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Etnomusica: lo Zen e il tiro con l’arco - la via del samurai

Argomento: Musica

Saggio di Giorgio Mancinelli (Biografia)

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Pubblicato il 27/11/2018 22:31:02

ETNOMUSICA XIII - Alle Radici del Sole: ‘Lo Zen e il tiro con l’Arco’ / ‘La Via del Samurai’ / ‘Il Cinema di Akira Kurosawa’ e altro.

“La Via del cielo è simile a un ‘Arco’: ciò che è in alto viene abbassato, ciò che è in basso viene innalzato, ciò che è in eccesso viene diminuito, ciò che è insufficiente viene aggiunto.” (1)

“Otoko-doka no / “All’alba danziamo
akegata / l’otoko-doka (la danza dei ragazzi)
mizuumaya nimo / il vino di oggi
arajina / non è cosa di tutti i giorni
wata wo / e passandoci
kazuki-watashite / il diadema di cotone
banzeiraku wo / cantiamo
Utaeri “ / la canzone dei Diecimila Anni”
(Yamada Kengyo) (2)

Diecimila Anni. È il Tempo in cui si contempla l’avvenuta ‘illuminazione’ del “Tao-Teh-Ching” (Libro del Tao), di Lao-Tzu (3), l’opera più bella e più profonda in lingua cinese, definito uno dei più importanti testi di tutta l’antichità, sintesi della saggezza, della profondità del pensiero e della visione del mondo di questa cultura millenaria che abbraccia l’Oriente intero. In Giappone l’insegnamento della scuola Chán/Zen, in cui viene tutt’oggi praticata la meditazione buddista, si è fuso con alcuni precetti ‘illuminati’ del Taoismo attraverso una forma di comunicazione alternativa, non basata sulle parole. Bensì, sulla forza di pensiero, interagente tra le scritture buddiste del maestro Bodhidharma (483 d.C.), monaco persiano giunto in Oriente per diffondere l’insegnamento della ricerca del Dharma, e i giovani discepoli appartenenti alla corrente del maestro indiano Prajñātāra.

“Il vero sentiero”. Storia Zen (4).
Subito prima che Ninakawa morisse, gli fece visita il maestro di Zen Ikkyu: «Devo farti da guida?», domandò il maestro. Ninakawa rispose: «Sono venuto qui da solo e da solo me ne vado. Che aiuto potresti darmi?». Ikkyu rispose: «Se credi veramente che vieni e che vai, questo è il tuo errore. Lascia che ti mostri il sentiero dove non si viene e non si va». Con queste parole Ikkyu aveva rivelato il sentiero con tanta chiarezza che Ninakawa sorrire e spirò.”

Alcune correnti di critica non individuano in Bodhidharma una persona realmente esistita, ma piuttosto la combinazione di varie figure reali esistite nel corso di più secoli, il cui insegnamento ha avuto grande influenza nella formazione di alcune regole religiose confluite nel Buddhismo Zen. Come, ad esempio, la dottrina del ‘vuoto’, la ‘vita monastica’, la ricerca del ‘dharma’ e la composizione di ‘scritture tripartite’ (in tre fasi distinte). Trasferito in Giappone da monaci missionari, il Buddhismo Zen diede origine a due principali scuole di pensiero, quella detta ‘Tendai’ poi confluita in quella ‘Rinzai’, e quella detta ‘Shōtō-shū’, operata dal monaco giapponese Eihei Dōgen nel 1227 in seguito ad un pellegrinaggio in Cina, ed oggi considerata la maggiore scuola Zen giapponese.

La scuola Shōtō-shū, anche detta Shōtō, incentra la pratica sulla meditazione seduta detta ‘zazen’, che deve essere totalmente silenziosa e senza oggetto (dunque senza alcun sostegno). In ciò, particolare attenzione è dato al rapporto maestro-allivo che permette la trasmissione ‘da mente a mente’ o ‘da cuore a cuore’, senza l’uso di parole, fondata su quei particolari sproni atti al raggiungimento della ‘illuminazione profonda’ o ‘satori’. Sinonimo di ‘comprensione interiore’, lampo di ‘improvvisa consapevolezza’ e di una personale ‘esperienza intuitiva’, riferita a un più profondo e permanente stadio di Illuminazione. Per questo motivo quello della scuola Shōtō è anche detto metodo ‘mokushō zen’: lo Zen del ‘risveglio silenzioso’.

“Imparare a stare zitti.” Storia Zen (5).
Gli allievi della scuola ‘Tendai’ solevano studiare meditazione anche prima che lo Zen entrasse in Giappone. Quattro di loro, che eano amici intimi, si ripromisero di osservare stette giorni di silenzio. Il primo giorno rimasero zitti tutti e quattro. La loro meditazione era cominciata sotto buoni auspici; ma quando scese la notte e le lampade a olio cominciarono a farsi fioche, uno di essi non riuscì a tenersi e ordinò a un servo: «regola quella lampada!»’. Il secondo allievo si stupì nel sentire parlare il primo: «Non dovremmo dire neanche una parola», osservò. «Siete due stupidi, perché avete parlato?», disse il terzo. «Io sono l’unico che non ha parlato», concluse il quarto.

Ecco quanto rientra negli insegnamenti della pratica Zen: “Non lottare eppure saper vincere, non parlare eppure saper rispondere; non chiamare eppure far sì che gli altri accorrano da soli; essere lenti, ma saper progettare. La rete del cielo è immensa, le sue maglie sono larghe ma nulla sfugge” (6). È anche detto che: “la diversità caratteristica tra lo Zen e tutte le altre dottrine religiose, filosofiche o mistiche, è il fatto che lo Zen non esce mai dalla vita quotidiana e che, nonostante tutta la gamma delle sue applicazioni pratiche e tutta la sua concretezza, ha in sé qualcosa che lo pone al di fuori della contaminazione e del tumulto del teatro del mondo” (7).

Va con sé che in una società di tradizione il corrispettivo dell’insegnamento trova comunque un adeguamento a una qualche formula ormai consolidata nella propria cultura. Tuttavia, nel momento in cui la quotidianità viene messa in gioco da profondi cambiamenti, subentra una consapevolezza maggiore dei valori del proprio passato individuale e comunitario, e nelle possibilità di apportare un ulteriore contributo per un futuro diverso. Al contrario, finirà per essere di totale chiusura verso l’esterno e verso l’altro che, nel caso del Giappone, dopo la sconfitta della guerra atomica che l’ha visto soccombere e la relativa chiusura al mondo esterno, ha potuto risollevarsi proprio facendo appello alla sua millenaria cultura e al proprio spirito di conservazione.

Nonché, come abbiamo avuto modo di vedere precedentemente, conquistando il globalizzato panorama contemporaneo con le sue arti uniche e originali: dall’estetica dell’arte, al teatro e alla musica; dalla letteratura alla poesia, all’arte dell’intrattenimento fino alle arti marziali, che oggi formano l’intero patrimonio della tradizione e della cultura giapponese. In questo procedere, infatti, troviamo spunti e temi che ci aiutano a comporre una trama innovativa formatasi su quella più antica profondamente radicata nella realtà, nelle visioni e nelle suggestioni degli artisti giapponesi odierni. Capaci di suggerire e re-interpretare il proprio popolo non solo attraverso il ‘vissuto’ della propria storia e nella comprensione di quella natura che lo circonda e che ancora oggi, lo emoziona; ma, ed anche, in quanto strumento di impegno sociale e politico, nel senso più nobile del termine, che dopo i disastrosi eventi bellici, sembrava aver smarrito.

“Ose ada naru / “Invano ci incontriamo
Omoigawa / nel fiume della Memoria
iwama ni yodumu / pensieri come erbe d’acqua
mizoguki no / impigliate fra le rocce
kakinagasu nimo / lottano per proseguire, inutilmente (?)
sode nurete / solo le mie maniche sono fradice
hosu hi mo itsu to / quando si asciugheranno (?)
Shiranami” / Non so”
(Anonimo XVII sec.)

Ma ecco che, con la sua pluralità di sguardi, di forme e di estetiche, il programma del Giappone post-moderno ci propone percorsi ed esperienze da vivere con entusiasmo e passione, partecipando a un rito collettivo che si ripete da millenni fedele alla propria identità, nel rinnovato incontro con il resto del mondo e, allo sguardo del futuro avveniristico che l’aspetta. Sul fronte musicale, dopo aver celebrato il noto compositore Toru Takemitsu (8), vanno citati inoltre quegli artisti che hanno dato nuovo impulso alla musica contemporanea, quali, solo per citarne alcuni: Yuji Takahashi, Hiroshi Wakasugi, Toshiro Mayuzumi, Ichiyanagi, Ryuichi Sakamoto. Musicisti questi, oltre che compositori e straordinari direttori d’orchestra, che si sono misurati con le diverse arti teatrale e cinematografica, così come nella danza e nella musica e nell’intrattenimento giapponesi, a ricordarci che il futuro dell’arte si evolve con tutti noi che ci approntiamo a conoscerla ed a valorizzarla, attraverso la ricerca di noi stessi.

