La fama di Boccaccio resterà per sempre indissolubilmente legata al Decameròn, che, tuttavia, come tutti sanno, non è di facilissima lettura, soprattutto perché il periodo talora si snoda complicatissimo, con un intreccio di subordinate che rendono ardua la comprensione del testo. Ho messo l’accento sulla “o” di Decameròn, per via del fatto che il nostro Natalino Sapegno ci ricordava a ogni pié sospinto che Decameròn è troncamento di Decameròn[e] e che l’accento cade sulla penultima sillaba, dove deve persistere, anche dopo la caduta della “e”. Mi si permetta la preterizione: Decàmeron, con l’accento sulla “a”, è semplicemente … sbagliato.
Comunque, lo scopo di questo mio breve intervento è molto semplice: offrire una rapida panoramica su come lavorava in prosa l'amico di Petrarca e l'estimatore per eccellenza di Dante. La questione della sostanziale incomprensibilità della prosa di Boccaccio non è legata, come taluno potrebbe essere tentato di credere, ad una sorta di “protervia” del certaldese, il quale, quasi con una punta di malcelato sadismo, si sarebbe dato “volutamente” ad una prosa criptica e involuta, tale comunque da mettere in evidente difficoltà non tanto i contemporanei ( che erano perfettamente attrezzati), quanto i lettori del nostro tempo. In realtà, come sempre accade quando si ha a che fare con autori “antichi”, il lettore dei giorni nostri dovrebbe essere avvertito che, nel Medioevo, lo scrittore non godeva di “libertà stilistica”, ma, al contrario, era legato mani e piedi alle “artes poeticae”: “In omni arte duo sunt attendenda pro illarum fine et instituto: materiae et dicendi modus” [In ogni disciplina bisogna fare attenzione a due caratteristiche per potere ben definire il suo compito e il fine proprio: il tipo di contenuto e il modo di esprimerlo] (1).
Se pertanto non si rispettavano le regole canoniche, il meno che poteva accadere era quello di essere tacciati di perfetta ignoranza. Dante, per esempio, vero maestro di equilibrismi stilistici, sapeva usare i più diversi “stili” a seconda della materia da trattare: se essa riguardava cose di “piccolo affare” si avvaleva dello “stile comico”, mentre, se si trattava argomenti “alti”, egli si serviva dello “stile tragico”. E la faccenda non si esauriva essenzialmente nelle scelte lessicali, ma coinvolgeva anche la sintassi. Per questo, se con lo stile comico uno scrittore se la cavava con periodi scarni e semplici, non così poteva agire di fronte a temi alti, in cui la prosa doveva farsi latineggiante, e il periodo svilupparsi secondo schemi fortemente analitici, rigidi e talora molto complessi, tali, comunque, da risultare oggidì pressoché incomprensibili, a meno che il lettore non voglia anche cimentarsi nell’analisi della sintassi del periodo (cosa di cui dubito).
Allorché ci avviciniamo alla lettura dell'opera maggiore di Boccaccio, non dobbiamo dunque dimenticare il fatto, essenziale, che lo scrittore di Certaldo era “obbligato” a modulare i periodi secondo i canoni retorico-stilistici dei tempi suoi, che erano estremamente dipendenti dai temi e dalla materia che via via si trattavano. Così, ad esempio, Boccaccio passava da un periodo semplice e da un lessico usuale e addirittura gergale ad un altro più articolato e solenne, a seconda se, rispettivamente, vi agivano personaggi di media o bassa levatura sociale, o , al contrario, personaggi altolocati e intellettuali: in quest'ultimo caso il periodare si slargava appunto in costruzioni ampie e latineggianti, che tra l'altro furono molto imitate nei secoli successivi, anche se non tutti apprezzavano tale tecnica del periodo, che a molti critici apparve artificiosa o, come diceva il nostro sempre irruente Papini, decisamente corruttrice dell' “aurorale trecentesca semplicità”.
Come che siano le cose, il lettore moderno, se vuole leggere il Decameron in lingua “originale”, deve accettare il dato tradizionale e cercare di adattarsi alle norme retoriche medievali che, in quanto a minuziose casistiche, erano a volte analitiche oltre ogni limite d’umana sopportazione. Lo studioso più attento al periodare boccaccesco fu sicuramente Alfredo Schiaffini (2), il quale annotò un po' tutti gli artifici stilistici messi in atto da Boccaccio. Anzitutto, egli sottolineò che, in genere, il periodo del certaldese era talmente articolato da poter essere assimilato a un «quadro», entro il quale, con sapiente stringatezza, l’autore presenta, talvolta in un periodo unico, le caratteristiche essenziali di un personaggio (V. per esempio Andreuccio da Perugia).
