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Marina

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 07/11/2008 17:20:00



MARINA


Incontrare Marina è stato un colpo di fulmine. Anzi, quest'espressione comunemente usata per l’amore a prima vista non chiarisce benché minimamente quello che provai. Direi piuttosto che fu un’onda anomala. Una di quelle onde che s’alzano improvvisamente dal mare e abbattendosi sulle coste lasciano al loro ritrarsi una gran meraviglia e stordimento. Ricordo che, quando distolsi gli occhi dai suoi occhi, le case attorno, gli alberi, le automobili parcheggiate in fila sul bordo della strada ondeggiavano deformi, come specchiate nell’acqua. Fu lei a chiamarmi pochi giorni dopo, essendosi sbarazzata di una relazione che languiva nella noia. Marina provocò in me un vero terremoto facendo affiorare quegli strati del paleoencefalo che l’io raziocinante custodiva ben sepolti sotto una spessa coltre di civili costumi e buone maniere.
Quando cominciai ad uscire con lei, una passione fortissima s’impadronì della mia mente. Vedevo il suo viso specchiato sui vetri delle finestre, i suoi seni, le sue cosce sullo schermo del computer. Solo pensare a lei mi provocava un intenso desiderio che esigeva imperiosamente d’essere soddisfatto.
Marina amava questa mia focosità che accendeva o raffreddava con quella perizia che le donne non imparano da alcuna parte, ma possiedono dentro, nel loro patrimonio genetico. Non si deve tuttavia credere che la nostra relazione fosse nutrita solo o principalmente dall’attrazione sessuale. In verità Marina era per me un riposo, un universo sereno, un dolce riparo al mio carattere ansioso, spesso preda dello stress. Indubbiamente con il suo carattere buono ma forte esercitava su di me una certa supremazia iniziandomi ai riti di un mondo libero e disinibito di cui fino allora non avevo sospettato l’esistenza, un mondo, lei affermava, in cui gli istinti primordiali avevano diritto d’esistere a fianco di quella che lei chiamava civile ipocrisia. Ad esempio: fu lei ad abituarmi a girare per casa completamente nudo, a mangiare carne cruda. Perché ogni animale si nutre della carne delle specie inferiori e da essa assume non solo le sostanze chimiche, ma la vitalità e quegli istinti che la moralità e la razionalità hanno ucciso nell’uomo moderno. Per acquistare tali proprietà non bisogna alterare i tessuti con la cottura. Così, quando si cenava in casa, mangiavamo delle enormi costate, crude, accompagnate da abbondante verdura d’ogni tipo. Ridevamo vedendo attorno alle labbra l’alone rossastro del sangue. Una volta si ferì col coltello con cui tagliava il pane. Mi fece leccare la ferita. Per la prima volta assaporai il suo sangue caldo e buono.
Un giorno mi disse che voleva fare un viaggio, una lunga luna di miele, perché due che si amano hanno bisogno d’appartarsi, d’essere soli al mondo. Era Gennaio, con grande meraviglia dei colleghi, presi trenta giorni di ferie sacrificando le vacanze estive. Dopo numerosi scali e cambi d’aereo, un piccolo bimotore ci condusse sopra un’isola dell’Oceano Pacifico. Atterrammo di notte. Usciti dall’aereo ci dirigemmo verso il terminal che era un edificio di legno dall’aspetto miserabile e cadente. Fu una breve passeggiata al buio, illuminati soltanto dal plenilunio. L’aria fresca aveva un profumo dolciastro di frutti esotici. Aiuole di fiori dai grandi petali carnosi circondavano l’edificio. Presi i bagagli, ci avviammo con un pulmino al villaggio dove avevamo prenotato l’abitazione.
La casa era una villetta di due stanze, una grande cucina e un bagno, tutta arredata in vimini con cuscini e carta da parati dai colori sgargianti. Grandi vetrate s’affacciavano da un lato sul mare. Dagli altri lati palme e piante ad alto fusto ci separavano dalle case vicine. Non c’erano tendaggi né scuri, perciò le camere erano invase dal plenilunio e le ombre dei mobili e delle suppellettili ingigantivano il silenzio della notte rotto a tratti dallo sciabordio delle onde infrante ai piedi della scogliera. Solitamente abitare una casa nuova e provvisoria mi desta una irrazionale apprensione. Ebbene, quella piccola casa si offerse a noi così calda e accogliente nella sua modestia, che avemmo l’impressione di abitarci già da parecchi giorni. Immediatamente riempimmo i cassetti delle nostre cose, collaudammo la doccia e il bagno. Il letto era comodo e spazioso. Il giorno seguente, smaltiti gli effetti del fuso orario, visitammo il villaggio costituito da una ventina di case simili alla nostra, divise da stradine in terra battuta dove circolavano carretti tirati da asinelli. In una palazzina quadrata, unica costruzione in muratura, era situato l’emporio. Poco distante una cappella cattolica dove alcune volte all’anno un missionario di passaggio diceva messa. L’isola poteva essere visitata tutta intera con una passeggiata di tre ore. La costa era sinuosa con spiagge bianche di sabbia finissima o di ciottoli, protette dalla barriera corallina. Per un lungo tratto a nord era costituita da un’alta scogliera dove andavano ad infrangersi le onde dell’oceano. Trascorrevamo il tempo sulle spiagge, pigramente sdraiati al sole; oppure facevamo lunghe passeggiate sulla scogliera. Marina era pensosa. I nostri rapporti s’erano diradati. Ero preoccupato, mi dicevo che la luna di miele a volte porta sfortuna.
