Pubblicato il 01/07/2024 07:46:24
Basquiat: o il ‘disordine invisibile’: Dentro il ‘labirinto’ raffigurativo.
Scrive Achille Bonito Oliva (1): “L’idea dell’arte alla fine degli anni Settanta è quella di ritrovare dentro di sé il piacere e il pericolo di tenere le mani in pasta, rigorosamente, nella materia dell’immaginario, fatta di derive sgominate, di approssimazioni e mai approdi definitivi. L’opera diventa una mappa del nomadismo, dello spostamento progressivo praticato fuori da ogni direzione precostituita da parte di artisti che sono dei ciechi - vedenti, che ruotano la coda intorno al piacere di un’arte che non si reprime davanti a niente, nemmeno davanti alla storia”. Detta così, sembrerebbe un’arte ‘irrispettosa’ o quanto meno ‘scorretta’ perché fuggevole da una precedente connotazione esteticamente corretta e universalmente accettata. Di non poco conto se si pensa alla linea di lavoro messa in opera, successivamente, dal movimento della ‘Transavanguardia’ (2), che vuole l’arte liberata da tutti gli ‘schemi’ che l’avevano tenuta prigioniera di se stessa e finalmente scevra da ogni intenzione moralistica in cui sul finire degli anni Sessanta era sfociata, anche quella precedente altresì detta ‘Avanguardia’: “al limite di un possesso messo continuamente in discussione dal naturale movimento dell’opera e dell’artista, che è di spossessamento e di superamento” (3). Pur tuttavia l’assunto iniziale sembra annunciare una vera e propria catastrofe o quanto meno di disordine, di una discontinuità che rompe gli equilibri dell’estetica e del linguaggio pittorico e non solo: “..a favore di una precipitazione nella materia dell’immaginario, che va inteso non come ritorno nostalgico (al fiabesco, al sacrale, al reale); né come riflusso (dagli schemi impressionistici e cubisti), bensì come flusso che trascina dentro di sé la sedimentazione di molte cose, che scavalcano il semplice ritorno al privato e al simbolico” (4). Ma seguire il critico è talvolta arduo, soprattutto quando egli si appresta a incorniciare (è il suo lavoro) non la singola opera d’arte ma tutta l’arte in un più ampio quadro artistico – storico/antropologico/sociale – nell’ambito della produzione, economica e di mercato. Ben venga, quindi chi, come Bonito Oliva, ci tiene al corrente delle problematiche dell’arte, talvolta pur preoccupanti ma che, al tempo stesso, riesce (e lo fa con tenacia) a farci comprendere le dinamiche dell’attuale proiezione dell’arte contemporanea. O almeno per tutti quanti reclamano di sapere, o si domandano: “dove sta andando l’arte?”, cioè in quale evoluzione e dimensione della nostra esistenza artistica “ci stiamo conducendo?”. In passato, va ricordato, si era nel 1979, Gianni Vattimo (5),in un suo scritto rimasto famoso, riaffermava il vecchio concetto hegeliano della “morte dell’arte”, ponendosi una domanda (ennesima) spregiudicata quanto profetica: “Non è forse vero che l’universalizzazione del dominio dell’informazione può essere interpretato come una realizzazione pervertita del trionfo dello spirito assoluto?”. Analizzando le ultime espressioni dell’arte, ci accorgiamo che esse portano a una possibilità conclusiva espressa non solo come utopia teorica, bensì – scrive ancora Vattimo – “La pratica delle arti a cominciare dalle avanguardie storiche primo-novecentesche, mostra un fenomeno generale di ‘esplosione’ dell’estetico fuori dai limiti istituzionali che gli erano fissati dalla tradizione. (..) Questa ‘esplosione’ diventa, per esempio, negazione dei luoghi tradizionalmente deputati all’esperienza estetica: la sala da concerto, il teatro, la galleria, il museo, il libro; si attuano così una serie di operazioni – come la land-art, la body-art, il teatro di strada, il lavoro teatrale come lavoro di quartiere – che, rispetto alle ambizioni metafisiche o rivoluzionarie, delle avanguardie storiche appaiono più limitate, ma anche alla portata più concreta dell’esperienza attuale” (6). Giovanni Vecchi (7) riprese in seguito questo discorso nel suo articolo: “Il tramonto dell’arte”, come constatazione di una situazione storica dell’oggi, in cui, il rapporto tra l’ontologia e una filosofia dell’arte, avrebbe portato a soluzione l’inestricabile questione dell’unione-separazione tra estetica e critica, (tra marketing