“La Grande Strada (verso il nirvana), è senza ingresso,
ma ad essa portano migliaia di sentieri.
Una volta che ne individui la direzione
ci si incammina, soli, nell’Universo.”
(Wumen Huikai)

L’insegnamento del Buddhismo Zen si aggancia alla vacuità del passare del Tempo, indica il fine ultimo della vita, in cui ci si libera dal dolore, con riferimento al raggiungimento del ‘nirvana’. Una ‘stato’ questo che non può essere espresso con il linguaggio o con il pensiero razionale, bensì con la vera percezione del Sé e dell’Universo, che si ottiene con la raggiunta ‘Illuminazione’ attraverso l’esecuzione di un ‘mantra’. È questo un suono in grado di liberare la mente dai pensieri, nell’intendimento di ciò che può essere anche costituito da sole sillabe, parole o frasi ripetute ritualmente un certo numero di volte, al fine di ottenere un effetto di allontanamento mentale. Il più conosciuto è indubbiamente il mantra ‘OM’ usato durante la meditazione per raggiungere la graduale quanto necessaria concentrazione.

Al ‘mantra’ è affiancato il ‘sutra’, una breve frase, un aforisma in cui alcuni concetti filosofici vengono sintetizzati, ripresi per lo più dall’elaborazione di testi sacri che descrivono in modo succinto la metafisica, la cosmogonia, la condizione umana e i metodi per purificarsi e ottenere la propria beatitudine; per così raggiungere la meta della definitiva ‘Illuminazione’. Va qui ricordato che nello Zen: “La consapevolezza di qualsiasi gesto, di qualsiasi parola, di qualsiasi accadimento, è di per sé una forma di meditazione tendente ad acuire i sensi, fino a renderli partecipi del fluire dell’Universo. […] Le azioni diventano così opere della vera natura dell’uomo solo se egli è in grado di percepirla dentro di sé. La convinzione di essere nella condizione di poter svolgere un determinato compito porta al superamento di qualsiasi ostacolo” (9).

“Nell’arte il presente è eterno”
“L’arte dell’oggi è quella che davvero ci appartiene: è il riflesso di ciò che siamo”.
(Riflessioni tratte da “The Book of Tea” di Okakura Kazuzō op.cit.)

Ma non si pensi che tutto ciò possa essere raggiunto con la sola forza di volontà, ciò che viene richiesto è molto più profondo e faticoso, necessita perseveranza nella disciplina e il perseguimento di uno determinato ‘stile di vita’. Insegnamento che bene si apprende nella ‘Introduzione’ di Daisetz T. Suzuki al libro di Eugen Herrigel “Lo Zen e il tiro con l’arco” (10):

“Uno degli elementi essenziali nell’esercizio del tiro con l’arco e delle altre arti praticate in Giappone, è il fatto che esse non perseguono alcun fine pratico e neppure si propongono un piacere puramente estetico, ma rappresentano un tirocinio della coscienza e devono servire ad avvicinarla alla realtà ultima.” Questa, che può essere considerata una qualche contrapposizione con quanto da me espresso fin qui sull’estetica giapponese, in realtà avviene alla sua relativa affermazione; cioè al principio che l’estetica di per sé non è negativa o positiva, bensì è il frutto naturale di una cultura retrostante che ha plasmato quella che oggi possiamo definire nel suo insieme, ‘una inequivocabile sensibilità estetica’ del popolo giapponese che tutti gli riconosciamo.

“Così – prosegue D. T. Suzuki – il tiro con l’arco, o ‘kyudo’ (nella lingua giapponese), non viene esercitato soltanto per colpire il bersaglio, né la ‘katana’ (spada dei samurai) s’impugna per abbattere l’avversario; così come il danzatore non danza soltanto per eseguire certi movimenti ritmici del corpo ma, anzitutto, perché la coscienza si accordi armoniosamente all’inconscio”. Intendendo con ciò che per essere veramente maestra nel tiro con l’arco, la sola conoscenza tecnica non basta e che quindi va superata, così che l’appreso diventi un ‘arte inappresa’, che sorge dall’inconscio. A significare che nel ‘il tiro con l’arco’ il tiratore e il bersaglio non sono più due cose contrapposte, ma una sola realtà e che l’arciere non è più consapevole d’essere uno che ha da colpire il bersaglio davanti a lui; che la condizione di inconsapevolezza egli la raggiunge solo se perfettamente libero e distaccato da sé, se diviene tutt’uno con la perfezione della sua abilità tecnica. Una cosa questa, tutta diversa da ogni progresso che potrebbe esser raggiunto nell’arte del ‘tiro con l’arco’” (11).

“Ascoltiamo l’inesprimibile, ammiriamo l’invisibile”.
(Okakura Kazuzō)

A sua tempo, la musica giapponese si accordava in forma armonica con l’abilità tecnica raggiunta nella disciplina del ‘tiro con l’arco’, così come nella forma classica del ‘gagaku’ in cui la musica si uniformava alla struttura portante della composizione strumentale tramandata dalla tradizione. Sia con ciò che di volta in volta era gradito alla corte e che veniva rappresentato sulla scena teatrale; sia con il modo in cui l’artista accordava lo strumento secondo l’umore e il sentimento che lo ispirava. Ma è qui forse il caso di rammentare che il ‘gagaku’, la musica di corte tradizionale rimasta per lo più invariata nella sua forma originaria da almeno 1500 anni, è il risultato della fusione tra antiche musiche giapponesi e generi melodici di provenienza asiatica, oggi ancora eseguita come musica liturgica nei principali santuari shintoisti e templi buddisti. Della cui testimonianza si è avvalso un viaggiatore d’eccezione, Pierre Loti (12), che tra il 1885 e il 1901 si recò in Giappone e di immergersi nella sua cultura:

“Dall’interno del Tempio, di grande ampiezza, proviene una musica religiosa, dolce e lenta, interrotta di tanto in tanto, da uno spaventoso colpo sordo. […] Alcuni bonzi stanno salmodiando in un angolo, seduti in cerchio intorno a un tamburo da preghiera che potrebbe contenerli tutti. Cantano delle specie di strofe, incessatemente riprese sulla stessa aria malinconica; ognuna, prima di concludersi, si prolunga in una specie di agonia, trascxinandosi come un lungo sospiro, un sospiro tremante da moribondo, mentre le loro teste si abbassano sempre più verso terra; poi termina bruscamente, a un colpo del gigantesco tamburo. E allora le teste si rialzano e comincia la strofa seguente, del tutto identica e destinata a sua volta a finire nello stesso modo sorprendente”.

Al genere ‘gagaku’ è spesso affiancata la presentazione dell’arte del ‘budō’ cui è solitamente affidata una spettacolare dimostrazione delle arti marziali ‘aikidō’ (lotta difensiva) e ‘kenjutsu’ (arte del combattimento con la spada), assegnata a maestri di riconosciuta fama, come quelli formati dallo Shiseikan, il ‘dojo’ del Santuario Meiji, e che si prefigge di fortificare lo spirito e il corpo, considerando il primo non meno importante del secondo. Si dice che tale spiritualità trovi la sua origine in antiche credenze giapponesi profondamente legate allo shintoismo, quanto al buddismo, entrambi intrisi dello spirito altamente educativo che queste discipline hanno sviluppato nel corso dei secoli.

“Al magico tocco del ‘bello’ (estetico), gli accordi segreti del nostro essere vengono risvegliati … noi vibriamo e fremiamo in risposta al suo richiamo.”
(Okakura Kazuzō)

La possibilità di cogliere l’anima più profonda e autentica della cultura giapponese è straordinariamente assecondata nell’uso della musica da combattimento nelle arti marziali, che si vuole derivata da quella impiegata nelle parate militari e verosimilmente subordinata all’incitamento delle truppe in battaglia, con sovrabbondanza di trombe e tamburi. Inoltre usata nelle rappresentazioni del teatro ‘Kabuki’, in cui si utilizzano tamburi tradizionali ‘taiko’ e strumenti a fiato, quali il ‘ryuteki’ (tipo di flauto traverso) e lo ‘sho’ (strumento cilindrico con 17 canne di bambù di lunghezze diverse), per l’accompagnamento delle danze popolari. Come in questo passaggio narrativo tratto da “I mille ciliegi di Yoshitsune” (13):

“Dicendo che la danza vuol provare,
affretta del tamburo la cadenza.
Ecco la mischia dei Genji e degli Heike,
ecco le barche su strade terrestri,
ecco che i campi si mutano in acqua
e il tamburo dà il ritmo ai rematori.
Nuovamente quel suono lo rapisce […]
Col tamburo che lo incalza, ripetendo
‘La verità, dimmi la verità’.
Ma l’altro, prosternato, in silenzio rimane.
Alquanto il capo sollevando, poi,
per mano prende Hatsune-no-Tsutsumi.
Con gentilezza, con reverenza,
di Shizzuka Gozen lo spinge ai piedi”.

“Qui tocchiamo il rapporto esistente tra lo Zen e le altre arti come il ‘tiro con l’arco’, il ‘tirare di spada’, il ‘disporre i fiori’, la ‘cerimonia del tè’, la danza e le arti figurative. La “Via dello Zen” si esprime attraverso tutti questi ‘strumenti’, che sono importanti come forme della sua manifestazione” (14).

