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GUARDIANO DELLA SOGLIA Cap.VI -L’Antro di Mertseg

di Maria Pace
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Pubblicato il 13/03/2012 06:25:55

 

 

 

CAPITOLO  VI  -  L’Antrodi Mertseger

 

 

Le acque andavano ingrossando; Nefer, rientrata a Tebecon la corte, aveva la mente occupata da un unico pensiero: andare a scioglierei nodi delle ultime vicende nella Sacra Grotta di Mertseger.

Sepolto nel sito più inaccessibile della necropoli, ilvillaggio dei Servitori della Sede della verità, poteva essere raggiuntosolamente con una delle carovane appositamente allestite.

Gli approvvigionamenti arrivavano al villaggio daimagazzini dei Templi circostanti, ma accadeva talvolta che, per specialiconcessioni del faraone, grosse carovane partissero da Tebe fornite di ognitipo di merce; l’inizio dei lavori del nuovo complesso funerario del faraonecoincise con una di queste partenze.

La carovana era pronta a muoversi già prima dell’alba.A quell’ora c’era sempre grande animazione a Palazzo. Servi e soldati eranoancora assonnati e distratti ed a Nefer parve il momento buono per sgattaiolarefuori delle stanze del gineceo e raggiungere, nel cortile, uno dei carri inpartenza; Thotmosis l’aspettava in fondo ad una delle gradinate.

Nascoste le insegne reali sotto vesti da servi, idue  strisciarono lungo portici ecorridoi e raggiunsero il posto convenuto.

“Fai tutto quello che mi vedi fare e non ti stupire diquello che faccio.” Disse Thot alla sorella.

“Nefer farà tutto quello che vedrà fare a Thotmosis.”Assentì Nefer.

“Non ti butterai a fiume, spero, se per caso… ah.ah.ah,io volessi…”

“Non lo farò. – lo interruppe  lei – Ma aiuterò Thotmosis ad entrare in acqua più velocemente,ah.ah! Ehi! Potrebbero riconoscerci.” aggiunse.

“Nessuno ci riconoscerà!”

Il principe Thot aveva ragione. Chi avrebbe potutoriconoscere in quei due straccioncelli i figli del faraone? Salirono su uncarro in fondo alla carovana, senza che nessuno facesse loro domande,scambiandoli per i figli di qualche operaio.

La carovana si mosse. Imboccata la strada del porto,raggiunse l’approdo delle numerose imbarcazioni in arrivo e in partenza daTebe. Qui, i due presero posto su una chiatta stipata fino all’inverosimile.

Sopra le loro teste, il cielo era un enorme bacileazzurro; alle spalle il Nilo sembrava un mare verde e davanti a loro, ildeserto era un mare giallo.

Thotmosis entrò subito in confidenza con i barcaioli eparlò loro di scontri, lance dalla punta di ferro, scudi infrangibili e carridai rostri uncinati. Quelli, per non essere da meno, raccontarono di mostri cheinfestavano le acque del Delta,, di certe colonne ai confini del mondo, diragazze dalla coda di pesce e ragazzi dalla testa di toro ed intanto cheparlavano, mettendo enfasi nei gesti e nelle parole, guardavano Nefer. I suoicapelli al vento e gli occhi lucidi .Finalmente davanti allo sguardo sorsero lemontagne grigio-oro che profilavano l’orizzonte della riva opposta. La chiattaaccostò ed attraccò tra le decine e decine di barche che affollavano queltratto del fiume. Una ventina di carri tirati da asini e buoi, erano in attesalungo il greto; qui, lavandai sciacquavano panni e li battevano su tavole dipietra prima di stenderli al sole e gruppi di bambini giocavano tra reti ebarche rovesciate mentre i pescatori tiravano a riva reti cariche di pesci edonne rattoppavano reti strappate.

Ultimate le operazioni di carico, la carovana si mosse.Aride colline vennero incontro, gialle e screpolate di fenditure ed anfratti,poi la valle, stretta, selvaggia ed inospitale, riarsa, li inghiottì.

Insolitamente silenziosi, i due fratelli divoravano conocchio affamato tutto quanto contenuto in quell’opprimente orizzonte; Senen, ladonna che li aveva fatti salire sul carro, ogni tanto si girava a guardarli.

La principessa di Tebe, che aveva sempre fantasticatosulla vastità del mondo, scopriva che questo era più grande di ogni suaimmaginazione. Sebbene Senen spronasse di continuo gli asini, Nefer aveval’impressione di trovarsi sempre nello stesso punto. La distanza dalle collineche segnavano l’orizzonte, pareva, dopo ore di marcia, sempre uguale.

