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Il meteorologo

Romanzo

Olivier Rolin
Bompiani

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 27/03/2020 12:00:00

 

I regimi totalitari, nella loro foga di sbarazzarsi di probabili, o possibili, oppositori, riescono a eliminare principalmente quelle che potrebbero essere le loro migliori risorse. Infatti, nell’immenso e atroce tritacarne stalinista, finirono scienziati, scrittori, artisti e letterati, insieme a milioni di semplici cittadini, ponendo, in tal modo, fine all’ideale popolare e, di fatto, bloccando, in modo sostanziale, lo sviluppo economico, scientifico e artistico della grande nazione. Aleksej Feodos’evic Vangengejm aveva aderito, con entusiasmo, da subito e in modo deciso, alla rivoluzione, non per convenienza o per facilitarsi la vita, semplicemente credeva fermamente nell’ideale. La sua grande passione erano le nuvole, il cielo, i venti e il sole, la meteorologia: studiava le nuvole, le lunghe piume di ghiaccio dei cirri, i brandelli sfilacciati degli strati, le torri bitorzolute dei cumulonembi, gli stratocumuli che increspano il cielo come le piccole onde della marea fanno con la sabbia, gli altostrati che mettono una veletta sul sole, tutte le grandi forme alla deriva orlate di luce, i giganti d’ovatta da cui scendono pioggia e neve e fulmini, eppure non era un uomo con la testa fra le nuvole – o almeno non credo.

Vangengejm aveva idee molto pratiche per porre a profitto l’osservazione delle nuvole e dei cambiamenti climatici, voleva coniugare l’avanzata dell’ideale socialista, il progresso della sua civiltà e delle sue genti, con lo sfruttamento delle risorse naturali, quelle che oggi si chiamano rinnovabili. Aveva in programma di usare l’energia del sole e del vento, voleva metterle al servizio del suo paese. Oltre ai progetti più ambiziosi, col suo lavoro quotidiano, permetteva alle navi di non restare incastrate nei ghiacci polari, o elaborava le rotte degli aerei o delle mongolfiere nei primi passi della conquista dello spazio. Ma l’assurda macchina della propaganda stalinista, resa cieca da inimicizie incrociate, sospetti, false confessioni e manie di protagonismo, lo rese una sua ignara e innocente vittima. Le accuse sono le solite, vaghe, fra esse, la più assurda è quella che lo addita colpevole della siccità che ha impoverito il raccolto; sebbene le cause della grave carestia fossero da imputarsi all’incompetenza di chi deteneva il potere e alle deportazioni in massa dei contadini, colpevoli, come al solito, di attività antisovietiche. Il nostro meteorologo aveva invece previsto l’avversità delle condizioni climatiche e aveva anche fornito la soluzione per salvare i raccolti, soluzione invece ignorata dal solito gerarca incompetente. L’iter fu quello tristemente noto, fatto di torture e violenze, sino all’estorsione di una confessione per mezzo della quale l’imputato, oltre a conoscere le accuse che gli erano state mosse, sperava di porre fine ai maltrattamenti. Il brillante meteorologo diventa così un numero, privato di tutto e spedito in un ex monastero trasformato in uno dei primi Gulag. La sua vita si carica così del corollario del deportato che vive di stenti e subisce malattie, fame, freddo, atrocità e la sofferenza infinita data dall’impotenza del non poter far valere le proprie ragioni. Ad aggravare la situazione è la lontananza dalla moglie e dalla figlia, cui non smetterà mai di scrivere, ed è proprio attraverso le lettere che Rolin entra in contatto con la storia personale e profonda di Aleksej Feodos’evic, il quale non smetterà mai di avere una grande fiducia nella giustizia russa, scrive lettere, anche a Stalin, cerca di dimostrare la propria innocenza, sa di essere innocente e vuole che la cosa gli sia riconosciuta. Le sue istanze non otterranno mai risposta e l’epilogo della sua parabola discendente sarà quello comune a milioni di altri “prigionieri politici”. Ma perché l’uomo nutre tanta fiducia in qualcosa che lo sta schiacciando, in una nazione che lo ha ridotto ad essere poco più che un animale, in una stalla, fredda, con poco cibo, nessun conforto, senza spiegazioni, senza un giusto processo, senza la possibilità di un appello, o redenzione alcuna? Credo che il contare nelle istituzioni, che l’avevano tradito e condannato, sia stata, invece, la salvezza di Vangengejm: smettere di sperare e nutrire fiducia nella macchina della misteriosa giustizia russa avrebbe significato non avere più nulla cui rivolgersi, rinunciare alla speranza di essere ascoltato, riabilitato, di poter riabbracciare la famiglia. Ma credo che ci sia anche un senso più profondo legato all’aver creduto, da sempre, nel regime che l’ha condannato: smettere di crederci poteva significare l’aver fallito l’intera esistenza; spogliato dei beni materiali, della professione, lontano dalla famiglia, se avesse immaginato che quello in cui aveva creduto era stato tutto un errore, un abbaglio, avrebbe significato trovarsi con niente tra le mani. E invece, la piccolissima consolazione del dirsi che, sebbene privo di tutto, il regime in cui lui aveva da sempre creduto, che aveva sempre sostenuto e aiutato a farsi grande, era qualcosa che, comunque, gli restava, una piccolissima luce in un angolino del suo cuore e della sua mente. Lui ci aveva creduto, non tutto quel che aveva fatto era andato perduto, il regime era anche opera sua, e nessuno glielo poteva togliere. Il regime, alla fine, lo avrebbe aiutato, perché un uomo buono come lui non poteva aver costruito qualcosa di tanto orribile, come invece purtroppo fu, in modo oltre l’immaginabile.