Nel caso specifico delle arti marziali, l’accompagnamento musicale utilizzato si fa risalire al 1867, allorché l’imperatore Meiji, volendo costruire una nazione aperta al resto del mondo, diede inizio alla modernizzazione del Giappone abolendo il vecchio regime feudale, senza però, mai dimenticare la sua cultura originale. Ciò detto, egli affermò la multidisciplinarietà degli eventi che sarebbero seguiti, e che abbracciano la musica, il teatro e la danza, incluse tutte le arti marziali presenti sul territorio. Un esplicito invito per il giovane popolo giapponese di allora, a riscoprire l’anima più profonda e autentica della propria cultura, attraverso l’eccellenza del ‘Noh’e del ‘Kabuki’ (teatro), del ‘gagaku’ (musica) e del ‘bushi-dō’ (arte marziale), profondamente intrise dello spirito e della storia millenaria del Sol Levante.

Fra le ‘arti marziali’ più accreditate troviamo il ‘bushi-dō’ 武道? (15), anche detto ‘budō’ in caratteri kyūjitai, che possiamo tradurre in ‘Via’, e "Via della guerra", oppure "Via che conduce alla pace". In sintesi, la ferma disciplina che si prefigge di fortificare lo spirito e il corpo, considerando il primo non meno importante del secondo. Una determinata forma di spiritualità che, secondo la tradizione, è profondamente legata alle arti marziali più antiche, trasmesse dalle generazioni precedenti, nel Giappone del VI secolo.

Il ‘budō’ trova infatti la sua applicazione spettacolare in due forme dimostrative: l’ ‘aikidō’ 合氣道, praticato sia a mani nude sia con le armi bianche tradizionali del ‘budō’, di cui principalmente ‘ken’, ‘jō’ e ‘tantō’ che danno il nome ai suoi praticanti, appunto chiamati ‘aikidoka’. L'altra forma è quella del ‘kenjutsu’, l’arte del combattimento con la spada, evolutasi dalle tecniche di combattimento con la ‘katana’ anticamente utilizzata dai Samurai nel ‘kenjutsu’ 剣術, con specifiche sequenze tecniche dette ‘kata’, e che prendono nomi diversi. A iniziare dal ‘laidō’ o ‘iaidō 居合道?, che previene il momento della ‘estrazione’ della spada dal fodero e il suo uso nel combattimento.

Il ‘jujutsu’ 柔術, anche detto ‘jūjitsu’, è invece l'arte marziale giapponese per eccellenza, il cui nome deriva da ‘jū’ (o ‘jiu’ secondo una traslitterazione più antica, che significa flessibile, cedevole o anche morbido); e ‘jutsu’ (arte, tecnica, pratica), praticato dai ‘bushi’, i guerrieri samurai che se ne servivano a mani nude o con armi da taglio, per giungere all'annientamento fisico,dei propri avversari, provocandone la morte.

Recita un antico verso ancora oggi ricordato: “Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero”. 花は桜木人は武士 (hana wa sakuragi, hito wa bushi), ovvero: “Come il fiore del ciliegio è il migliore tra i fiori, così il guerriero è il migliore tra gli uomini”.

Il ‘kendō’, dal giapponese ‘ken’, spada, e ‘dō’, via, che invero indica la “Via della spada”, si è sviluppato in Giappone attorno al XV sec. nelle scuole di ‘kenjutsu’, sul codificato uso della ‘sciabola a due mani’ cosiddetta ‘katana’, ad oggi trasferito in tecnica di combattimento sportivo che adotta al posto della spada, lo ‘shinai’, un attrezzo formato da quattro stecche di bambù e provvisto di un puntale di pelle (kensen) a una estremità, mentre all'altra da un’impugnatura (tsuka), protetta da un'elsa rotonda (tsuba). I due estremi dell’asta sono uniti da una corda, detta ‘tsuru’, che rappresenta il dorso della spada. Infine, un legaccio di pelle tenuto a un quarto circa di distanza dal puntale, segnala all’attenzione la parte dell'attrezzo utilizzato per ‘tagliare’ (con riferimento alla spada vera). Lo ‘shinai’ ha lunghezza massima e peso minimo e varia secondo l'età e il sesso dei praticanti.

La tecnica del ‘kendō’, elaborata in un famoso libro di Yamaoka Tesshu (1836 -1888) dal titolo “La via della spada” (16), è oggi praticata soprattutto in Giappone e in Corea, dove viene insegnata ai ragazzi fin dalle prime classi della scuola dell'obbligo. La sua pratica si è comunque diffusa anche in Europa e negli Stati Uniti, dove è fatta richiesta agli insegnanti di mantenere inalterati gli antichi rituali del ‘kendō’, nel rispetto e nel riguardo sia della spada, sia dell'avversario. Yamaoka Tesshu, autore di questo famoso libro, è stato inoltre il fondatore della scuola di ‘Kendo - Itto Shoden Muto Ryu’, rimane in assoluto la figura di primo piano nella tecnica del ‘kendō’ moderno, il cui scopo precipuo è quello di assestare fendenti con la massima precisione per imprimere la direzione del colpo, seguendo direzioni verticali, diagonali od orizzontali.

Colpi di punta si possono portare solo alla gola dopo aver alzato lo ‘shinai’ fin sopra la testa con un'azione combinata di spalle, gomiti e polsi (caricamento), e dal caratteristico grido ‘kiai’ di incitamento allo spirito guerriero, pronti però a portarsi fuori misura con la tecnica di attacco e copertura nota come ‘zanshin’, per sfuggire alla reazione dell'avversario ed eventualmente proseguire l'azione offensiva. Come per altri sport derivati dalle arti marziali giapponesi, anche nel ‘kendō’ i praticanti sono distinti in allievi ‘kyu’ ed esperti ‘dan’, ma non recano nessun segno esteriore per indicare il loro livelli. Le formule di gara sono tre: eliminazione diretta, torneo di tipo olimpico e l' ‘aka to shir’, nel quale rimane in gara lo stesso atleta finché non viene battuto. È questa una sobrietà formale di rappresentare al meglio quelli che sono i valori tradizionali e la distintiva estetica dell’arte marziale, così come è praticata in Giappone.

“Le porte del paradiso”. Storia Zen (17).
Un soldato che si chiamava Nobushige andò dal maestro Hakuin e gli domandò: «C’è davvero un paradiso e un inferno?». «Sono un samurai» rispose il guerriero. «Tu un soldato!» rispose Hakuin. «Quale governante ti vorrebbe come sua guardia? Hai una faccia da accattone!». Nobushige montò così in collera che fece per snudare la spada, ma Hakuin continuiò: «Sicché hai una spada! Come niente la tua arma è troppo smussata per tagliarmi la testa». Mentre Nobushige snudava la spada, Hakuin osservò:«Qui si aprono le porte dell’inferno!». A queste parole il samurai, comprendendo l’insegnamento del maestro, rimise la spada nel fodero e fece un inchino. «Ora si aprono le porte del paradiso» disse Hakuin.

Le discipline marziali del ‘budō’ e del ‘kendō’ insieme alle altre elencate senza soffermarci sugli ideogrammi giapponesi ma solo sul loro significato intrinseco, trovano un’autentica affermazione nell’odierno ‘bushi-dō’, dove ‘bushi’ e ‘dō’, sono due elementi che si sovrappongono in quanto inscindibili. Il guerriero (bushi) è la persona, l’essere che vive e che attraverso l’esercizio delle previste ‘Virtù Etiche’ interpreta situazioni, circostanze contingenti e, di conseguenza attraverso questa sintesi, costruisce una relazione che porta alla realizzazione ultima dell’Illuminazione. Mentre il ‘dō’ è il luogo metafisico in cui questa verità di vita, esercita un ‘diritto naturale’ (in senso aristotelico), che è anche il luogo fisico del ‘percorso’ da afrontare, onde per cui il ‘sentiero’ che si ha davanti è al tempo stesso la traccia che ci lasciamo alle spalle: luogo in cui la giustizia non si esaurisce nella positività della legge umana, né nell’autodeterminazione assolutistica.

“La vita stessa perde di valore intrinseco, nel senso che se si è in tutte le cose si è immortali, nell’attimo in cui tutto si concentra. Così cambia anche il modo di vedere: i germogli non sono più ‘nel fiore della vita’ ma stanno tutti ‘morendo’. Ed è proprio in questa idealizzazione estetica della morte che si può riconoscere la vita in ogni respiro, in ogni tazza di tè e in ogni vita che togliamo: questa è ‘La via del guerriero’” (18).

Il ‘dō’ è quindi il luogo che richiama all’eternità ogni azione umana: il passato, il presente e il futuro, lo spazio tempo e l’infinito. Il tempo fisico in cui l’azione assume un valore lineare, una dimensione che indica un fine. Nel ‘dō’ c’è l’intenzione che l’essere ‘persona’ nutre nell’azione (agire), e che per la sua intelligenza è collocata in una posizione superiore alla temporalit. Infatti, essendo la ‘persona’ l’unico essere consapevole del passare del tempo, la cui peculiarità lo rende conscio del passato, ciò gli permette di anticipare, con previsioni, i tempi futuri con progetti e scelte. Per il Samurai è questo un fondante motivo per vivere da ‘bushi’, ovvero da guerriero, per il quale ‘l’unità interiore’ e il ‘pensiero non-discriminante’ sono considerate due condizioni determinanti il valore e il coraggio.

