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La passeggiata di una farfalla ferita

Poesia

Beda
Eretica edizioni

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 17/03/2017 12:00:00

 

Non sappiamo nulla di Beda se non il celarsi dietro lo pseudonimo di un giovane autore veneto alla sua seconda prova. Ma non importa perché quello che ci preme sottolineare è la fuoriuscita di un'identità poetica molto forte, strettamente intrecciata- volente o nolente- al destino di una civiltà in declino senza più spirito di interrogazione e dunque di direzione, di un mondo ormai ben dentro al crepuscolo cui questo stizzoso reclamatore di luce contrappone uno strattonamento inverso entro le lande e gli antri di coscienze e città e boschi nella disgregazione di panni che più non calzano. Ciò che più affascina è il reclamo naturale che si leva da questi versi che via via, nell'evocazione del ritmo giusto dei mondi (per dirla alla Holderlin), vanno a indicare la possibilità ancora viva di un'etica di ricomposizione (e non di freno ormai) dopo la caduta. Abbiamo citato Holderlin ma dovremmo, e non a caso allora,fare piuttosto il nome di Trakl nel tempo della povertà così ben presente in questa poesia che procede per accellerazioni e divagazioni del pensiero e del corpo ma anche per scandalose indolenze nell'accidia di un'anima non sommabile ai conti. Ed è qui allora, nella malinconia di una disappartenenza ora subita ora fieramente inseguita, l'impronta comune di un'epoca che ci rispecchia rendendo cara una scrittura cui per questo vien facile perdonare gli eccessi di sovrabbondanza e la debolezza di alcuni esiti linguistici. Tanto più che ogni procedere, ogni disavanzo vien messo in conto nella cura di un orizzonte di spoliazione e consegna. La farfalla è ferita perché tale, perché nella virtù di una compiuta e definita luce che si rovescia nella disarmonia degli squilibri, che tende al nero nell'oscurità degli spazi compressi. Eppure, è nell'alzata di spalle, nella grazia stessa della ferita che viene anche da un uso strumentale della fede, da una devozione ipocrita che rigettando la terra rigetta il cielo, la coscienza di un peso rimesso alla logica di una parola che sa nella mancanza l'unità, la risonanza affettiva delle origini. La direzione è quella di una bellezza non storpiata tra reclami di carezze e prese (sapendone i tagli, sapendone l'alfa) ma partecipata in un divenire entro l'utero infecondo di un'acqua che non alleva , là dove è impossibile rinascere , là perché impossibile rinascere. Di qui l'ostinato guardare in avanti della testa e del sangue, di qui il canto e l'affidamento - mai orfico però, mai utopico- alla notte in cui sfiorito come le gerbere, come le cose, rifiorire nel sonno che tace il nostro tempo. La scrittura stessa che appare nei toni sfuggente e lontana, a tratti infastidita e sfacciatamente distaccata da un umano senza più vita (incapace e finito al termine della propria storia) in realtà conferma un'aderenza dell'uomo prima che del poeta ad una natura che non mirando a procedere con noi pure sembra mostrarci nella veglia delle sue mutazioni la possibilità finalmente di vincerci entro una bellezza che si trascende e supera perché finita. Questa è la strada che Beda insegue nell'accettazione della mortalità di un destino (nel carico di pena comunque iscritta in ognuno) e a cui richiama nel segno di una vita, nella sua rinascita, che va dunque letta prima di essere scritta. Una fuga all'indietro allora, un respiro delle origini connotato però non solo da un oscuro giudizio (che è sempre dell'uomo mai della terra) ma anche da una luminosa offerta, quella del ragazzo fatto pellegrino. In conclusione dunque un testo che si consiglia (pur nelle accennate fragilità) e del quale volutamente non abbiamo riportato alcuna citazione lasciando alla lettura d'ognuno, nel pungolo, gli affondi e le separazioni che ci riguardano.

 


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