Un pomeriggio passeggiavamo sulla scogliera, io avevo in mano un libricino, una guida della flora tropicale acquistato allo spaccio, e indicavo per nome i numerosi fiori d’ogni specie che coloravano gli anfratti delle rocce. Ad un tratto, indicando per scherzo un ciottolo bianco la cui forma somigliava lontanamente ad un fungo “Ecco un caliptus caudato, rarissimo fiore carnivoro che si nutre d’api e belle fanciulle” “E’ molto bello!” disse Marina allungando la mano per toccarlo. Non coglieva mai i fiori e non uccideva gli insetti perché affermava che l’uomo poteva fare l’automobile o l’aereo, ma non poteva fare nemmeno un microbo o una formica, e allora come si poteva ritenere preziosa una macchina e si uccidevano con noncuranza le piante e gli animali? Quando s’accorse al tatto che era un sasso, comparve sul suo viso un sorriso simile a quello di un bambino sorpreso a compiere una marachella, che spera con esso di schivare o in qualche modo d’attenuare l’asprezza della punizione. Ci fu un lungo imbarazzato silenzio. La fissai negli occhi: erano fissi, privi di luce come quelli di un cieco. Scopersi allora che Marina stava diventando cieca.
Le chiesi come mai, ma ella si schermì a lungo dicendo che non era il momento. Voleva riprendere la passeggiata, quasi fuggirmi, ma la trattenni per un braccio “Va bene! mi disse, sto diventando cieca. Ho un tumore che mi divora i polmoni e il cervello. Inguaribile. Non c’è niente da fare.” Rimasi di sasso. Quelle parole mi risuonavano attorno, erano fili neri che mi s’avviluppavano strappandomi a lei che vedevo sempre più lontana e piccola, proiettata in uno spazio vuoto. “Sto precipitando nel buio, ma non credevo che ciò avvenisse così rapidamente. Volevo averti tutto mio per l’ultima volta. Se avessi immaginato non avrei fatto questo viaggio”. Quando mi ripresi dallo stordimento, le promisi che l’avrei portata nei migliori centri, che a tutto c’è un rimedio. “Andiamo sulla luna, su Marte e non possiamo curare la tua malattia!”. Lei scuoteva il capo in segno di diniego “Non c’è niente da fare, sto diventando cieca” Le dissi che l’avrei tenuta per mano, che avrebbe visto con i miei occhi. Lei con gli occhi persi nel vuoto: “ La cecità è in fondo la metafora della morte, il buio è il nulla in cui la coscienza sprofonderà tra breve. Ma il dolore delle metastasi alle ossa è vivo e feroce (mi ero accorto, senza darci importanza, che in alcuni momenti zoppicava). E’ la carie della vita che non vuole morire”. Diceva ciò quasi in preda ad un’esaltazione mistica, e i suoi occhi sbiaditi dalla cecità parevano accendersi di una luce fosforescente. La strinsi a me con disperazione. M’implorò d’essere delicato, di non farle male. Sentii le sue lacrime sul mio petto. La strinsi con delicatezza e mi s’annebbiò la vista. Nei giorni che seguirono, non dovendo più simulare, zoppicava vistosamente. Il dolore divenne insopportabile. I normali antidolorifici non avevano più alcun effetto. Ci voleva la morfina, ma trovarne in quell’isola era un’impresa disperata. Assistevo alla sua sofferenza con impotente tenerezza. Ormai passavamo le giornate sulla sedia a sdraio davanti all’uscio di casa. Durante l’ultima passeggiata che facemmo sulla scogliera, era un mattino ventoso e le onde frangendosi ai piedi degli scogli spandevano una nebbiolina d’oro che ci avvolgeva come dentro un’icona bizantina, mi disse: “Ecco gli elementi richiedono la libertà di essere restituiti al caos. Io li ho trattenuti in me, ne ho fatto dimora della mia coscienza. Essi ora si vendicano. Il dolore mi rende la vita insopportabilmente odiosa e desiderabile la morte. Non posso più combattere contro di essi che esigono il disfacimento del mio corpo. Non permettere questo, ti prego!” Precipitavo nella disperazione, non capivo a cosa alludesse, a come avrei potuto oppormi alla sua fine. Mi sentivo disarmato, non potevo far altro che proporle di ritornare a casa: un ospedale specializzato, dottori, cure alle quali ormai non credevo nemmeno io. Un giorno, ormai completamente cieca, non potendo più resistere al dolore mi chiese di condurla sulla scogliera per buttarsi giù e farla finita. L’angoscia ottenebrava la mia mente, tuttavia quei giorni si sono impressi nella memoria come un tatuaggio indelebile così che ritornano vividi e reali i particolari d’ogni gesto, d’ogni parola. Il ricordo ogni volta rinnova lo strazio anche se ora tutto è finito e lei riposa in me.