Il regime fu la sua catastrofe ma anche la sua speranza, la salvezza che, in qualche modo, lo aiutò a non cedere alla disperazione più totale. L’aggrapparsi ai suoi carnefici gli impedì di affondare completamente, ma anche l’incessante lavoro della sua mente fu, a tratti, una salvezza e, qualche volta, un cruccio; sebbene lontano, voleva contribuire all’educazione della figlia, creava degli erbari o inventava piccole filastrocche e indovinelli illustrati che allegava alle lettere che gli era consentito inviare alla moglie. Essendo il Gulag ricavato in un ex monastero, non aveva l’aspetto mostruoso di un carcere vero e proprio, inoltre ospitava spazi per conferenze, un teatro e una grande biblioteca alla quale Vangengejm dedicò molto lavoro e attenzioni. Inoltre, fra i suoi compagni di prigionia vi erano numerosi intellettuali e studiosi di varie discipline con i quali organizzava cicli di conferenze, per istruire i compagni di strazio ma anche per mantenere le loro menti attive e conservare un briciolo delle attività cui avevano dedicato anni di studio. La cultura ed il sapere spesso, in queste condizioni disumane, aiutavano i prigionieri a coltivare una piccola speranza, a rifugiarsi in un mondo parallelo, lontanissimo dalle sofferenze e dagli stenti, ma che, purtroppo, era fatto di sole idee e ricordi. Parlare di cose amate quando erano uomini liberi, restituiva ai poveri prigionieri l’illusione che non tutto era andato perduto, analogamente a come descritto anche da Józef Capski in “Proust a Grjazovec”.

Rolin s’imbatte in questo personaggio quasi per caso, dapprima incuriosito fa qualche ricerca, poi, piano piano, si appassiona a lui e ne ricostruisce la vicenda umana e professionale. Con linguaggio elegante e appassionato, attraverso la vita di Vangengejm, racconta di come una grande idea e una grande speranza si siano trasformate in qualcosa di malvagio e di spaventoso. La Storia è fatta di tanti piccoli ingranaggi, e il nostro meteorologo fu uno fra i tanti, di cui un giorno non si seppe più nulla; è grazie a faticose ricerche che Rolin scopre come, alla fine, il regime lo abbia trasformato in poco più di una bestia per porre fine alla sua esistenza. La cieca violenza del regime, insieme all’aver annullato la sua esistenza, pose anche fine alla sua vita di scienziato, cancellando il suo nome da tutti i suoi studi e scritti pubblicati.

Tra tanto dolore e disperazione, Rolin descrive come moltissimi dei persecutori di innocenti finirono per diventare, essi stessi, vittime della macchina del terrore che avevano contribuito a creare e alimentare, incolpati ed eliminati per gli stessi motivi per cui avevano distrutto altre vite umane, eliminati da altri ancora che poi divennero a loro volta vittima in una spirale di terrore tipica della mancanza di democrazia e diritti civili e umani. Tutto questo mentre in altre parti del mondo si guardava all’Unione Sovietica con stima e speranza per un futuro più radioso di uguaglianza. Sentimenti puntualmente ignorati da chi si curava solo del proprio potere e prestigio personale.

Per concludere, anni dopo la sua morte il 10 agosto 1956 il colonnello-giudice Pëtr Lichačëv, presidente del Collegio militare del Tribunale supremo dell’URSS firma una sentenza di riabilitazione: “La decisione del Collegio della OGPU del 27 marzo 1934 e la decisione della trojka speciale dell’NKVD della regione di Leningrado del 9 ottobre 1937 concernenti Aleksej Feodos’evic Vangengejm sono annullate. Il caso è chiuso perché il fatto non sussiste. Aleksej Feodos’evic Vangengejm è riabilitato a titolo postumo.” (pag. 118) Morto invano, per un errore, ma il suo esempio, come tanti altri, sia da monito a prestare attenzione ogni volta che i diritti umani sono calpestati o lesi, perché i diritti sono patrimonio di tutti, in uguale misura e, come dice Rolin nel monito con cui conclude il libro: Oggi ci preoccupiamo a buon diritto dei rischi di vedere una nuova ondata di disumanità riapparire in Russia, ma le nostre grida di allarme sarebbero più credibili se avessimo prestato attenzione a ciò che di umano vi fu nella storia di questo paese, e tale umanità fu in primo luogo quella delle vittime.

 


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