Alla pari, nel ‘bushi-dō’, la ricerca dell’ ‘uno’ nel ‘bushi-dō’ sussiste nell’amore donativo e nella dedizione verso l’ ‘altro’ o di un fermo ideale, nel modo in cui l’accesso alla catarsi individuale consente la rigenerazione del proprio ‘status’ di guerriero in una successiva esistenza. È questa una ‘religione’ dell’arte del vivere oggi la propria vita intensamente, dacché affrancato dai ceppi della materialità, il proprio spirito guerriero si libra al ritmo dell’essenza, nella meravigliosa insenzatezza delle cose. Cosicché, “nel tentativo di compiere qualcosa che crediamo posibile, scopriamo d’esserci affidati a quell’impossibile domani che chiamiamo vita: l’arte di suggerire a noi stessi, ciò che non osiamo rivelare” (19).

Molti sono i registi d’assalto nella cinematografica giapponese, ed altrettanti quelli occidentali che nelle loro pregevoli pellicole di storie ambientate in Giappone, hanno utilizzato, e continuano a farlo, musiche espressamente composte da musicisti giapponesi di altissimo livello e di dichiarata fama. Oltre al già citato Toru Takemitsu, altri come: Shinichiro Ikebe, Toshiro Mayuzumi, Joe Hisaishi, Yuchihiro Takahashi, Fumio Hayasaka, Masaru Sato, Takeshi Kitano, Keiichi Suzuki, sono tutti più o meno impegnati a evedenziare i momenti salienti delle ‘arti marziali’ che si disputano sui ‘set’ dei loro film, al suono dirompente delle percussioni dei tamburi ‘taiko’, dei ‘gong’, dei ‘battagli’ e delle ‘tubular bells’ dal suono di metallo lucente. Non di meno nell’utilizzo di musiche riprese dalla tradizione narrativa e canzoni popolari come, ad esempio, quella che segue, di anonimo autore giapponese:

“Dojoji” (20).
L’aria della città è addolcita dai ciliegi in fiore.
Chi vorrebbero vedere e con chi vorrebbero giacere
le ragazze che lavorano nella Casa del Tè di Shimabara?
Quanto è intrigante lo scenario che s’apre sul Fuji-yama,
montagna di neve,
e la neve come petali di fiori cadono
cadono nella tormenta.
Offrendo la vista del sole al mattino
la vista poetica del tempio di Ishiyama.
Viaggiando attraverso Matsuyama, fino
al monte Ohe.
L’amore è come le nuvole di un vulcano e la luna
sul monte Mikasa.

Sebbene non manchino significativi momenti di contrasto nell’utilizzo pressoché costante di sonorizzazioni di tipo naturale, come ad esempio: lo scorrere dell’acqua, il battere della pioggia, il nitrire e lo scalpiccio dei cavalli, il vento tra le foglie o gli schiamazzi della gente ecc.. In molte pellicole di genere epico-medievale, ad esempio, l’utilizzo della musica serve a ricreare, per così dire, l’atmosfera dell’epoca (new-age). Per quanto, infine, è il ‘leit-motiv’ (musica di ritorno) che, in certo qual modo, agisce nel film come entità a sé stante e in continua evoluzione. Degno di nota anche in ambito cinematografico è indubbiamente l’eclettico Ryūichi Sakamoto, musicista e compositore giapponese, considerato tra i pionieri del genere ‘fusion’, per la fusione appunto tra la musica etnica orientale e le sonorità elettroniche occidentali.

La sua vasta discografia (che include oltre settanta titoli) spazia in numerosi generi, quali: pop, musica elettronica, ambient, bossa nova, world music e musica neoclassica. Dapprima membro degli Yellow Magic Orchestra, gruppo seminale per la musica elettronica giapponese e il j-pop, Sakamoto ha successivamente inaugurato la carriera solista ed è diventato compositore di note ‘colonne sonore’ per il cinema, come: “Furyo” (1983) di Nagisa Oshima , “L'ultimo imperatore” (1987) e “Il tè nel deserto” (1990) entrambi di Bernardo Bertolucci che hanno ottenuto fama mondiale e premi prestigiosi. Nelle ‘colonne sonore’ di sua composizione, il sonoro segna drammaticamente l’immutabilità dello scorrere del tempo, lì dove il Tempo è spesso condizione statica d’immobilità che si perde nello sguardo riflessivo dei protagonisti.

È quanto accade anche con la musica di un altro compositore, Keiichi Suzuki, che in “Zatoichi” (21) film del 2003 del regista Takeshi Kitano, tratto da un racconto di Kan Shimozawa, in cui la ‘colonna sonora’ sottolinea acutamente la contestualizzazione storica proiettata nel film da una dimensione che sembra sospesa nel tempo cui continuamente allude e, i cui i protagonisti sono congelati nel rito di una narrazione epica, fatta di eroi pronti a morire. Non si tratta però di una banale ricaduta nel realismo della Storia, bensì di lasciare delle tracce, dei segni che permettono al protagonista ‘Zatoichi’ di fare della finzione, o meglio, della virtualità che lo costituisce (e che costituisce da sempre il cinema), un mezzo per attualizzare le immagini, proiettarle contemporaneamente dentro e fuori dal Tempo.

“Qui le tracce si moltiplicano. Ai margini (apparenti) della narrazione si collocano le danze che sono disseminate lungo tutto il film. Zatoichi, il ‘ronin’ cieco, attraversa lentamente un campo dove dei contadini stanno zappando la terra. I loro movimenti ritmici entrano immediatamente in armonia con la musica che accompagna la scena, sono parte integrante della colonna sonora, con la stessa intensità, con la stessa importanza. Il suono si fonde armonicamente pur proveniendo contemporanemente dal fuori campo e dall'interno della scena. Ancora una volta i due piani, due dimensioni dello spazio e del tempo si fondono, si intersecano pur mantenendo la loro autonomia. È lo spazio della finzione dunque ad emergere con tutta la sua forza, anzitutto con la caratterizzazione dei personaggi: Zatoichi (lo stesso Kitano) si muove con una spada nascosta dentro un fodero di bambù dipinto di rosso.” […]

Il colore brilla nel film come effetto di finzione; le ferite sanguinanti esplodono in irreali fiotti di colore rosso (ricreati grazie alla grafica computerizzata). Nello splendido finale tutta la costruzione filmica (dei corpi, dei colori, della narrazione, della danza e della musica) si sintetizza nel tip-tap del gruppo di ballerini giapponesi The Stripers, a cui si aggiungono tutti i protagonisti del film (tranne Kitano). Gli sguardi rivolti in macchina e i volti sorridenti alludono ad una dimensione ludica (e serissima) del cinema a cui Kitano sta ormai lavorando da tempo. Ma il film non finisce. Con un ultimo scarto, il regista attesta ancora una volta che ciò di cui si sta parlando, ciò che va mostrando è qualcosa che ci riguarda e ci riguarda ora: uccidendo l'ultimo dei cattivi, Zatoichi, che è cieco, apre gli occhi sorprendendo l'altro, che gli chiede: "Perché fai finta di essere cieco?", "Perché i ciechi sentono meglio". Un sentire come approccio ad un nuovo modo – avverte il regista – intendendo più attuale di fare e vedere cinema, modo che permette di penetrare più a fondo e più intensamente, perché, come è detto nell'ultima battuta del film: "anche con gli occhi aperti non riesco a vedere niente!".

Ma un altro film s’affaccia repentino alla memoria, “L’Impero dei Sensi” (22) del 1976, del regista Nagisa Oshima, basato su un fatto di cronaca che ha destato scalpore e scandalo in Giappone negli anni ’30, in cui la musica di Minoro Miki è co-protagonista sulla scena, cioè fatta oggetto del desiderio sessuale che consuma i due protagonisti: la passione fisica, il piacere sessuale, il gusto della trasgressione e la morte appaiono, come nella realtà sono, indissolubilmente legati. Dal punto di vista figurativo, le scelte registiche danno un carattere marcatamente erotico al film che, molti critici hanno tacciato di pornografia.

La scelta degli ambienti, che fanno pensare al teatro (o addirittura al Giappone feudale, se non fosse per i treni, le sigarette e i soldati in partenza per la Manciuria), i pochi personaggi, i colori, le musiche con buon uso di canti tradizionali, riescono ad esaltare l'aspetto drammatico della relazione più che l'aspetto strettamente sensuale. È vero che l'obiettivo della macchina da presa mette a fuoco ogni dettaglio della nudità dei corpi impegnati in rapporti in cui non c'è finzione cinematografica, ma è anche vero che la storia è incentrata sull'enorme potere che i sensi possono esercitare sulla vita di due persone, sino a prenderne il sopravvento.

