua afferrabilità, il contrappunto dei desideri dell’eroe della Recherche, si comprende il senso di alcune affermazioni contenute nelle pagine finali del romanzo: «E avrei finalmente realizzato ciò che tanto avevo desiderato»[9]; «... questo timore ragionato del pericolo [il timore di non essere più io], (…) a forza di ripetersi, si era naturalmente mutato in una calma fiducia»[10]; «capivo infatti che morire non era qualcosa di nuovo, che dall’infanzia in poi ero già morto tante volte»[11].

 

“Il faut que l’herbe pousse et les enfants meurent”

 

Il senso di questo inabissamento conserva in sé certamente qualcosa di incomunicabile, il cui percorso non può essere spiegato ma soltanto mostrato. È quanto rileva Samuel Beckett nel suo saggio su Proust del 1931: «La sola ricerca feconda è uno scavo, un’immersione, una contrazione dello spirito, una discesa in profondità. L’artista è attivo, ma negativamente: si ritrae dalla nullità di ciò che appare in superficie, ed è trascinato nel cuore del vortice»[12]. L’ineffabilità del lavoro di scavo, che sostiene – in un senso tutt’altro che paradossale – l’opera d’arte, conferma quanto Blanchot aveva già notato a proposito del tempo del racconto: quanto più si scende in profondità, tanto più le coordinate della discesa diventano immaginarie. In questo senso si può parlare di uno spiegamento dell’interiorità affettiva nell’esteriorità di un’immagine; la rivelazione del tempo puro è il principio delle metamorfosi che fondano l’immaginario proustiano. Nel moto vertiginoso di resurrezione del passato, l’immagine errante dell’Io si spoglia sempre più; rende visibili i suoi strati e le sue profondità, attraversate da una lontananza «in cui tutto è sempre dato, tutto è ritirato, incessantemente». L’offerta che il Tempo porge a Marcel, eroe e narratore della Recherche, non è negoziabile: insieme alla rivelazione, al Tempo ritrovato, c’è sempre anche un venir meno, il tempo perduto. In altre parole, la rigenerazione del Tempo passa inevitabilmente attraverso la morte.

 

Eppure, catturato dal vortice dell’immaginario che sovrintende alle resurrezioni poetiche del passato, il narratore non perde di vista la sua verità mistica: egli non smette di credere al potere dell’arte, al suo significato trascendente, alla sua impresa di salvezza. Il riferimento a Hölderlin, all’ambigua vicinanza tra la perdita e la salvezza nel fare poetico, sembra quanto mai appropriato.

 

Un secondo riferimento analogico, che probabilmente si adatta meglio al disegno di un “profilo” di Proust, appartiene invece alla figura del mistico, a una certa maniera di affrontare l’esperienza religiosa. Sottolineando il carattere sacro delle resurrezioni della memoria[13], richiamandosi all’immagine della costruzione di una cattedrale, intendendo in un primo momento dare come titolo al suo libro L’Adoration Perpétuelle, Proust gioca con il lettore, indicandogli alcuni segni da decifrare per leggere la sua opera come il racconto di un’esperienza sacra. La rigenerazione del tempo attraverso l’arte sembra coincidere, nell’ottica dell’autore, con una vera e propria manifestazione del sacro.

Lo storico delle religioni Mircea Eliade, in un testo dedicato alla definizione del sacro nell’esperienza dell’homo religiosus, sostiene che «nella manifestazione del sacro, un oggetto qualsiasi diventa un’altra cosa, senza cessare di essere sé stesso»[14]. È così che un libro può, almeno virtualmente, diventare una cattedrale. In questo stesso senso, Proust ci descrive l’ospedale dipinto da Elstir, il pittore impressionista cha ha affascinato il protagonista al tempo delle fanciulle in fiore: l’ospedale sotto il cielo di lapislazzuli vale il glorioso portale della cattedrale gotica. L’esperienza artistica ha in comune con quella religiosa la potenza della trasfigurazione, se non della metamorfosi. Ciò che differenzia le due esperienze è la direzione di questa potenza maestosa capace di trasformare le cose. Diretta verso l’alto è la trascendenza divina, la sua rigenerazione si compie passando attraverso la Porta del Paradiso; ripiegata, invece, sull’orizzonte mondo, la forza metamorfica dell’arte opera le sue trasfigurazioni attraverso un gioco prospettico. Attraverso la smaterializzazione degli oggetti, l’arte fa scorgere sulla terra una dimensione extra-temporale[15].