La sera ingigantisce il dolore come le ombre delle cose. Una sera Marina piangeva ed io inutilmente le stringevo il capo tra le mani baciandole i capelli. Ad un tratto parve vincere l’improba lotta con la sofferenza. Asciugatasi il viso dalle lacrime, assunse un’espressione fredda e dura: ”Fai questo per me” disse tenendo in mano un collant di nailon e stringendoselo attorno al collo. Parlavamo spesso d’eutanasia prima di quel viaggio. Eravamo entrambi favorevoli. Dicevo di non capire come mai la Società mettesse fuori legge una pratica così palesemente dettata dalla pietà umana. Sono parole, discorsi che si fanno con leggerezza fino a che non ci toccano direttamente. Ora l’Eutanasia si presentava dinanzi a me di persona, entrava in casa mia senza nemmeno bussare, anzi faceva da padrona! La notte non dormii rigirandomi nel letto. Osservavo le ombre degli alberi proiettate sul soffitto, ascoltavo il lamento di Marina dalla stanza accanto. Da alcuni giorni, per sua volontà, dormiva sola ed io mi ero trasferito sul divano letto in salotto.
Ormai passava tutto il tempo a letto. Una spossatezza infinita s’era impadronita di lei. L’aiutavo ad alzarsi per venire a tavola, finito il pranzo, che lei assaggiava appena, l’adagiavo sulla sedia a sdraio. Era diventata completamente cieca. I suoi occhi erano bianchi come quelli di un morto. Mi rendevo conto che le rimaneva poco da vivere, ero preoccupato di come avrei fatto a riportare a casa il suo corpo. Non sapevo neppure se avesse parenti né osavo domandarle, per paura che indovinasse quei ragionamenti d’ordine pratico di cui provavo vergogna perché sembravano sminuire il mio dolore e quindi l’amore per lei.
Quanto sto per raccontare mi è particolarmente doloroso. Si dice che la Natura ha una sorta di pietà per l’uomo che subisce un’immensa disgrazia, cancellando nella memoria i momenti più angosciosi. Così chi è coinvolto in un incidente stradale o sopravvive ad un suicidio non ricorda l’attimo dell’impatto, quando la morte gli è stata più da presso.
Con me non è stata così misericordiosa. Ricordo con infinito dolore e angoscia, minuto per minuto, quel giorno, l’ultimo, in cui Marina piangeva e gridava. La guardavo impotente. Avrei voluto essere cieco e sordo, avrei voluto scappare, ma non potevo sottrarmi.
A sera ella mi supplicava d’aiutarla a morire. Le ero vicino, immobile, come paralizzato e lei continuava ad urlare di dolore, quasi dimentica della mia presenza. Nessun essere umano avrebbe potuto resistere a tanto strazio! Presi le calze, le girai attorno al collo e strinsi trattenendo il fiato con tutta la mia forza. Non so per quanto tempo rimasi così disperatamente avvinghiato a quelle calze. Le braccia mi dolevano e Marina aveva smesso di respirare da un pezzo.
C’era un profondo silenzio, quando mollai la presa ed ella cadde riversa sul tavolo. E’ difficile dire quanto certe azioni sono dettate dalla pietà o dal desiderio di liberarsi dalla pietà, quando questa s’è tramutata in angoscia. Mi sdraiai sul divano e subito sprofondai in un sonno senza sogni. Mi svegliai che il sole era alto. Ero madido di sudore, con i vestiti inzuppati delle mie urine. Mi spogliai e mi buttai sotto la doccia, immobile, lasciando che essa mi lavasse con mani pietose. Girai per casa nudo, grondante d’acqua come un pianto copioso. Marina era riversa sul tavolo con le calze attorno al collo. Faceva molto caldo e il suo corpo si sarebbe presto decomposto, così decisi di prender tempo ponendolo dentro la ghiacciaia. La spogliai, sembrava essersi rimpicciolita, tuttavia non ci stava nella ghiacciaia. Presi un coltellaccio dalla cucina e disarticolai le cosce e le braccia. Il tronco poteva starci se avessi tagliato la testa. Decapitarla fu l’atto più doloroso. Il tronco e la testa occupavano quasi tutto lo spazio. Dovetti disarticolare i gomiti e le ginocchia per riempire gli spazi vuoti. Pulii sommariamente il pavimento con i nostri vestiti che gettai alla fine dell'opera nel sacco dei rifiuti, feci un’altra doccia, quindi, indossati i calzoncini da bagno, andai in spiaggia.