Molti sono inoltre i registi cinematografici giapponesi (ma anche occidentali) che nelle loro opere più o meno famose, hanno per così dire, reso ‘visibili’ i principi dell’etica e dell’estetica applicate alle ‘arti marziali’ o riferite alla specifica figura del Samurai di letteraria memoria. Sono questi film che, in certo qual modo, hanno finito per accrescerne e la figura del Samurai all’interno di quell’alone mitico-favolistico che trova oggi la sua affermazione su più vasta scala globale, con migliaia di realizzazioni filmiche avveniristiche quanto tecnologiche tra le più avanzate: dai cartoons ai video-giochi, dal design all’arte figurativa, ai serial-tv che continuano a macerare consensi e riconoscimenti a livello internazionale. Malgrado contengano numerosi elementi magico-superstiziosi entrati nell’iconografia giapponese, come draghi e serpenti mostruosi, uccelli dai colori fantasmagorici e altri animali esotici; nonché gnomi e figure spaventose che tutt’oggi caratterizzano l’arte e il costume tradizionali. Come riporta ancora una volta Pierre Loti (23):

“Nei dintorni delle piccole frazioni, un po’ discosto dalle abitazioni, si può stare sicuri di incontrare un luogo consacrato agli spiriti, alle anime dei morti, all’impescrutabile, spaventoso aldilà. In un boschetto di alberi antichi, in qualche anfratto ombroso, duo e tre gnomi di granito siedono su scranni a forma di loto, oppure sorgono piccole nicchie di legno di carattere funerario, estremamente singolari e inquietanti”.

Per quanto tutto ciò sia un aspetto del costume giapponese che più desta meraviglia, sia per i suoi contrasti esagerati: sia perché, in qualche misura, rivela una sottile estraneità di questo popolo di fronte a un vivere misurato sull’essenzialità del quotidiano e, del concetto filosofico dell’apparente ‘silenzio’ che pervade la perfetta armonia del creato. Così come lo ritroviamo, per esempio, nelle sequenze intimistiche di certi film, in cui l’azione appare, per così dire, stereotipata all’interno di ambienti quasi asettici, pregni di ‘vuoto’, mentre in altre è subordinata al clangore delle faide e delle battaglie, con ridondanza di suoni e di colori.

Al riconoscimento della cinematografia mondiale si attesta la sfolgorante presenza del regista giapponese Akira Kurosawa (24), il quale, in particolar modo nei suoi primi lavori di stampo intimistico, e negli ultimi di più grande respiro evocativo, ha elaborato una sua peculiare quanto esclusiva visione narrativa, in cui la condizione umana e l’etica epico-storica della figura del ‘Samurai’ prende vita, offrendone una visione a tratti immediatamente riconoscibile per la sua orientalità o, viceversa, intimamente legata al mondo occidentale così ben conosciuto dal regista. Sperimentatore e acuto intellettuale nonché sceneggiatore, produttore e scrittore, Kurosawa è una delle personalità cinematografiche più significative del XX secolo che ha influenzato con la sua opera generazioni di registi in tutto il mondo e certamente tra i principali soggetti di studio e fonte di ispirazione.

Nondimeno si è imposto con lavori complessi, densi di parabole grottesche sulla stupidità della violenza, senza mai abbandonare il mito dei Samurai, visto come simbolo di virtù ed etica e penetrandone i significati più reconditi che appartengono al comportamento umano, nei suoi diversi aspetti di forza e fragilità, utilizzando il paradigma etico quale elemento essenziale per spiegare la verità nella vita dell’uomo che si realizza pienamente se diretta verso una morale di relazione personale e dono di sé. Nel 1945, sotto le bombe gira tra difficoltà di ogni genere il suo primo film di samurai “Gli uomini che camminano sulla coda della tigre”, una innocente rivisitazione in chiave parodistica di un celebre fatto d’armi medievale del XII secolo, ispirato a un celebre dramma del teatro Nō che celebra la storica beffa di Ataka.

È il suo primo film in costume, un film poverissimo dove mancavano perfino i cavalli nella Tokyo bombardata e la foresta è un parco pubblico della capitale, rappresenta un piccolo gioiello (dura solo 58 minuti) che anticipa gli altri film sulla stessa tematica: “Rashomon” (1950), “I Sette Samurai” (1954), “Il trono di sangue” conosciuto anche come “Il castello del ragno” (1957) , un ‘jidaigeki’ ispirato al ‘Macheth’ di Shakespeare; il grandioso “La foresta nascosta” (1958), “La sfida del Samurai” (1960) e il sequel “Tsubaki Sanjuro” (1962), ai quali si è ispirato Sergio Leone per realizzare il suo “Per un pugno di dollari”; lo spettacolare “Kaghemusha: L’ombra del Samurai” (1980), basato sulle lotte del XVI secolo per la conquista del potere a Kyoto, e “Run” (1985) il cui tema è ripreso da un’altra tragedia, ‘Re Lear’ di Shakespeare, in cui si rappresenta in termini realistici il contrasto fra la casta guerriera e la classe contadina nel Medioevo nipponico, film che molti critici considerano il massimo raggiungimento artistico della carriera di Akira Kurosawa.

Il regista così si è espresso in una celebre intervista rilasciata in occasione della Mostra a lui dedicata: “Non ho voluto fare dei film sociali. Quello che mi interessa è il dramma, sia esso interno o esterno di un uomo e di fare il ritratto di quest’uomo attraverso il dramma. […] Ovvero presentando la storia di un uomo nella sua realtà.” […] “Ai miei tempi si pensava che la più grande qualità dei giapponesi, per quanto riguardava l’arte in generale, fosse un certo tipo di sobrietà, di semplicità, l’assenza di qualsiasi artificio, insomma. Lo si pensa ancora oggi. Mi si rimprovera una certa ‘esagerazione, ma vi sono (nel cinema) alcune cose che devono essere ‘esagerate’. […] Tutto è soggetto a progresso. È questa cosa che fa la differenza nei miei film” (25).

La spettacolarità dei suoi ultimi film e la sua capacità di alternare toni lievi e grotteschi ad altri gravi e tragici, hanno contribuito alla creazione di un cinema epico e privo di retorica e dunque classico e innovativo allo stesso tempo. Seppure contestualizzando alcune riflessioni di argomento comune la principale lezione dei film di Kurosawa si attesta su una massima del ‘bushi-dō’ cui il Samurai afferma la propria disciplina: “di non combattere se non quando è davvero necessario e che il valore di un uomo si manifesta nella capacità di contenere il proprio istinto piuttosto che dall’abilità della lotta”. Ma chi erano in realtà i Samurai? Quale importanza hanno avuto nella storia politica e sociale del Giappone? Le loro idee, la loro etica, il loro stile di vita hanno influenzato fortemente il costume e la società giapponese. I Samurai infatti non adottarono il formalismo dei nobili di corte, ma tradussero nel loro codice etico, il ‘bushi-dō’, attraverso la cui disciplina la fedeltà personale al proprio superiore, si faceva esasperata al punto di poter morire in suo nome.

Nella ferrea disciplina del ‘bushi-dō’ e, in ossequio al ‘codice d'onore’ dei Samurai, rientra la ‘morte esemplare’ del protagonista di una pellicola del 1962, importante quanto sconvolgente, dal titolo “Harakiri” 切腹 , dall’originale “Seppuku?” (26). Un film diretto da Masaki Kobayashi, vincitore del Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes 1963. La complessa trama narra di Motome il quale, in ossequio al codice d'onore del samurai, era stato costretto a compiere un harakiri atroce e disonorevole con l'arma con cui si era presentato: una spada di bambù; il che gettava un'ombra sulle reali intenzioni del giovane guerriero. Emerge allora che egli conosce molto bene Chijiiwa. Ne aveva assunto la protezione alla morte per ‘seppuku’ del padre, suo grande amico, e poi, già durante l'esilio a Edo gli aveva dato in moglie la propria figlia Miho. Da loro era nato l'amato nipotino Kingo. Ma prima lei, poi il bambino, si erano ammalati, vittime della fame e degli stenti. A nulla erano valse le ricerche di lavoro di Motome, che era giunto sino a vendere la propria spada, "l'anima del samurai". Era vero che si era presentato al palazzo per denaro, ma solo per salvare moglie e figlio, che senza alcun sostegno qualche giorno dopo lo avevano seguito nella morte. E per questo, per restituirgli l'onore perduto, era giunto Hanshiro. […]

L'intendente della casa Iyi non è però disposto a mettere in discussione i vuoti riti formali su cui è costruito il "suo" ordine sociale. Non vacilla neppure quando Hanshiro svela completamente il suo gioco gettando ai suoi piedi i codini dei tre guerrieri che aveva richiesto come assistenti e che avevano tutti avuto un ruolo importante nel cruento harakiri di Motome. Il ronin descrive i duelli vinti coi tre e denuncia l'ipocrisia di un codice d'onore in ossequio al quale essi, per nascondere la propria vergogna, si rifiutano di uscire di casa, dandosi per ammalati. Il consigliere lancia contro di lui gli uomini della casa. Hanshiro si difende valorosamente. Uccide quattro avversari e ne ferisce altri otto, prima di profanare i resti imbalsamati del fondatore della casa Iyi e di darsi la morte. Ufficialmente, per salvare le apparenze, le vittime, cui vanno aggiunti i tre bugiardi cui l'intendente ha imposto di fare harakiri, risulteranno vittime di un'epidemia di influenza. L'onore e il buon nome della stirpe sono preservati.

A chi durante un’intervista gli chiedeva ragguagli sul suo film presentato a Cannes e premiato con il ‘Palmares’, il regista Masaki Kobayashi (27), ha rilasciato quanto segue: "Per me ‘Seppuku’ non è affatto un film sulla figura del Samurai. No, egli è un ‘gendai-jeki’, un soggetto direttamente contemporaneo. [...] In ogni epoca, nella nostra come in quella del XVII secolo in Giappone, la pacificazione violenta ad opera dello shogunato, ha provocato la caduta di molti signori della provincia e la conseguente creazione di un esercito di capi autoritari del tipo contro il quale lotta il nostro ‘rōnin’ (protagonista del film), un Samurai caduto in disgrazia, privo di impiego e costretto a muoversi verso le città. È quindi attraverso la storia antica che in esso si vuol parlare per arrivare alla storia contemporanea".