La possibilità di un tempo sacro implica direttamente la negazione dell’omogeneità del tempo. Il sacro – allo stesso modo dell’esperienza proustiana che si traduce nella scrittura della Recherche – si rivela per riattualizzazioni, e non per semplici commemorazioni. Esso segna la rottura della durata continua del tempo profano e l’irruzione di un extra-temporale. Si tratta di un’esperienza del dehors: un fuori-tempo in cui riemergono i frammenti di un altro tempo – frammenti esclusi dalla trama del vissuto, eppure, in forza della loro stessa esclusione, sempre presenti sul fondo dell’esperienza.

 

L’uomo religioso sbocca periodicamente nel tempo mitico e sacro, ritrova il Tempo originario, che “non passa” poiché esso non fa parte della durata temporale profana ed è costituito da un eterno presente, indefinitamente ricuperabile[16].

 

Il Tempo sacro si configura, dunque, come una “fuoriuscita” dal tempo profano. Già Blanchot aveva notato l’originalità della vocazione proustiana, indicando il “tempo di scrivere” come l’«esperienza di una struttura originale del tempo, riferibile alla possibilità di scrivere (…), la grande scoperta del Temps Retrouvé»[17]. Più che un rifiuto del tempo profano, sul modello di un’evasione dal tempo distruttore, il desiderio di rinnovare il sacramento del Tempo, attraverso la riemersione di un passato prigioniero di profondità insondabili, sembra invece porsi come un tentativo di valorizzare la realtà di questa vita. L’irruzione improvvisa di un Tempo immaginario, di un tempo che rimanda a un’origine destinata altrimenti a rimanere impenetrabile, non implica di per sé una messa fra parentesi del tempo storico. Il contatto con l’eterogeneità di un passato immaginario (residuo ed eccedenza di un tempo storico e profano) attira il protagonista «nella profondità indefinita dove il “presente” ricomincia il “passato”, ma dove il passato si apre al futuro che ripete, perché quello che viene, sempre di nuovo e di nuovo ritorni»[18].

Per Proust, questo Tempo rivelatore delle essenze, la cui venuta illumina di una luce nuova ciò che prima esisteva in uno stato di penombra, è il tempo dell’Arte. La potenza trasfigura la vita di ogni giorno, rigenera il tempo profano, rinvigorisce l’attaccamento alla vita, in quanto ne costituisce in un certo senso il Deus absconditus. Ma la gioia dell’arte, l’appagamento della ricerca spirituale, esige l’esperienza del deserto, attraverso il sacrificio delle relazioni – nel quadro di un’estetica del sacro tendente al patologico[19]. L’arte è al centro di una dimensione trascendente deviata verso l’umano, e il suo potere di trasfigurazione è al centro della verità mistica di Proust: il mistero del ritrovamento dopo le sofferenze dello smarrimento.

Il Tempo dell’arte dispiega segni qualitativamente differenti che costringono il soggetto senziente a un lungo e faticoso lavoro d’interpretazione. Nella terminologia adottata da Gilles Deleuze in Marcel Proust e i segni, l’essenza costituisce il tratto che pone la differenza qualitativa nell’ordine del tempo, configurandosi quindi come un fuori-tempo che è la cifra dei segni dell’arte. Nell’ultimo libro della Recherche ritroviamo una definizione dello scarto che l’esperienza dell’arte rende attraversabile:«differenza qualitativa nel modo in cui il mondo ci appare, differenza che, se non ci fosse l’arte, resterebbe l’eterno segreto di ognuno»[20]. Deleuze, riprendendo alcuni elementi già presenti nel testo proustiano, sottolinea come la differenza – in termini di «differenza ultima e assoluta»[21] – sia capace di oltrepassare due limiti: tanto quello dell’oggettivo (nell’esperienza artistica un oggetto può significare qualcos’altro), quanto quello del soggettivo:

 

Non è il soggetto a esplicare l’essenza, ma piuttosto l’essenza a implicarsi, avvilupparsi, ravvolgersi nel soggetto. Più ancora: è proprio l’essenza che, ravvolgendosi su sé medesima, costituisce la soggettività. Non gli individui costituiscono i mondi, ma i mondi inviluppati, le essenze, costituiscono gli individui: «quei mondi che noi chiamiamo “gli individui”, e che senza l’arte ci rimarrebbero sempre sconosciuti»[22].