e filosofia del mercato), in cui la letteratura tutt’oggi gioca un ruolo di primaria importanza, gettando un ponte per una possibile applicazione della ‘filosofia’ alla storia dell’arte. I tentativi linguistici, sul piano teorico, apparentemente sembrerebbero funzionali, mentre su quello empirico, senza il supporto (grandissimo) dei media, la trattazione filosofica non risponderebbe altrettanto bene come si pensava, perché destinata a dibattersi in una fittissima rete di confronti e valutazioni contrastanti, in ragione del fatto che l’opera d’arte oggi ha ceduto il fianco alla riproducibilità, alla facilità della copia d’autore, alla dismissione di quelli che sono i valori portanti della materia pittorica, in primis, dei materiali poveri o di scarto che vengono riutilizzati. Se al dunque il problema storico di una possibile filosofia dell’arte va ad annoverare anche l’ ‘oggettivismo’ che oggi comprende l’arte contemporanea, l’atmosfera negativa che l’avvolge induce a un’attesa imprevedibile e apparentemente catastrofica. Tuttavia il problema sembra per il momento risolto se con la ‘Transavanguardia’ Bonito Oliva è qui a dirci che: “L’arte, finalmente, ritorna ai suoi motivi interni, alle ragioni costitutive del suo operare, al suo luogo per eccellenza che è il ‘labirinto’, inteso come ‘lavoro dentro’, come escavo continuo dentro la sostanza della pittura” (8). E soprattutto che, per crisi dell’arte, dobbiamo intendere, secondo l’etimo – punto di rottura – e anche – di verifica, che va vista: “...come angolazione permanente per verificare il vero tessuto dell’arte. (..) Oggi per crisi dell’arte in senso stretto s’intende invece la crisi nell’evoluzione dei linguaggi artistici. (..) Ciò che la teorizzazione della ‘Transavanguardia” come momento di criticità ha ribaltato in termini di nuova operatività. (..) Con essa si è smascherata la valenza progressiva dell’arte, dimostrando come di fronte all’immodificabilità del mondo, l’arte non è progressista bensì ‘progressiva’, rispetto alla coscienza della propria e circoscritta evoluzione interna” (9). Non ci rimane che vedere dove inserire Basquiat in questo ‘inprevedibile’ quanto ‘insospettato’ contesto. In quale ‘labirinto’ egli è finito? Ce lo riferisce Gianni Mercurio (10) autore di un art-dossier su Basquiat, per il quale: “Il giovane Jean-Michel sembra avere già le idee chiare a diciassette anni, quando al suo rientro in famiglia dopo l’ennesima fuga da casa, dice al padre: «Un giorno diventerò molto, molto famoso» – e che poi aggiunge: «È Cool avere vent’anni ed essere arrivati mentre centinaia di giovani artisti vanno lasciando le diapositive dei loro lavori qua e là (..) ma la crassa volubilità del mercato degli speculatori può avere un effetto deleterio sulla futura carriera dell’artista. (..) Qui non si tratta più di collezionare arte, ma di comprare individui” – aprendo così una parentesi su arte e mercato, su giovani promesse e devastazioni artistiche. Entrando forzatamente nel ‘labirinto transfigurativo’ (11), ‘la più straordinaria e luminosa metafora della riflessione e della ricerca’ sta di fatto che, a un certo punto, non troviamo più Basquiat, bensì dipinti sulla tela vediamo figure scheletriche eviscerate, autopsie di corpi, volti come maschere che esprimono la sua ossessione per la morte. E sono angeli sgomenti, eroi allucinati e Dei dai nomi astrusi, come: ‘Loin’, ‘Vndrz’, ‘Profit I’, ‘Black Pope’ (nick-name di amici e altri personaggi da lui inventati); ‘Natchez’ (nome tribale di un gruppo di nativi americani); ‘Zydeco’, ‘Exu’ (divinità afro-brasiliana preso dal ‘candomblé’, i cui colori sono il rosso e il nero, i suoi cibi preferiti la ‘faroffa’, la ‘cachassa’, l’alcol e i sigari), custode della soglia che segna il passaggio tra la vita e la morte. Scelta indicativa quindi e forse obbligatoria per un Basquiat perso nel ‘labirinto del vissuto’ in cui mescola spazio reale e spazio simbolico, e talmente impressionato e autodistruttivo che assiste alla trasformazione del suo linguaggio artistico in quell’ ‘immaginario collettivo’ che è motivazione del suo errare, tuttavia riconoscibile negli spazi convenzionali tipici della ‘body-art’ (12) e della ‘etnic -art’, seppure non sempre ‘accessibili’ in senso stretto. Cosa significano allora