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Lo Stato delle Cose - pensiero critico scritture

Rivista

Aa. VV.
Oèdipus

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 16/05/2014 12:00:00

 

Questo numero de “Lo stato delle Cose” (corredato dalle belle illustrazioni di Robert Seymour per The Posthumous Papers of the Picwick Club, 1936 di Charles Dickens) penultimo della nuova serie della rivista diretta da Francesco G. Forte, e che come recita nel sottotitolo si muove abilmente tra pensieri critici e scritture, conferma la poliedricità di un’idea di letteratura e condivisione non scontata ma soprattutto essenziale per l’offerta e gli spunti di valore che va a intrecciare. Vivacità di incontro aperta nella sezione COLLOQUI dall’intervento (“Purché ci sia il neo..”) di Renato Barilli sull’opera di Domenico Rea in un convegno del 2006 a Nocera in cui subito si motiva la necessità dell’inclusione dello scrittore napoletano in un filone “capace di cogliere le ragioni di un periodo, di una situazione generale di cultura, di Stato, di società”. Questo perché dal suo punto di vista di fenomenologo un autore va sempre inquadrato in uno stile che comunque lo supera. Così il discorso si fa forte ripartendo proprio dalla differenza che il neo in accostamento fa sempre rispetto ad altre correnti pur se di riferimento e/o precedenti. Come infatti per il neorealismo che non è proprio la stessa cosa col realismo nell’accostamento interessante anche col suo versante cinematografico, soprattutto con Zavattini dal quale trae quello che per noi pare un termine calzante e straordinario, l’“eventico” appunto (“perché in lui, che prepara degli strumenti per accalappiare l’accadimento allo stato puro”, l’evento è tutto). Ed allora come il neorealista nel cinema si muove sulla base della convinzione che la realtà sia “fonte d’imprevisto” e del quale si può solo prendere atto e metterlo a punto in presa diretta, così è anche nella scrittura in cui Rea lo afferra giustappunto allo stato puro senza però fissarlo al tipico come sempre avvenuto nel realismo (nella registrazione di una sorte infine già predeterminata) ma semplicemente piuttosto eliminando ogni distanza facendosi “compartecipe dei suoi personaggi” con un linguaggio dunque il più possibile prossimo al mondo in oggetto. Allo stesso modo efficacemente Barilli ci mostra come in questa scrittura in cui nulla come detto è mai prevedibile anche la lotta di classe e le disuguaglianze non sono mai stabili per sempre , in una possibilità di caduta o riscatto sempre presente , le figure muovendosi costantemente in una sorta di interregno . Sottolineatura calzante che dopo aver reso omaggio all’autore di “Una vampata di rossore ” anche nel versante del romanzo si conclude con il richiamo a quei nuovi autori, Peppe Barra su tutti, in cui una sorta di neo neorealismo rivive, seppure forse inconsapevolmente, in un’ eredità che ha certo nel debito proprio Domenico Rea. Discorso questo che va a introdurre alla sezione del PENSIERO CRITICO divisa in due interventi. Il primo è relativo all’accurata analisi di Giampiero Marano su alcuni aspetti del lavoro di Roberto Calasso (“Fra India, Mediterraneo e post-storia: l’esoterismo di Roberto Calasso”) nell’arco dei suoi studi sull’esoterismo da lui inteso come “parte maledetta e benedetta” del mondo, fondata sul “pensiero più vicino alla visione che le cose hanno di se stesse”, nella convinzione tra l’altro che il segreto stesso dell’esoterico non possa non risultare dalla consapevolezza del carattere irreversibile del tempo (in una sottolineatura trasgressiva e anomica delle griglie). Interessante però per noi, soprattutto, in queste pagine (che per specificità rimandiamo e raccomandiamo volentieri ad una lettura per intero) è il riferimento alla funzionalità del rito data dai primi poeti e di come la nascita della letteratura che avviene “nell’ intervallo tra gli atti di culto in cui gli aedi raccontano storie di eroi e di dei” sia strettamente correlata all’ambito sacrificale. Cecilia Bello Minciacchi, invece, in “Reificati allo specchio. Per “Le Mosche del capitale” di Paolo Volponi”, ci regala un bel saggio che invita alla rilettura di un romanzo per certi versi capitale (e ristampato nel 2010 da Einaudi