 

Si può leggere nella descrizione del rapporto tra individuo ed essenza un movimento irriducibile tra singolarità e pluralità. Ogni essenza implica un mondo, ed ogni mondo una molteplicità di connessioni. L’essenza è quel principio di individuazione e differenziazione che si esprime nel gioco di prospettive che costituisce il proprio dell’arte. È Proust stesso a spiegare il miracolo dell’arte, la sua differenza qualitativa, la sua capacità di far fuoriuscire «l’eterno segreto di ognuno»:

 

Solo attraverso l’arte possiamo uscire da noi, sapere cosa vede un altro di un universo che non è lo stesso nostro e i cui paesaggi rimarrebbero per noi non meno sconosciuti di quelli che possono esserci sulla Luna. Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicarsi; e, quanti sono gli artisti originali, altrettanti mondi abbiamo a nostra disposizione, diversi gli uni dagli altri più ancora dei mondi roteanti nell’universo[23].

 

Ritorna il motivo della virtualità, di una molteplicità qualitativa grazie alla quale l’uomo può uscire da sé stesso e vedere la realtà come la vedrebbe un’altro. L’essenza è l’impulso a venir fuori, è l’interiorità che si fa immagine (la sua potenza attiva è “nient’altro che” immaginazione). Il tempo delle essenze, cui si riferisce Deleuze, è un tempo complicato: ciò non vuol dire tanto una difficoltà a livello teorico, quanto piuttosto la sua natura contratta, ricca di pieghe al cui interno sono inscritte le infinite possibilità della durata. La complicatio per i neoplatonici rappresenta “la struttura originale del tempo” – lo stato puro del tempo sacro – che «racchiude il multiplo nell’Uno e afferma l’Uno dal multiplo»[24]. Tale stato della temporalità non appartiene direttamente alla vita, esso è un privilegio del tempo dispiegato dall’arte (e solo in quanto tale può affacciarsi alla vita): ciò che Blanchot, adottando un vocabolario differente, ha definito un «mondo di essenze intemporali» (in quanto sottratte all’azione corruttrice del tempo) che si rivela con la scrittura; ciò che anche Eliade, dalla prospettiva dello storico delle religioni, ha descritto come il passaggio attraverso la soglia, dalla durata profana verso una temporalità sacra. La vita, la cui superficie ha bisogno della forza coattiva dell’abitudine per mantenersi vivibile, può concedere soltanto sprazzi di questa libertà intemporale. Essi si manifestano in istanti di discontinuità e sotto l’egida dell’involontario. Tra gli esempi preferiti da Proust vi è il passaggio di stato dalla veglia al sonno (e viceversa), in cui si rivela un tempo complicato, al di là dei principi della logica (identità, non contraddizione, terzo escluso): teatro corporeo di una produzione di immagini che avviene attraverso l’alternanza di differenza e ripetizione[25]. Lo stato onirico si affianca dunque alle resurrezioni della memoria e alle “paramnesie” proustiane: si tratta di irruzioni di un tempo complicato, di momenti di rottura nella trama di una vita che aspirerebbe, invece, alla continuità. È per questo motivo che molto spesso si parla dell’extra-temporale in termini di choc doloroso[26]. L’apparizione misteriosa e improvvisa genera una ferita sul piano della rappresentazione di un tempo lineare e continuo. Da questa breccia, punto-limite oltre il quale la vita stenta a riconoscere se stessa (e si tratta qui, per Proust, del dominio dell’involontario), sgorga il sangue del Tempo creatore e distruttore; i suoi segni, però, non sono rintracciabili immediatamente, essi esigono la dedizione di chi sa di compiere un lavoro il cui buon esito non può essere assicurato.

Questo lavoro è il compito dell’arte, che consiste nel «rendere visibile l’invisibile»[27]. Solo a torto tale attività può essere considerata una fuga dal mondo. Essa fa pensare piuttosto allo sforzo disperato di un individuo che cerca di seguire la vita nel suo impulso a superarsi, ad andare oltre se stessa, fino al suo punto limite. «Capivo cosa significano la morte, l’amore e le gioie dello spirito, l’utilità del dolore, la vocazione, ecc.»[28]. Non c’è sentimento di evasione nelle parole di Proust; ciò che al suo posto s’impone è la disciplina di una rincorsa disperata per arrivare, secondo il celebre finale di Baudelaire, «giù nell’Ignoto, sia l’Inferno o il Cielo, (…) alla ricerca di qualcosa di nuovo[29].

 

 

Napoli, marzo 2010 et maggio 2013

 

 

D. G.



[1] M. Blanchot, “L’esperienza di Proust”, in Il libro a venire, tr. it. di G. Ceronetti e G. Neri, Torino, Einaudi 1969, p. 31, corsivi miei.