questi fantasmi dipinti, questi redivivi proscritti che provvedono di dare un senso all’arte di Basquiat, se non ‘simboli’ irrinunciabili d’una esistenza dissociata, scollegata dalla realtà che l’artista si trovava a vivere, proprio nel momento in cui sembrava trascinato dall’onda del successo? Non trovo altro di meglio per dare una risposta che rifarmi a quanto scritto da Carl G. Jung (13) in “L’uomo e i suoi simboli”: “Ciò che noi chiamiamo simbolo è un termine, un nome o anche una rappresentazione che può essere familiare nella vita di tutti i giorni e che tuttavia possiede connotati specifici oltre al suo significato ovvio e convenzionale. Esso implica qualcosa di vago, di sconosciuto o di inaccessibile per noi. (..) perciò una parola o un’immagine può dirsi simbolica quando implica qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato. Essa possiede un aspetto più ampio, “inconscio”, che non è mai definito con precisione o compiutamente spiegato. Né si può sperare di definirlo o spiegarlo. Quando la mente esplora il simbolo, essa viene portata a contatto con idee che stanno al di là delle capacità razionali. (..) Tuttavia questo uso conoscitivo dei simboli è soltanto un aspetto di un fatto psicologico di grande importanza: la mente produce simboli inconsciamente e spontaneamente”. A conferma di questo processo interpretativo dei simboli, proviamo ad analizzare quanto espresso da Andy Warhol (14) che, a proposito delle sue “Collaborations” con Basquiat, così scrive: “Penso che i dipinti che stiamo facendo insieme siano migliori quando non riesci a distinguere ‘chi ha fatto cosa’”, probabilmente riferito ai ‘ritratti simbolici’ eseguiti da Basquiat, lì dove questi confluiscono nel ‘segno moderatore’ di Warhol. Viceversa Warhol consegna a Basquiat una visione ‘altra’ del mondo comunemente condivisa, sia negli ‘untitled’, sia negli ‘autoritratti’, attraverso i quali Basquiat vuole lasciare una qualche traccia di sé, una sua immagine che egli vuole sopravviva alla sua arte, alla sua corporeità. In “La solitudine dell’anima”, Eugenio Borgna (15) docente di psichiatria, scrive che: “...la coscienza di un reale diverso (altro da quello che sta abitualmente davanti a noi) non è, in fondo, se non la coscienza che ‘nel reale’ i significati si trasformano vertiginosamente”, onde per cui possiamo considerare che, il susseguirsi di esperienze trasfigurative in Basquiat, incide sulla configurazione della propria identità personale. Il quale, all’apice dello strepitoso ‘successo’ conseguito: “..raffigura se stesso nel dipinto “To Repel Ghosts” (1985) con una croce al collo, seduto e con un bastone da sciamano in mano, in cui esorcizza l’idea e riafferma, con le armi della pittura e con i simboli, la propria presenza attingendo ancora una volta alle sue radici afroamericane e a quel sincretismo religioso cui allude mediante una citazione esplicita di figure bibliche” (16). Ma respingere i ‘fantasmi’ non implica necessariamente la conclusione del dramma in atto (lì dove il successo può essere la causa del suo dramma), e Basquiat si trova costretto a dover rivedere l’impostazione della sua vita tra passato e presente, tra l’ambiguità e la risolutezza di vivere in un mondo che deve ancora scoprire. Straordinariamente i ‘fantasmi’ della sua infanzia non lo mollano neppure quando il ‘successo’ lo porta ad avere tutto ciò che ha desiderato dalla vita. E lo tormentano per quello che possono, allo stesso modo che farebbe ‘Exu’ (fantasma del proprio inconscio quotidiano), signore delle strade, della materia, della fisicità, della sessualità, delle droghe, del denaro e del potere, col quale si trova costantemente a vivere. Essi (i suoi fantasmi) vivono là, annichiliti nei dipinti che aspettano d’essere contemplati, fuori da ogni immaginabile arco di tempo, fuori da questo mondo che in parallelo col passato chiede di entrare nella storia. Mentre noi, osservatori disattenti di ciò che ci riguarda, che dovremmo restituirli alla dimensione del presente, per essere noi davvero presenti a noi stessi, non ne siamo capaci. Saremo mai in grado di farlo? Forse sì, è la risposta. Ma prima dobbiamo accettare questi suoi ‘fantasmi’, amarli, come ‘magnifiche presenze’ della sua arte.
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