Rimasi sdraiato all’ombra di un capanno per tutta la giornata, in preda ad un profondo stordimento. Mi comparivano come in sogno le immagini dei momenti felici vissuti con Marina. Furono proprio i discorsi che mi faceva durante le cene a base di carne cruda ad illuminarmi. Dietro le sue parole si celava il proposito di essere divorata per esistere ancora in un corpo vivo.
Quel viaggio dunque era stato organizzato apposta. Lei aveva deciso di soffrire atrocemente, d’immolarsi nel dolore assoluto per vivere in me.
Rientrai in casa dopo il tramonto. Non avevo toccato cibo da due giorni. Tolsi dal ghiaccio una coscia che era diventata dura come marmo bianco, marezzato di rosa e di viola. La misi a scongelare su un pezzo di carta stagnola. Mi sedetti in salotto. Nei giorni passati il tempo era riempito dalla presenza prima gaia poi angosciosa di Marina. Ora il vuoto era attorno e dentro di me; uscii da casa per una breve passeggiata sulla scogliera. Il cielo e il mare incupivano celermente. Quando rientrai era notte fonda. La coscia s’era completamente scongelata lasciando sulla stagnola una piccola pozza d’acqua rosa. Indossai i migliori indumenti che m’ero portato in valigia. Pensavamo ad una serata mondana, non certo a questa cena che m’apprestavo a consumare come un rito pagano. Sezionai la pelle per il lungo e la scuoiai come si fa con una banana. La carne era rosa. Incisi i tendini madreperlacei, staccai i muscoli dall’osso, li misi dentro un piatto e tagliandoli con la forchetta e il coltello li mangiai masticando con calma e lungamente. Marina doveva essere sminuzzata accuratamente e digerita a fondo dalla saliva e dai succhi gastrici per essere assorbita interamente, perché la sua vitalità e la sua intelligenza meravigliosa potessero abitare in me, perché tutto il suo essere potesse fondersi al mio.
Per dieci giorni mi cibai delle sue carni. Era un essere dolce e la sua dolcezza impregnava la carne e il sangue. Quando non rimasero che le viscere e lo scheletro, decisi di partire.
Il giorno prima noleggiai una piccola barca a remi. Caricati i cari resti, superai la barriera corallina. In quel punto il fondo dell’oceano era nero. La profondità buia del mare avrebbe accolto Marina. Ruppi il sacco e affidai all’acqua il tronco svuotato, gli intestini, i polmoni marcescenti, invasi dalle prominenze bitorzolute, rosso-brune del cancro. Il cuore l’avevo mangiato per ultimo. Quel muscolo rosso, compatto, forte com’era stata lei, sempre, in tutte le occasioni della sua breve vita, nel dolore del suo lungo martirio. Infine abbandonai la testa che vidi scomparire rapidamente avvolta dall’acqua bruna come da un funereo velo di densa nebbia. “Così Marina, pensai, inizi il viaggio negli abissi della tua anima, della mia coscienza. Riposa in me finché vivrò”.
Raccolte le mie poche cose partii. Allo scalo di New York, mentre si faceva la fila per il controllo dei bagagli, avevo vicino una giovane donna dal fisico minuto, ma ben proporzionato.
Sotto i vestiti leggeri s’indovinavano le sue membra bianche e tenere, la carne rosa e soffice dei muscoli. I nostri sguardi s’incrociarono e lei mi sorrise, o piuttosto la sua bocca mi sorrise, la sua fronte, il suo naso, perché gli occhi rimasero immobili come due bellissime pietre dure. Così conobbi Silvia. Era di ritorno da un viaggio che aveva fatto per riaversi dal lutto della morte del marito. Da allora sono passati cinque mesi. Viviamo insieme. L’amo intensamente, anche se la passione non è quella che avevo provato per Marina. Accarezzare Silvia mi riempie di tenerezza. La sua lingua soda e sugosa tra i miei denti mi dà un brivido che dalla bocca, lungo l’esofago, scende fino allo stomaco, come un crampo, un sottile languore.

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