È quanto apprendiamo dalla recente tesi di laurea di Buccisan, alias Roberto Bucci, dal titolo: “Akira Kurosawa e l’Etica del Bushi-dō” (28), in cui non mancano riferimenti alla ‘estetizzazione della morte nel bushi-dō’, sul tema del ‘seppuku’ e all’esaltazione della famiglia come istituzione al centro della vita, mettendo in evidenza la relazione tra le virtù familiari e le virtù del guerriero, per una ‘comune etica’ nel rapporto tra individuo e collettività. Tuttavia non come si pensa debba essere allorché la riferiamo a un Samurai nel momento in cui questi si avvicina al luogo in cui compiere onorevolmente ‘seppuku’, ovvero l’estremo gesto ‘hara-kiri’. Ciò nonostante una ricerca sull’etica va avviata attraverso quelle che sono le nozioni chiave, come il ‘uchi’ (dentro), ‘soto’ (fuori), ‘tanin’ (l’altro), ‘giri’ (dovere) e ‘ninjo’ (sentimenti), da quali si rileva l’affiorare di forme di pensiero e comportamenti tipici dello spirito del Giappone, nel conflitto costante tra forme e modelli della tradizione e quelli più tardivi, affermatisi attraverso l’influenza dell’Occidente.

“Chiamato volgarmente ‘hara-kiri’, era il modo più onorevole che il Samurai sceglieva per morire e per diventare la dimostrazione finale del coraggio che aveva caratterizzato tutta la sua vita. Veniva inoltre considerato manifestazione di padronanza assoluta del proprio destino ed era un privilegio riservato soltanto a lui. In Giappone il ventre, ‘hara’, è ritenuto la parte centrale dell’uomo, sede delle emozioni, della volontà, il centro dell’essere fisico e spirituale, per cui compiere ‘hara-kiri’ significava uccidere totalmente l’essere ch’era in sé”. […]

“Non si conoscono le origini di questo particolarissimo tipo di suicidio comunemente detto ‘hara-kiri’, ma sappiamo che veniva usato dai Samurai in occasioni diverse: in caso di sconfitta, per evitare di cadere nelle mani nemiche, per seguire la morte del proprio signore, per contestare una decisione del superiore. La scelta di questo tipo di morte particolarmente atroce è senza dubbio da mettere in relazione con l’atteggiamento che il Samurai aveva maturato nella vita. Il ‘seppuku’ era infatti la dimostrazione di un coraggio inusitato sempre pronto a sacrificare la propria vita che diventava quindi una continua preparazione alla morte, in cui il Samurai dimostrava la più alta padronanza del suo destino, verso il quale dimostrava la più alta padronanza del suo destino. Ad esso infatti si preparava sin da giovane a una fine improvvisa e sicuramente violenta, e per aiutarlo a superare la paura della morte veniva addestrato a considerarsi un uomo la cui vita non gli apparteneva. Il suicidio quindi era contemplato nel codice del Samurai onde evitare il disonore in battaglia. A questo proposito si hanno vari resoconti negli annali di suicidi di massa prima di essere catturati dal nemico” (29).

Come scrive lo storico del cinema Donald Richie in “The Films of Akira Kurosawa”: “La scelta di una tale sofferenza fu senza dubbio relata al fatto che era obbligatorio per i samurai mostrare il proprio coraggio e determinazione nell’affrontare una prova che la gente comune non poteva sopportare. Il ‘seppuku’ è senz’altro uno degli aspetti più sconcertanti del codice dei guerrieri Samurai, ma se considerato parte integrante del loro comportamento, ha una sua logica. Del ‘bushi-dō’ infatti si dice che la ‘via del guerriero’ significa morte, per cui il Samurai penserà alla morte ogni mattina come ogni sera. In questo modo sarà sempre preparato a essa, derivata verosimilmente dall’impegno della disciplina Zen in cui la vita e la morte sono messe sullo stesso piano, per cui: “la morte esiste in quanto c’è la vita”, nel modo in cui l’atteggiamento giapponese si pone in modo positivo verso entrambe, come consequenziali l’una all’altra” (30).

Il ‘seppuku’, iniziò probabilmente come un atto di autoannientamento sul campo di battaglia, compiuto per non essere catturato dal nemico, in seguito diventò una vera e propria cerimonia in cui il samurai dimostrava la più alta padronanza del suo destino, ed era sempre pronto a sacrificare la propria vita che diventava quindi una continua preparazione alla morte. Secondo l’etica del ‘bushi-dō’ che infatti non concede a un Samurai distrazione alcuna dal fine che si è proposto e per il raggiungimento del quale deve sfruttare ogni propria risorsa:

“Gli orgogliosi sono effimeri come il sogno di una notte di primavera e i forti saranno spazzati via come polvere dal vento”.

In questi versi ripresi dal grande poema epico giapponese dal titolo “Heikè Monogatari” di autore anonimo del XIV secolo, tratto da storie trasmesse oralmente e cantate con accompagnamento del liuto ‘biwa’, si racchiude la morale epica dei Samurai, espressa nel “Hagakure. Il Codice del Samurai” (31), redatto da Yamamoto Tsunetomo nel XVII secolo in seguito ritualizzato, in cui sono codificate le regole estremamente complicate del ‘seppuku’: “Era necessaria la presenza di un assistente e di testimoni per evidenziare la natura sociale, non individuale di questa cerimonia. Le ferite che il samurai si praticava facevano conservare la padronanza della propria mente e fu per evitare una lunga agonia che venne introdotto l’assistente, che in pratica divenne con il tempo il carnefice ufficiale in quanto molte volte tagliava la testa al suo compagno ancor prima che praticasse il ‘seppuku’. Quando le circostanze lo permettevano, il suicidio era preceduto da un bagno purificatore e da un banchetto offerto agli amici durante il quale il Samurai mostrava serenità e controllo. Si ritiravano poi in una stanza accompagnato dal suo amico più fidato che aveva il compito di decapitarlo onde evitargli un’atroce e lenta agonia.

Avveniva così che il Samurai si inginocchiasse, seduto sui talloni, su un cuscino bianco; posto a un metro di distanza si inginocchiava il ‘kaishakunin’, l’amico. Il Samurai introduceva il suo pugnale o la spada corta poco sotto la cintura sul lato sinistro del ventre, poi si tagliava lentamente procedendo verso destra e se gli rimanevano le forze continuava verso l’alto. I servitori seppellivano o bruciavano il corpo e consegnavano le ceneri alla famiglia”. […] “In tutte le case dei samurai in giardino venivano messe lapidi anche se il corpo non c’era. Il più noto caso di ‘seppuku’ collettivo è quello detto dei “ Quarantasette Rōnin”, celebrato anche nel dramma di Takeda Izumo “Chushingura” (1748) , mentre il più recente è quello dello scrittore Yukio Mishima, consumato nel 1970 in diretta TV . In quest'ultimo caso il ‘kaishakunin’ Masakatsu Morita, in preda all'emozione, sbagliò ripetutamente il colpo di grazia e pertanto dovette intervenire Hiroyasu Koga, che decapitò lo scrittore. Con il nome di ‘Jigai’ il ‘seppuku’ nella tradizione della casta dei Samurai, era previsto, anche per le donne; in questo caso il taglio non avveniva al ventre bensì alla gola dopo essersi legate i piedi per non assumere posizioni scomposte durante l'agonia” (32).

Ma tralasciamo questa pagina dal triste epilogo per restare sbalorditi dalla ricchezza dei toni, dei registri narrativi, dall’incontenibile energia che si sprigiona dalle immagini, stilizzate ai limiti dell’astrazione, dei film di Akira Kurosawa , affidate alla penna del critico Max Tessier (33): “Kurosawa fa certamente parte di quel gruppo di registi in grado di conferire alle immagini dei propri film una tensione visiva e una forza dinamica che finiscono col ricordarci che una delle essenze del cinema è e rimane quella del movimento: il cinema come (e)motion picture. Nel cinema di Kurosawa, infatti, l’emozione nasce non solo dalla storia narrata ma anche dal modo in cui il regista riesce a permeare questa storia di tensioni, conflitti e contrasti, in un generale dinamismo dialettico che fa sì che in ogni momento dei suoi film, anche quelli apparentemente più distesi, la tensione narrativa non venga mai meno. Il dinamismo insito nel cinema di Kurosawa è indubbiamente una delle più evidenti caratteristiche del regista giapponese che molti hanno interpretato come un ennesimo segno delle influenze del cinema occidentale”.

L’ultimo livello su cui Kurosawa costruisce la tensione dinamica dei suoi film è quello più propriamente narrativo. Anche qui da una parte siamo di fronte a una continuità spezzata e a un intrigante gioco di variazioni e dall’altra alla pratica della costruzione di movimenti di contrasto tra toni e sentimenti dominanti un determinato segmento. La violenza dell’ambiente del cinema di Kurosawa è definita – ancora da Max Tessier (34) come “l’espressione simbolica di un mondo violento e degradante da cui gli eroi di Kurosawa devono uscire per accedere a una condizione superiore dove deve regnare, se non la perfezione, almeno una certa coscienza morale”. Sono queste virtù, insieme “all’unità interiore e il pensiero non-discriminante”; considerate invero condizioni del valore e del coraggio del Samurai, come appunto le ritroviamo nel libro “Hagakure”, che significa ‘all’ombra delle foglie’.

