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Umano errare

Romanzo

Piero Mastroberardino
Gruppo Albatros Il Filo

Recensione di Enzo Rega
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Pubblicato il 01/05/2012 12:00:00

Il libro di Mastroberardino rinnova il romanzo industriale che ha visto in Paolo Volponi uno dei maggiori rappresentanti: ricordiamo il suo Memoriale, che riguardava il punto di vista operaio, mentre le Mosche del capitale passavano al livello della gestione e progettazione. Anche nel cinema, un Ermanno Olmi, ad esempio, riprendeva i due livelli: se Il posto parlava di giovani alla ricerca del lavoro, con La circostanza ci si spostava nel mondo dell’alta borghesia. Ottieri ci ha lasciato l’ormai classico Donnarumma all’assalto e più recentemente Ermanno Rea La dismissione sulla fine di Bagnoli. Ma il clima rarefatto di questo romanzo dell’irpino Mastroberardino, titolare dell’omonima  e prestigiosa azienda vinicola di famiglia, ci riporta anche, pure per la questione dei tagli al personale, al surreale L’ultimo duello di Luigi Compagnone (ricordiamo: due impiegati devono giocarsi in uno scontro all’ultimo sangue la conservazione del posto di lavoro).

Ebbene, anche Umano errare è un romanzo aziendale, aziendale più che industriale, seppure non si fa capire, volutamente, di cosa si occupino le due aziende competitors, l’Extensa e la Tetragon (non a caso “tetragona” nel nome), poi fuse nella Extetra. Non sappiamo dunque cosa producano queste aziende, non sappiamo dove si trovino, e i protagonisti hanno cognomi italiani, inglesi, tedeschi, spagnoli, per mantenere il tutto in clima indefinito e straniante. anche se i profili dei personaggi vengono pure delineati in modo particolareggiato, un modo particolareggiato che però richiama in fondo, per dirla con Jung, dei “tipi psicologici”, cioè siamo di fronte a delle fisionomie paradigmatiche. Ritratti di uno spregiudicato cinismo, pur nell’evoluzione delle rispettive personalità, non statiche dunque, ma colte nella loro evoluzione ante quem (nell’analessi narrativa), nonché nel corso del romanzo: cosi com’è tipico di romanzo in quanto genere che ricostruisce i percorsi esistenziali dei protagonisti e il momento di svolta in tale “crescita”: ciò vale soprattutto per i due deuteragonisti, Stephan Berger e Elda Spencer, dei quali si coglie l’intimo contrasto tra istinto e ragione, che è tema di tutto il romanzo. Anche Elda, nella sua corazza (nella corazza che s’è costruita per protezione ma che diventa prigione), sente il bisogno di “deragliare”, di uscire dal binario sul quale ha messo la propria vita, ma che è quello che impongono le circostanze. C’è qualcosa di pirandelliano in questa ricerca d’identità dei personaggi e del cliché cui invece vuole condannarli la società (vedi anche l’illustrazione di copertina dello stesso autore in cui campeggia un volto indefinito, incompleto, di donna fronteggiato da un uccello in volo) e il romanzo stesso ha qualcosa di teatrale: anzi, diciamo che la metafora teatrale e la più insistita, accanto a quella bellica o sportiva, di incontro-scontro qual è la vita. L’incipit stesso del romanzo è teatrale con Stephan che fa ingresso nel wine bar (ci ricorda l’“Entrò Carla” dell’altrettanto teatrale romanzo borghese Gli indifferenti di Moravia). Quel locale nel quale casualmente sono convenuti gli altri personaggi, Elda, appunto, il capo, e Simone e Costanza, tutti coinvolti nel gioco che si creerà tra le aziende interessate. Cosi ci vengono presentate le caratteristiche dei personaggi attraverso un monologo interiore ricostruito da un narratore onnisciente che ci immerge nel calderone dei pensieri degli interessati. Un romanzo affabulatorio che appare come un meccanismo, un “marchingegno” già nel movimento di ingranaggi che ci presenta appunto i personaggi, agganciati come in ruota dentata che gira.

Questo meccanismo e il linguaggio tecnico-burocratico nel quale personaggi e vicende vengono immersi sono, formalmente, la trascrizione del contenuto, che è quello del freddo meccanismo degli affari, un meccanismo che vuole tenere al bando i sentimenti, sentimenti che invece trapelano nelle triangolazioni amorose (un controverso gioco di affinità elettive) che si creano fino a determinare decisioni che non sono poi il prodotto di disincarnate analisi. L’umano, troppo umano è sempre li a incombere. Se l’armamentario metaforico sembra diventare troppo pesante – e probabilmente lo è e sembra soffocare il dipanarsi della storia che coinvolge di più quando è portata avanti in modo snello –, è pero senz’altro funzionale al mondo che vuole descrivere. E la resa di un’opera letteraria va considerata appunto anche nella proporzione tra storia e racconto, ciò che si vuol dire e come lo si dice. Pensiamo appunto alla ridondanza tecnica di un romanzo come il già ricordato volponiano Mosche del capitale.  

  L’indeterminatezza degli ambienti, che rimane tale, pur nell’affabulazione avvolgente, dà poi un carattere di genericità, che si fa però universalità. Il cinismo degli scontri aziendali diventa a sua volta metafora della vita tutta. Un meccanismo che, pirandellianamente, ci stritola e dal quale, pirandellianamente, si vuole uscire con un colpo di scena. Come quello che ci propone il finale e che, nella sua ambiguità, non sveliamo.

L’umano errare è dunque quello di tutti noi. Errare nel senso di aggirarci nella vita. Errare nel senso di sbagliare. Anche qui una proficua ambiguità.



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