Senen era una mugnaia e ogni dieci giorni, a rotazione,portava provviste agli abitanti della Città dei Morti.

Thotmosis aveva preso posto su una pila di sacchi difarro; Nefer, invece, sedeva sul bordo del carro, gambe penzolanti e tuttal’attenzione catturata dalla necessità di tenersi aggrappata al sacco piùvicino: il passo degli animali metteva a dura prova il suo equilibrio, ma laragazza pareva trarre gran divertimento dagli sballottamenti, che accompagnavacon gridolini di piacere. Quando finalmente riuscì a ad adattarsi  a quell’andatura, cominciò a prestareattenzione all’uomo seduto al suo fianco che, da quando il carro s’era mosso,non aveva smesso di parlare.

“… questo dico: non si deve bere così. – stava dicendo,mentre con lo sguardo fulminava un carrettiere che tracannava birra da unboccale – C’è un limite a tutto e quello, a parer mio, l’ha superato…”

La mugnaia si girò a guardarlo poi gli passò il suootre. L’uomo arrestò il fiume di parole, tracannò, si pulì la bocca col dorsodella mano, tracannò ancora e riprese, in tono più conciliante:

“Non condanno chi beve con misura… E’ lecito ogni tantoprendere una sana ubriacatura. – la mugnaia ebbe un sorriso, ma continuò adascoltarlo con aria bendisposta; l’altro proseguì – Se misurata, è una buonausanza…”

L’uomo fece seguire una pausa per un’altra sorsata;Nefer lo osservava di sottecchi. Lo sentì sospirare e poi lodare Ammon e tuttigli Dei di Tebe, chiamandoli per nome, uno per uno, e alzando l’otre al cieload ogni nome. Quando ebbe passato in rassegna l’intero Pantheon tebano, passò aquello di Abidos e Memphi; dopo Sais attaccò con quelli di Siria, Babilonia eCreta, fino a che la donna non lo interruppe:

“Vuoi una fetta di melone?” chiese; quello fece ungesto di diniego, ma Nefer fissò con aria golosa la fetta di melone, purcontesa da un nugolo di mosche.

“I tuoi figli, generosa Senen, sono di bell’aspetto edi sguardo vivace.”

L’uomo tese l’otre con un sorriso.

“Non sono figlioli miei, – rispose – ma anche i mieisono belli e vivaci come questi ragazzi.”

“Siamo i figli dell’architetto Kamose. – interloquìNefer, staccando gli occhi dalle palme piumate del fiume che stavaallontanandosi; dall’alto della sua postazione, il fratello chinò il capo e lafulminò con lo sguardo.

“Conosco l’architetto kamose. – disse l’uomo – Il SacroOcchio di Ra mi fulmini se non gli dirò che i suoi figlioli hanno allietato ilmio viaggio.”

“Nostro padre è rimasto a Tebe, ma noi torniamo a casa:Ita, il nostro maestro, è assai severo.”

“Un maestro deve esserlo e voi siete figlioligiudiziosi. Fate bene a porre i cuori sui libri. Credetemi. Credete a Wha, cheha visto quelli che sono liberi per aver posto il cuore sui libri. Credete aWha. A corte lo scriba è in ogni luogo, ma colui che agisce mediantel’intelligenza di un altro, non ha successo!”

Quel Wha doveva essere un maestro, pensò Thotmosisosservandolo ed era anche noioso come tutti i maestri.

Wha insegnava alla scuola del villaggio della Città deiMorti.

Una prima educazione, in verità, veniva impartita davecchi scribi o sacerdoti che elargivano il proprio sapere in cambio di piccoli compensi in natura e che giravanonelle campagne e nelle periferie delle città. Le vere scuole, Templari oGovernative, preparavano i futuri Sacerdoti e Funzionari con regole assai severeed attraverso una selezione ferrea che, però, non precludeva a nessuno lapossibilità di istruirsi. Se per il primo stadio di apprendimento le famigliedovevano corrispondere un compenso al maestro, gli studi successivi, piùapprofonditi e formativi, erano completamente gratuiti.

 

La carovana entrò nella stretta valle ventosa ed aridala cui cintura rocciosa e scoscesa avvicinava l’orizzonte.