[2] J.-J. Rousseau, Confessions, in Œuvres Complètes, a c. di B. Gagnebin et M. Raymond, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1964, p. 1150.

[3] Sull’interesse sociologico dell’interazione tra personaggi appartenenti a mondi diversi e dei codici appartenenti a ciascuno di questi mondi vedi i capitoli 10 e 11 in Vincent Descombes, Proust. Philosophie du roman, Éd. de minuit, Paris 1987 (in particolare: “La philosophie de Combray” e “Suis-je invité?”). Sull’inconfessabilità del desiderio di uscire dal proprio “piccolo mondo chiuso” per provare a penetrarne un altro che invece è proibito, e sull’architettura delle rivalità mondane vedi “I mondi di Proust”, in R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965.

[4] Le citazioni di questo articolo sono tratte da R. Barthes, “«Ça prend»”, in Le siècle de Proust, Magazine littéraire, hors-série n.2, 2000 (traduzione mia), pp. 56-57.

[5] M. Proust, Il Tempo ritrovato, in Alla ricerca del tempo perduto, vol. IV, tr. it. di G. Raboni, Mondadori, coll. «Meridiani», Milano 1983-1993, p. 752, corsivi miei. Da qui in poi, i riferimenti al testo saranno abbreviati con la sigla TR, seguita dal numero di pagina.

[6] «Quello scrittore, che di ogni carattere, del resto, avrebbe fatto apparire le facce opposte per mostrarne il volume, avrebbe dovuto infatti preparare il suo libro, minuziosamente, con continui raggruppamenti di forze, come un’offensiva, sopportarlo come una fatica, accettarlo come una regola, costruirlo come una chiesa, seguirlo come un regime, vincerlo come un ostacolo, conquistarlo come un’amicizia, sovralimentarlo come un bambino, crearlo come un mondo, senza trascurare quei misteri che non hanno probabilmente spiegazione se non in altri mondi e il cui presentimento è quanto più ci commuove nella vita come nell’arte». (M. Proust, TR, p. 742, c. m.)

[7] M. Proust, TR, pp. 741-42.

[8] «Ma a chi fosse venuto a trovarmi o m’avesse fatto cercare io avrei avuto il coraggio di rispondere che avevo, per cose essenziali di cui era necessario che venissi messo al corrente senza indugio, un urgente, capitale appuntamento con me stesso. E tuttavia, sebbene vi sia uno scarso rapporto fra il nostro io vero e l’altro, a causa dell’omonimia, e del corpo in comune fra i due, l’abnegazione che ci fa sacrificare i doveri più facili sembra agli altri egoismo». M. Proust, TR, p. 686.

[9] Ibidem, p. 745.

[10] Ibidem, p. 748.

[11] Ivi.

[12] S. Beckett, Proust, a c. di P. Pagliano, con uno scritto di M. S. Frankel, ed. SE, Milano 2004, p. 47, c. m.

[13] Vedi M. Proust, “Memoria involontaria e resurrezione poetica”, in Giornate di lettura. Scritti critici e letterari, a c. di C. Serini, Il Saggiatore, Milano 1979.

[14] M. Eliade, “Quando il sacro si manifesta”, in Il sacro e il profano, tr. it. di E. Fadini, Bollati, Torino 2006, p. 15.

[15] Vedi lo studio di Deleuze su Proust, ed in particolare il capitolo “I segni dell’arte e l’essenza”, in G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, tr. it. di C. Lusignoli e D. De Agostini, Einaudi, Torino 2001.

[16] M. Eliade, Il sacro e il profano, cit., p. 59.

[17] M. Blanchot, Il Libro a venire, cit., p. 22. Vedi anche: «(...) si trascura quel che per Proust è l’essenziale: la rivelazione per cui, in un sol colpo, subito benché poco a poco, attraverso la presa di un tempo differente, egli è introdotto nell’intimità trasformata del tempo, dove dispone del tempo puro come principio delle metamorfosi e dell’immaginario come spazio che è già la realtà del potere di scrivere» (Ibidem, p. 25).

[18] Ibidem, pp. 25-6.

[19] Il termine “patologico è in questo caso lontano da un uso che vorrebbe costringere Proust al “gioco del paziente e del medico”. Il tratto che rimanda alla patologia vorrebbe essere assunto nella misura in cui si accetta di fare ciò che suggerisce Deleuze: opporre il pathos al logos, rintracciare nella Recherche i «segni di violenza e follia, che costituiscono un certo pathos contro e sotto i segni volontari concatenati dalla “logica e il bel linguaggio”». (G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, cit., p. 160).