Nel ‘bushi-dō’, alla pari, la ricerca dell’uno può esistere solo nell’amore donativo:
“Queste due differenti, ma fondamentali entità rendono quel medesimo movimento fisico di dare l’offerta una azione morale (virtù) o un esercizio del proprio ego (viziato). Comunque l’azione intenzionale richiede intelligenza, volontà e conversazione interiore, interessi di fine esistenziale che costituiscono il motivo principale dello stesso agire. La dimensione in cui la tecnica del ‘bushi-dō’ diviene esperienza e unicità di vita, l’intenzione si concretizza mediante l’azione libera e la volontà. Anche quest’ultima per essere determinante e non fallimentare si realizza nell’autodominio, ossia nella conoscenza e nel possesso di sé” (35).

“Il grande guerriero Nobunaga” (36). Storia Zen.
Il grande guerriero giapponese Nobunaga voleva attaccare il nemico, anche se il suo esercito era solo un decimo di quello avversario. I suoi soldati erano dubbiosi. Perciò durante la marcia si fermò presso di un tempio shintoista, pregò e una volta uscito, disse ai suoi soldati: «Ora getterò una moneta in aria. Se uscirà testa vinceremo, se uscirà croce perderemo». Uscì testa e i soldati (rassicurati) si batterono con tanto ardore e convinzione che vinsero. Dopo la battaglia Nobunaha disse al suo aiutante: «Nessuno può cambiare il destino!». Poi, gli mostrò la moneta che aveva testa su entrambe le facce.

È anche detto che: “la legge naturale, che promuove l’azione morale è scritta nel cuore dell’uomo ma a volte per fragilità l’uomo non riesce ad attuarla”. Infatti è nel carattere valoriale dell’amore umano che avviene la ‘guerra dei bushi’; al contrario, quando la regola positiva o la scelta autodeterminante umana è contraria e prevale su quella naturale, ècco che il ‘guerriero’ che è in lui si allontana dalla sua dignità antropologica perdendo di vista il motivo della propria esistenza. Se è vero che “nell’essenza tutti gli esseri umani sono identici e che siamo tutti parte di uno; allora siamo uno”. L’amore dovrebbe essere essenzialmente un atto di volontà, di decisione di unire la propria vita a quella di un’altra persona. “Nell’amore erotico per essere nella verità dell’amore richiede una condizione “che io ami dall’essenza del mio essere, e senta l’altra persona nell’essenza del suo essere”.

Il Samurai era legato anima e corpo al suo signore (daimyo) e a chiunque decidesse di proteggere, ma soprattutto, al legame forte e saldo verso i genitori quasi quanto quello che aveva verso la ‘via’ che aveva scelto. La fedeltà del Samurai non si fermava a questo. Nonostante lo spezzettamento feudale i guerrieri, i samurai e gli altri, conservavano nei riguardi dei loro capi forti sentimenti di lealtà e di fedeltà, ed il rispetto delle istituzioni e della legalità. Come scrive Joun des Longrais (37), i Samurai pensavano, al di sopra di tutto, che il loro primo dovere fosse militare. Il guerriero deve, per l’onore della sua famiglia e della sua casta, per non essere disprezzato dai suoi, fare il suo dovere di guerriero. L’intera sua vita era influenzata da questo principio e dal sentimento profondo ed essenzialmente buddhistico, della transitorietà di tutte le cose.

“Di ciò che sempre non è / ora vedremo i portenti; di ciò che sempre è, ora vedremo i confini”.
(Lao-Tzu)

“L’ Etica del “bushi-dō” (38), che letteralmente significa la via (do) del guerriero (bushi), si intende una serie di codici etici, spirituali e comportamentali elaborati nel corso dell’epoca Togukawa (1600-1886) quando, attraverso quasi tre secoli di isolamento dal resto del mondo, il Giappone visse un lungo periodo di pace e prosperità nel fiorire delle classi dei mercanti; ma, soprattutto, assistette al profondo modificarsi della vita dei Samurai. Periodo in cui essi persero gradualmente le loro qualità di ‘uomini di spada’ per trasformarsi in funzionari del regime dello Shogun e in intellettuali, e l’austera classe militare sostituire al potere, la raffinata aristocrazia della corte imperiale. I suoi spartani modelli di comportamento che trovavano nello Zen, nella sua immediatezza e semplicità, una più efficacia filosofia di vita, si rifugiarono in malinconici sentimenti di rassegnazione che non gli impedivano affatto di godere la vita quando ne avevano l’opportunità, di gozzovigliare e di celebrare nell’euforia il successo, i guadagni e le venali ricompense.

Come pure ha scritto Scott Wilson: “Senza più guerre, il Samurai si ritrovò sotto un certo aspetto privo di un reale impiego e gli ideali spartani per così a lungo tempo associati alla sua classe vennero a perdere il loro senso d’immediatezza” (39).

Si vuole che il testo del ‘codice etico’ sia stato dettato da Yamamoto Tsunetomo a un giovane Samurai nel corso di sette anni fra il 1710 e il 1716 e che all’inizio venne fatto circolare segretamente tra i samurai e che solo nel 1906 sia stato stampato e reso pubblico. Il ‘bushi-dō’, di cui il libro dà una visione idealizzata, non comporta solo uno spirito marziale e la necessità di essere abili nell’uso della spada, ma anche l’assoluta lealtà al proprio padrone, un forte senso dell’onore personale e di casato, la devozione al dovere, il senso della modestia, il sapere stare in disparte, la capacità di sacrificarsi, il totale controllo di sé, il coraggio di rinunciare, se necessario, alla propria vita in battaglia o col suicidio, nonché il coltivare nobili ed elevati sentimenti spirituali. Una delle doti più importanti del samurai doveva essere il giusto equilibrio tra azione e riflessione. Si legge nell’ “Hagakure. Il Codice del Samurai” (40), che: “I Samurai vivono due tipi di vita, quella privata e quella pubblica; vivono nelle loro case in un modo e nel campo di battaglia in un altro, ma è un vero soldato soltanto chi vive sempre come se fosse su un campo di battaglia”.

Se il termine ‘bushi-dō’ sembra essere piuttosto moderno, i valori e le norme a cui si ispira fanno parte sia del più profondo patrimonio del Giappone, che di altre componenti quali elementi taoisti, confuciani, buddisti, militari. Allo scintoismo si devono elementi quali lo spirito fiero e bellicoso degli antenati, l’attaccamento al clan e alla stirpe, il senso sacro della spada, il simbolo del fiore di ciliegio che verrà adottato da tutti i samurai. Dal confucianesimo i Samurai apprendono invece l’integerrima lealtà verso i superiori; dal buddismo tecniche e spiritualità che rivestono di dignità le arti marziali. La formazione del samurai ideale fu comunque il risultato di varie componenti, religiose, filosofiche e sociali che interagiscono determinandone le regole comportamentali. Sarà infatti il buddismo Zen a rendere lo spirito del Samurai forte come la sua spada; per il guerriero che aveva innata la semplicità scintoista non fu difficile assimilare le dottrine essenziali dello Zen che avrebbero contributo al raggiungimento dell’autocontrollo e dell’impassibilità di fronte alle proprie emozioni, la perfezione dello spirito, l’utilizzo non soltanto della mente ma di tutto l’essere.

Ed è qui che trova il suo senso la scelta del Samurai nell’epoca Sengoku, quel XVI secolo dilaniato da guerre civili fra i vari signori feudali che porterà all’unificazione del paese e poi alla grande pace dell’epoca Tokugawa. L’era Sengoku vide diffondersi massicciamente la figura del ‘ronin’, il Samurai senza padrone che, essendo stato parte di un esercito sconfitto, si trova senza lavoro, costretto a vagabondare lungo il paese, nella speranza di trovare un nuovo signore che lo possa prendere a servizio. E a partire da questa condizione che il Samurai rischia la sua vita per aiutare altruisticamente e senza nessun vantaggio le classi più umili; è la disperazione dei tempi a permettere ad essi l’agire al di fuori delle codificate relazioni feudali e del loro mondo prestabilito.

