Figura amata e preziosa quella di Francesco De Girolamo, poeta, saggista autore e promotore culturale tarantino ma da anni residente e operante a Roma. Caro perché sempre nel valore di una prossimità e di una presenza espressa non solo nel bene di una scrittura nel dialogo rispondente agli interrogativi e ai bisogni del mondo ma anche nell’attenzione agli altrui dettati che del mondo nelle forme più diverse la poesia sa levare e proporre nell’apertura dei suoi dialoghi. Pensiamo, tra gli esempi, ai tanti eventi di letture e presentazioni di autori che da decenni si adopera ad offrire nel segno di un insaziabile amore della parola poetica che nulla e nessuno esclude nel cerchio delle innumerevoli voci. Possiamo denotare allora a partire da questo una raffinata ed esperta conoscenza del mezzo poetico rara, della sua storia e dei suoi indirizzi nella costanza di una riproposizione ogni giorno riattualizzata alla luce di una terra amata e raccolta nella naturalezza del suo canto e delle sue aspirazioni, delle sue offese, anche. Per noi è allora un piacere conversare, e lasciarsi attraversare da questo suo ultimo lavoro che raccoglie un’esperienza non nuova nella misura dell’haiku, la breve forma della tradizione poetica giapponese composta (nel totale di diciassette sillabe) di tre versi rispettivamente di cinque, sette e cinque sillabe ed esprimenti uno stato d’animo, un’immagine legata alla natura, un momento sovente intrecciato al ciclo delle stagioni. Data la natura, non consueta per i nostri canoni - per quanto molti anche gli autori che in occidente ne hanno provato la misura - ci sembra bene intanto, proprio per la disposizione così naturale alla scrittura in versi di De Girolamo, riportare come lui stesso ha avuto modo di definirsi: “un artigiano della parola”, personale “strumento elettivo di conoscenza e di espressione” grazie al quale poter fare arrivare al lettore “i frutti di una costante ricerca di identificazione del reale, filtrato dalla poetica dello sguardo, che afferra e restituisce fedelmente ciò che questa ricerca fornisce, nel suo laborioso percorso, al suo più intimo sentire”. Questo nella bella intervista rilasciata agli editori alla uscita del libro, a ribadire, almeno a chi lo segue da anni, un percorso di umiltà e di scoperta ovviamente sì personale ma messo al servizio di una condivisa esperienza del mondo, della sua pronuncia sovente tra gli scarti dei suoi profitti, tra i resti delle sue cancellazioni. Una preoccupata osservazione alle compressioni della terra, al rifiuto di sé questo, ancora, è ciò che ci ha sempre colpito nella poesia di Francesco nel seguito, di contro, di una sillabata ed espansa capacità di ricordarne le meraviglie, le luci e i segreti- non a caso giocando sul titolo del libro - nascosti nel silenzio delle proprie epifaniche soluzioni. Amore diremmo, e amore diciamo e si dice, nel rischio, nel timore ma nel suo desiderio come in queste cinquantaquattro composizioni divise in due sezioni (“Fruscio d’assenza” e “Segreti e ombre”) ed accompagnate da disegni originali di Laura Medei. Giustamente, in apertura introducendo il testo, se l’avvertenza è quella di una non esatta aderenza all’haiku per un rimando legato più alle proprie stagioni interiori che non a quelle temporali, la risultanza nell’eco è quello di un’introspettiva non descrizione dei fenomeni ma dell’impressa impronta nello spirito (in questo allora riuscendo in un proposito proprio non consueto). Seguire per noi il suo sentiero è stato come tener dietro a un Pollicino non nel timore della perdita ma quella in qualche modo della sua acquisizione nella pausa delle sue mollichine, tra le sue mollichine nel ricamo di risonanze da un bosco ora reale ora immaginifico, intimo. Ciò che questa parola muove infatti è, nella graduale cancellazione di sé, l’apprendimento del silenzio nell’evocato patire dapprima dell’uomo delle sue fuoriuscite e nello stupore della consegna poi nell’accreditato risalire dalla spirale delle sue fonti. Luci, colori, forme dell’apparire e del sospendersi in un’unica narrazione come un viandante “sulla soglia dell’uscio”, laddove lo stesso ferire pare soffiare verso l’uomo, dalla natura, un’azzurra completezza; dalle tracce di morte, dove veleno, pure nella trasparenza e nello scioglimento degli elementi il tremolio, e la preziosità della gemma. Pare, dicevamo ma anche scherzare non rivelandosi appieno la vita se non come “ombra che attende” e che resta per ciò che è, un’attesa nell’ignoto di suoni che svelano solo assenze. L’uscio di cui accennavamo, all’uomo non sciogliendo ansie- per la sua malia di sapere- ma nell’annuncio prolungando ad ogni passo il cammino. Il fruscio- ma “sciabordio, gorgoglio; anche, bisbiglio, sussurro, mormorio” come da dizionario, certo- eco di ricordanza forse ma anche segno di un labirinto di aspirazioni dicevamo, di sogni non sempre benevoli, qualcosa il cuore per senso panico trattenendo. Eppure, in una pronuncia che per incisione ricorda movimenti di autori più d’oltralpe che del nostro paese (pensiamo a Ponge, a Char, allo stesso Bonnefoy così ampiamente citato da Carla De Bellis in una postfazione che caldamente raccomandiamo), nella seconda sezione tutto sembra assopirsi in una sosta in cui le evocazioni attenuandosi in leggeri sommovimenti si risolvono in respiri e barlumi, in un qualcosa che insieme sconfessa e conferma. Qui nella compiutezza dello sguardo lo spirito pronunciato, non più domandando- nulla attendendo- sembra compiersi:” Cielo di seta,/raggi di cupo argento/fendono il vuoto”. Ed ancora, “Avvolge il sole/nell’abisso dorato/l’ala del vento”. Lo spirito non contempla, placato è esso stesso contemplazione- più non si sa- spirito tra spiriti. Dio così finalmente trovato, “su un sentiero deserto,/ addormentato”. Ma poi, subitaneo, l’addio, il velo lacerato non reggendo. “Cigno trafitto”, il risveglio è quello da un’eternità fatta di attimi e di illuminazioni che però in quanto tali si possono cancellare e cancellarlo. L’altro, così, come segno, come conferma di presenza (“Domani è tardi/devi dirmelo adesso/se vuoi salvarmi”), il sogno vero non svanendo iscritto nel limite stesso dell’uomo, nella sua mortalità. Come unica identitarietà dell’atto ancora l’amore, dunque, solo l’amore infine a dirci nella dizione degli ossimori cui la vita si risolve. Per questo ti ringraziamo Francesco nel saluto da versi tra i più riusciti, senz’altro i più amati:”. “Ecco che arriva/tra le dolci ombre chiare/l’oscura quiete”.