Fra gli artifici stilistici più usati da Boccaccio, Alfredo Schiaffini elencava le inversioni (“E, nel vero, se io potuto avessi” , per se io avessi potuto ); le separazioni, per cui tra l'ausiliare e il verbo s'inserisce un avverbio o altro, per dare “ pacata lentezza” al periodo (“l'avrei volentier fatto”, per l’avrei fatto volentieri); l’uso di termini preziosi e aulici, specie nelle novelle di contenuto elevato; oppure di “colori retorici” tipici della poesia: “Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte sono [per sono tutte, inversione] transitorie e mortali, così in sé e fuor di sé [antitesi] ...”. E queste non sono che poche annotazioni, perché, quanto a varietà di periodi, il Decameron è ricchissimo di strutture sintattiche estremamente complesse.
Il periodo “a spirale”
Iniziamo con un periodo tra i più semplici, anche se oggi come oggi, tanto semplice potrebbe non sembrare. Normalmente, il periodo meno complicato era detto a spirale, secondo una tecnica costruttiva che prevedeva una proposizione principale + una proposizione subordinata di I° grado ( di qualunque tipo) + una serie di proposizioni subordinate relative, strettamente legate fra loro e tutte dipendenti una dall'altra ( a spirale, appunto). Facciamo un breve esempio:
“Non è adunque, valorose donne, gran tempo passato [principale] /Che in Romagna fu un cavaliere assai da bene costumato [ il “che” è temporale: «allorché», «quando» «in Romagna fu, ovvero «visse»...»]/ il quale fu chiamato Messer Lizio da Valbona,/ a cui per ventura... una figliola nacque.../ la quale ... crescendo, divenne, bella e piacente...”. Come si può notare, alla principale segue una temporale introdotta da un che ( con valore temporale, nel senso di “quando” o “allorché”); seguono quindi tre relative, ognuna delle quali si regge su quella precedente.
Tradotto in italiano moderno il periodo suonerebbe più o meno in questo modo: “Sappiate, donne mie belle e virtuose, che qualche anno fa visse in Romagna un cavaliere colto ed educato che si chiamava Lizio da Valbona, il quale aveva una figlia molto attraente”.
Ma la casistica non è affatto esaurita.
Il periodo a “biforcazione”
Oltre al periodo a spirale, la manualistica medievale, coltivata a piene mani dal Boccaccio, prevedeva altresì il cosiddetto periodo a biforcazione: ne sortisce una struttura del periodo “ad albero”, per cui, sia dalla principale sia dalle subordinate successive si “biforcano” altre frasi, in forza delle quali il periodo diventa assolutamente aggrovigliato, a tal punto che a volte anche un occhio esercitato stenta a raccapezzarsi. Nella seguente “biforcazione” esemplificativa, si avverte che la principale non è all'inizio, ma al centro del periodo:
“Veramente se per ogni volta che elle a queste sì fatte novelle attendono nascesse loro un corno sulla fronte/ il quale desse testimonianza di ciò/ che fatto avessero, / io mi credo [principale]/ che poche sarebber quelle/ che v'attendessero...”.
Più o meno, la frase tradotta suonerebbe così: “ Credo che, se a quelle donne che ascoltano certe storie nascesse un corno sulla fronte, ce ne sarebbero ben poche disposte a ripetere una simile esperienza”.
Gli esempi credo spieghino ampiamente un fatto editoriale già sottolineato in questa sede a proposito di Machiavelli, ma che coinvolge pressoché tutti i classici italiani, ovvero la necessità (invalsa ormai da anni) di tradurre in italiano moderno anche il Decameron, che a molti, infatti, sembra scritto in una lingua straniera (3).
Enzo sardellaro
Note
1) Girolamo Fracastoro, Navagero. Della Poetica, a cura di E. Peruzzi, Firenze, Alinea, 2005, p. 39.
2) A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità medievale a Giovanni Boccaccio, Roma, 1943. Sul Decameron Cfr. le pp. 187-197, in particolare le pp. 187-192, da cui sono stati tratti gli esempi.
3) Cfr. Giulio Herczeg, Saggi linguistici e stilistici, Firenze, Olschki, 1972, pp. 154-169. Per gli esempi, cfr. pp. 154-158.
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