[20] M. Proust, TR, p. 233.

[21] G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, cit., p. 40.

[22] Ibidem, p. 42.

[23] M. Proust, TR, p. 578.

[24] G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, cit., p. 44. Segue: «A loro, l’eternità non sembrava l’assenza di cambiamento, e neppure il prolungarsi di un’esistenza illimitata, ma lo stato “complicato” del tempo stesso (uno ictu mutationes tuas complectitur). Il Verbo, omnia complicans, in cui tutte le essenze sono contenute, era definito come la complicazione suprema, la complicazione dei contrari, l’instabile opposizione (...). Ne traevano l’idea di un Universo essenzialmente espressivo, che si organizzasse secondo gradi di complicazioni immanenti, e in un ordine di esplicazioni discendenti».

[25] «L’essenza è in se stessa differenza. Ma non ha la possibilità di rendere e di rendersi diversa, senza avere anche il potere di ripetersi, sempre identica. Che altro si può fare dell’essenza, differenza ultima, se non ripeterla, dal momento che non ha surrogati e nulla può venirle sostituito? (…) Differenza e ripetizione si oppongono soltanto in apparenza. Non vi è grande artista la cui opera non ci spinga a dire: “Identica eppur diversa”». (G. Deleuze, M. Proust e i segni, cit., p. 47, c. m.).

[26] Cfr. W. Benjamin, “Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, a c. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, pp. 89-130.

[27] Paul Klee, La confessione creatrice, in Teoria della forma e della figurazione, a c. di M. Spagnol e R. Sapper, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 76.

[28] M. Proust, TR, p. 621.

[29] C. Baudelaire, Il viaggio, in Opere, a c. di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, coll. «Meridiani», Milano 1996, p. 273.


« indietro | stampa | invia ad un amico »
# 0 commenti: Leggi | Commenta » | commenta con il testo a fronte »

I testi, le immagini o i video pubblicati in questa pagina, laddove non facciano parte dei contenuti o del layout grafico gestiti direttamente da LaRecherche.it, sono da considerarsi pubblicati direttamente dall'autore Redazione LaRecherche.it, dunque senza un filtro diretto della Redazione, che comunque esercita un controllo, ma qualcosa può sfuggire, pertanto, qualora si ravvisassero attribuzioni non corrette di Opere o violazioni del diritto d'autore si invita a contattare direttamente la Redazione a questa e-mail: redazione@larecherche.it, indicando chiaramente la questione e riportando il collegamento a questa medesima pagina. Si ringrazia per la collaborazione.

 

Di seguito trovi le ultime pubblicazioni dell'autore in questa sezione (max 10)
[se vuoi leggere di più vai alla pagina personale dell'autore »]

La Redazione, nella sezione Proposta_Articolo, ha pubblicato anche:

:: [ Letteratura ] Il vuoto è pieno di poesia , di Donato Di Stasi (Pubblicato il 25/07/2021 07:21:04 - visite: 1406) »

:: [ Libri ] Per fare l’albero ci vuole il seme… della follia , di Luigi Pratesi (Rivista Offline) (Pubblicato il 04/01/2021 13:18:27 - visite: 480) »

:: [ Storia ] I bambini durante l’Olocausto #GiornoMemoria , di Holocaust Encyclopedia (Pubblicato il 24/01/2019 23:18:02 - visite: 1029) »

:: [ Storia ] Album Auschwitz #GiornoMemoria , di Andrea Giorgi (Pubblicato il 23/01/2019 18:50:29 - visite: 862) »

:: [ Storia ] Risate ad Auschwitz #GiornoMemoria , di Matteo Rubboli (Pubblicato il 21/01/2019 12:00:00 - visite: 1658) »

:: [ Letteratura ] W. S. Maughan , di Franco Buffoni (Pubblicato il 25/01/2016 23:12:14 - visite: 1517) »

:: [ Religione ] Gesù non ha mai parlato dei gay, la Chiesa taccia , di Aa. Vv. (Pubblicato il 25/01/2016 22:36:07 - visite: 2065) »

:: [ Società ] La violenza contro le donne #controviolenzadonne , di Istat (Pubblicato il 25/11/2015 00:28:14 - visite: 1391) »

:: [ Letteratura ] Proust come non lo avete mai letto , di Eleonora Marangoni - Il Sole 24 ore (Pubblicato il 27/10/2015 16:42:54 - visite: 1335) »

:: [ Letteratura ] Mamma, parliamo , di Walter Siti (Pubblicato il 09/05/2015 22:56:49 - visite: 1701) »