“Il Samurai che ha appreso fino in fondo l’essenza del ‘bushido’ è come “nascosto dietro una foglia”: la modestia, l’umiltà, il silenzio, la riservatezza, la capacità di stare in disparte sono infatti tutte caratteristiche essenziali all’agire e all’essere di un autentico samurai. Ancora una volta l’ ‘Hagakure’ si rivela una fonte piena di indicazioni a riguardo: “comportati sempre con quella riservatezza che si addice al primo incontro”, dove il senso del dovere prevede che, qualora gli venga ordinato di attingere acqua e cuocere il riso per un suo pari in più gravi faccende impegnato, egli non solo non prenda la cosa in malo modo, ma esegua tale umile lavoro con grande energia e devozione. Per quanto un Samurai non si separi mai dalla sua spada, simbolo supremo della sua dignità e del suo onore; l’etica del ‘bushi-dō’ previene a questo compito al solo scopo di preservare la sua integrità fisica. È un perenne monito ‘per l’uomo che governa gli altri uomini’ e che cerca, in tal modo, di seguire la ‘Via della Vita’. Pertanto, addestrarsi nell’uso della spada è un modo per avanzare verso l’illuminazione morale e spirituale dell’individuo.” […]

“Ed è così che il Samurai si incontra con lo Zen; che la spada, in quanto espressione della propria anima, è qualcosa da cui non ci si deve separare e che non va utilizzata se non quando è assolutamente inevitabile”. Sono questi alcuni insegnamenti imprescindibili del ‘bushi-dō’ che un Samurai deve tenere sempre presenti Come pure: “dimenticarsi di chi e cosa ti circonda, l’assumere atteggiamenti che a una persona normale sembrano di una agghiacciante freddezza; liberarsi dalle passioni; mantenere la mente serena e imperturbabile prima della battaglia, vanno presi come simboli ideali di questa ‘arte’. Nella tradizione Zen questo è il principio del ‘mushin’, letteralmente traducibile con assenza (mu) di anima o sentimenti (shin). Nel buddismo tale espressione designa chi è libero dai desideri e dagli attaccamenti mondani, per esempio chi è ‘Illuminato’. Il ‘mushin’ è frutto di un lungo processo di esercitazione fisica e spirituale che deve liberare la mente dal corpo e da ciò che la circonda, la mente non deve essere disturbata da nessun tipo di affetto, deve fluire senza fermarsi su nulla. Quando essa è raggiunta un uomo diventa un uomo Zen e un perfetto ‘uomo di spada’” (41).

“Tempo di morire” (42). Storia Zen.
Ikkyu, il maestro di Zen, era molto intelligente anche da bambino. Il suo insegnante aveva una preziosa tazza da tè, un oggetto antico e raro. Sfortunatamente Ikkyu ruppe questa tazza e ne fu molto imbarazzato. Sentendo arrivare i passi dell’insegnante, nascose i cocci della tazza dietro la schiena. «Questo è naturale» spiegò il vecchio. «Ogni cosa deve morire e deve vivere per il tempo che le è destinato».

Ed è così che: “al giungere della fine, ricordi a lungo dimenticati tornano a farci visita con un significato del tutto nuovo. / Speranze soffocate dalla paura , desideri che non osiamo riconoscere si mostrano in tutta la loro gloria. / La nostra mente è la tela su cui gli artisti stendono i loro colori, i loropigmenti sono le nostre emozioni, il loro chiaroscuro la luc della gioia e l’ombra della tristezza. Il capolavoro è parte di noi, come noi siamo parte del capolavoro. / Deve però sempre contenere la bellezza assoluta. / Nel frattempo, prendiamoci un sorso di tè. Lo splendore del pomeriggio fa scintillare i bambù, le fontane zampillano di piacere, lo stormire dei pini risuona nella teiera”.
(Massime di Okakura Kazukō) (43).





Bibliografia essenziale:

Michael Hardwick, “Discovery of Japan” – The Hamlyn Publishing Group – London 1969.
Martin Palmer, “Il Taoismo. Conoscenza e Immortalità” – Xenia 1993.
Lao-Tzu, “Il Libro del Tao” – Newton Compton Editori 1995.
Alan W. Watts, “La Via dello Zen” – Felrinelli 1960
AA.VV. “Sentieri di Luce – Storie Zen” – Edizioni del Baldo 2009.
Okakura Kazuzō, “Lo Zen e la Via del Tè” – Lindau 2018.
Sun-Tzu, “L’arte della Guerra” – Mondadori 2003.
Miyamoto Musashi, “Il Libro dei Cinque Anelli”, Edizioni Mediterranee 1984.
Yamaoka Tesshu, “The Swordsman’s Handbook” – Universe 2002.
Yukio Mishima, “La via del samurai” – Bompiani, 2000.
Yukio Mishima “Lezioni spirituali per giovani samurai” – Feltrinelli, 2003.
I.Nitobe, “Bushidō” -Sannō-kay, 1980.
M.Polia, ‘L’etica del Bushidō’ - Il cerchio, 1997.
T. D. Roshi, “Zen e arti marziali” - Il cerchio1990
AA.VV. “Encicloperia del Cinema” – Treccani alla voce ‘Kurosawa Akira’, http://www.treccani.it .

Note:

1) Daisetz T. Suzuchi, Introduzione a “Lo Zen e il tiro con l’arco” – Adelphi, 1985.

2) Yamada-Kengyo, “Prima canzone dell’anno”, in “Koto Kumiuta”, Ciclo di canzoni di maestri giapponesi del XVII – XVIII sec. – Albatros, 1979.

3) Lao-Tzu, “Tao-Teh-Cing”, in “Il Libro del Tao” – Newton Compton Editori, 2013.

4) 5) Nyogen Senzaki – Paul Reps, “101 Storie Zen” – Adelpi, 1973.

6) 7) Lao-Tzu, “Il Libro del Tao”, op.cit.

8) James Siddons “Toru Takemitsu: A Bio-bibliography” Greenwood Publishing Group, 2001.
9) 10) 11) Daisetz T. Suzuchi, Introduzione a “Lo Zen e il tiro con l’arco”, op.cit.

12) Pierre Loti, “Alla Sacra Montagna di Nikkō” – Lindau 2018.

13) T. Izumo, M. Shoraku, N. Senryu Ichikaa Ennosuke, “I mille ciliegi di Yoshitsune” – atto III, in “Teatro Kabuki” - CRT 1985.

14) Alan W. Watts, “La Via dello Zen” – Feltrinelli 1971.

15) Junzo Sasamori – Gordon Warner, “Kendo. La Via della Spada” – Edizioni Mediterranee 1994.

16) Nyogen Senzaki – Paul Reps, “101 Storie Zen”, op.cit.

17) Yukio Mishima, “La Via del Samurai” – Nuovo Portico Bompiani, 1983.

18) Japanese Kabuki Nagauta Music, “Dojoji”– Albatros 1979

19) in Wikipedia, l'enciclopedia libera: “Zatoichi”, un film diretto da Takeshi Kitano, Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia, 2003. Japan Academy Award per la migliore ‘colonna sonora’ a Keijchi Suzuchi, 2004.

20) in Wikipedia, l'enciclopedia libera. “L’Impero dei Sensi”, un film diretto da Nagisa Oshima, regista e sceneggiatore giapponese. Sperimentatore e precursore di novità espressive, diverse sue realizzazioni destarono scandalo sia a livello nazionale che internazionale per il loro aspetto politico, oppure trasgressivo. Vincitore del Premio Speciale al Festival di Chicago nel 1976.

21) Pierre Loti, “Alla Sacra Montagna di Nikkō”, Lindau 2018

22) “Rassegna di film di Akira Kurosawa” – Istituto Giapponese di Cultura – The Japan Foundation – Roma, Feb./ Mag. 1980 .

23) “Intervista con Akira Kurosawa”, in Cahiers du Cinema n.182 – Istituto Giapponese di Cultura – The Japan Foundation – Roma, 1980.

24) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. “Harakiri” (切腹 Seppuku?) un film del 1962 diretto da Masaki Kobayashi, vincitore del Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes 1963.

25) Intervista a Masaki Kobayashi , da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

26) 27) Buccisan, alias Roberto Bucci, Tesi di Laurea: “Akira Kurosawa e l’Etica del Bushi-dō” – Università degli Studi di Teramo, 2018.

28) Donald Richie, “The Films of Akira Kurosawa”, University of California Press, Berkeley 1965.

29) 30) Yamamoto Tsuretomo, in “Il Codice del Samurai” – una delle opere letterarie più significative tramandateci dal Giappone, pubblicata nel 1906 benché sia stata composta due secoli prima. Wikipedia Enciclopedia libera.
31) 32) Max Tessier, giornalista e critico cinematografico francese, ha scritto, fra l'altro, per “La Revue du Cinéma” e “Positif”, è autore di numerosi volumi sul cinema giapponese: “Images du cinéma japonais”, “Storia del cinema giapponese”.

33) Buccisan, alias Roberto Bucci, Tesi di Laurea “Akira Kurosawa e l’Etica del Bushi-dō”, op.cit.

34) Nyogen Senzaki – Paul Reps, “101 Storie Zen”, op.cit.

35) Jan des Longrais, scrittore francese, “La condition de la femme au Japon au XIIe et au XIIIe siècles d'après le Iwashimizu Monogatari”, Recueils de la Société Jean Bodin.
36) Mario Polia, “L’Etica del Bushi-dō”, Edizioni Il Cerchio, 1980.

37) W. Scott Wilson, “Hagakure, Il libro dei samurai”, Tokyo Press, 1979,

38) Yamamoto Tsuretomo, in “Hagakure. Il Codice Segreto del Samurai” – Einaudi, 2001.

39) Buccisan, alias Roberto Bucci, Tesi di Laurea “Akira Kurosawa e l’Etica del Bushi-dō”, op.cit.

40) Yamamoto Tsuretomo, in “Hagakure. Il Codice Segreto del Samurai”, op.cit.

41) Nyogen Senzaki – Paul Reps, “101 Storie Zen” –op.cit.

42) Okakura Kazuzō, “Meditazioni sul Tè” - Lindau2018.









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