con prefazione di Massimo Raffaeli) in cui l’autore marchigiano nello stretto legame tra scrittura e attività politica, nel registrare “il fallimento di un utopia” (pur nella forza comunque scaturita), ugualmente va a colpire l’insaziabilità di un potere tra “assolutismo del capitale”, “disumanizzazione dei meccanismi produttivi” e “dittatura del consumismo”. Soprattutto però alla Bello Minciacchi preme mettere in luce la sottolineatura della “reificazione di un universo non più naturale, nel quale niente sfugge alla piramide del comando e ai surrogati dell’artificialità”. Universo, come qui ricordato, ben conosciuto da Volponi per la sua attività alla Olivetti prima e alla Fiat come consulente poi. Analisi che così va a concludersi poi col richiamo non solo al “Pianeta irritabile” (1978) che prefigura in qualche modo il libro ma anche a “Memoriale” (1962) nella narrazione della nevrosi e dell’alienazione dell’operaio, ricostruendo dunque un percorso che con “Le mosche del capitale” dice molto della coscienza politica e letteraria di un autore costantemente acceso per responsabilità, oltre che alla propria, alla storia di un intero paese. Nella sezione VERSIONI invece sono acclusi in testo a fronte brani poetici e in prosa in lingua originale con relativa traduzione. In questo numero sono presentate poesie in francese di Jean- Charles Vegliante con la versione di Felice Piemontese (tratte da “Rien Commun” e di cui segnaliamo in particolar modo la prima sul tema stesso del tradurre) e in portoghese di Manoel de Barros tradotte da Giorgio Sica (da “Livro sobre nada” e connotate da una grande narrabilità poetica nella magia di un mondo efficacemente presente per semplice- e assurdo- sogno). Similmente in Scritture tra i testi in prosa della scrittrice argentina Ana Marìa Shua (da “Artigianato della magia” nella traduzione di Sara Princivalle) i cui luoghi ed i cui personaggi sono legati tra loro da una realtà vista sotto la lente di un fantastico che più che effettivo è vivo nelle idee che fa scaturire e dai condizionamenti che conseguentemente ne derivano. L’altro autore della sezione è Andrea Inglese le cui poesie (tratte dall’opera in uscita per la stessa Oèdipus, “La grande anitra”) rivelano a filo di uno sguardo silente un pensiero che si rasoia a definire incrostazioni e movimenti in dissolvenza di figure e sfondi immobili solo nell’attimo in cui il verso lo precisa reindirizzandolo però da e in un reale di continue scomposizioni. E’ in DOSSIER, a seguire, la felicissima, seconda riproposta da parte di Francesco G. Forte di testi di Giuseppe Bartolucci a partire però dalla produzione degli anni cinquanta, dunque prima della sua imposizione ai vertici della critica teatrale (e suggerito già accuratamente nel titolo: “Bartolucci prima di Bartolucci”). Al trittico pavesiano (“Il sottosuolo di Cesare Pavese”, “Il primo Pavese”, “La luna e i falò”) il curatore fa seguire infatti per nostro piacere degli affreschi, degli schizzi di vita cittadina dominati da una vivacità di sguardo e di scrittura che tutto assomma, sminuzza e celebra in una Milano velocissima dove le stesse gru alla domenica appaiono “scheletri di elefanti in un cimitero di tetti”. Infine con SCHEDE il numero, come ogni rivista nella giusta selezione dovrebbe, va a chiudere segnalando nella presentazione degli stessi direttori due nuove riviste : Leviana con Eugenio Lucrezi e Trivio con Antonio Pietrapaoli (anch’essa edita da Oèdipus). Quest’ultima però (tra poesia, prosa e critica) che a dire la verità riapre i battenti dopo un periodo di chiusura e che nel titolo allude e alle tre arti (i tre sentieri della scrittura letteraria) e a “triviale” nel rimando “al significato basico di trivio come incrocio di tre strade o vie” e dunque ad un orizzonte di ritrovo, di piazza nelle testimonianze e nelle sperimentazioni più disparate. Leviana invece, semestrale da Napoli, si propone come “laboratorio e dibattito di idee” nella promozione di una discussione poetica “capace di modificare struttura e confini del pensiero” sul crinale di un pensiero poetante, quindi, come attività critica attenta anche “alle possibili intersezioni con discipline scientifiche e filosofia”.

 


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