Per tutto il tempo Nefer aveva guardato i sacchitraballanti, sempre sul punto di cadere; ora che erano arrivati a destinazione,si chiedeva se la carovana si sarebbe fermata per raccoglierli, se qualcunofosse davvero caduto, ma venne distratta dal certo movimento che animava ilfianco della collinetta. Wha, intanto, aveva ripreso la sua litania, pur conleggero affanno, ostacolato dalla pancia e dallo stomaco che gli sporgevano dasotto la tunica.

“Lo scriba è inviato a portar comandi – diceva –Lasciate che vi dica che lo scalpellino è stanco per il lavoro sulla durapietra e le sue braccia sono distrutte. – Thumosis sbadigliò; l’altro proseguì,imperturbabile – E il lavoro dei campi?... E’ il più pesante che si possadire…”

“Ohhh! – la mugnaia incitò gli animali poi girò il capo– La scuola è utile e il suo profitto dura come le montagne. – disse – Questibravi figlioli l’hanno capito.”

I due principi la guardarono con un sorriso pieno digratitudine; Wha strinse tra le mani l’inseparabile verga, ausilio delle suelezioni, poi, con estrema noncuranza, si tolse i sandali e si strofinò i piedi.

Nefer lo fissò in silenzio., poi girò lo sguardo versola donna che aveva cominciato a canticchiare facendosi vento con un ramo dipalma. Era una cantilena dolce e monotona, in un dialetto che i due fratellinon conoscevano. Nefer ebbe un sospiro e si sdraiò sui sacchi ad ascoltare. Losguardo vagò d’intorno ed andò a frantumarsi sui dirupi scoscesi e le collinetondeggianti del crostone roccioso alle cui pendici sorgevano le prime case delvillaggio.

Mentre avanzavano si andava formando una moltitudine digente: era giorno di festa, l’ultimo della seconda decade del mese, essendo ilmese diviso in tre parti.

Nei giorni di festa, la gente del villaggio animava lavalle. Le donne  reggevano orci in manoe ceste in testa e i bambini, litigiosi e chiassosi, si rincorrevano tra gli strettivicoli; gli uomini, che durante i lavori nei cantieri dormivano in casupolelungo le strade, tornavano a casa per lavorare alle tombe di famiglia e pervisitare i luoghi di culto che nella valle erano numerosi.

Raggiunta la grande porta che spezzava il perimetrodell’agglomerato più antico, quello risalente al faraone Thutmosis I, lacarovana entrò nel villaggio, un labirinto di stradine strette, gialle epolverose. Le case, tutte uguali, essenziali e con una scaletta esterna cheraggiungeva il tetto, si stringevano le une alle altre come un gregge sorpresodal temporale; rumori di incudini, martelli e picconi, si levavano dalle vicineofficine.

Ad un incrocio la carovana si fermò e i due ragazzisaltarono giù dal carro ma, prima che si allontanassero, la mugnaia dette lorodue grosse fette di melone; i due principi ringraziarono, salutarono e sidileguarono tra la folla. Gran confusione, grande animazione e gran caldo:erano capitati in un mercato e le grida dei venditori sovrastavano ogni altrorumore.

 

Un muggito, alle spalle, e un soffio caldo all’altezzadel collo, dopo pochi passi, fece sobbalzare la ragazza che si voltòspaventata. Lo sguardo andò ad incrociare quello dorato e scuro di un torello.Ancora più terrorizzata, cacciò un urlo e si buttò da parte; il torello muggìancora, forse più spaventato di lei.

Era un animale giovanissimo, nero  e irrequieto. Ghirlande di fiori e fogliegli pendevano dal collo e una bellissima collanina di sanguigna corniola gliornava le corna dorate. Un ragazzo lo conduceva al guinzaglio e scoppiòimmediatamente in una sonora risata a cui si unì anche Thotmosis.

“Perché ridete della paura di Nefer. – protestò laragazza – Nefer non ha mai danzato davanti alle corna di un toro come leragazze di Babilonia.”

“Ankheren non voleva ridere di Nefer.” esordì lo stranoragazzo.

Era alto e snello e l’espressione del volto eravivacizzata da uno sguardo curo e penetrante; intorno alla fronte portava unafascia di cuoio, alla foggia ittita, che gli tratteneva la luminosità corvinadi una lunga e folta capigliatura. Riprese subito la parola:

“Lui è Kaptha e non è un toro selvaggio. – disse – Seti ha fatto paura, però, bella Nefer, Kaptha di questo è dispiaciuto e tioffre, se la gradisci, la sua collana. Con il suo muggito voleva dire che staràmeglio al tuo collo che alle sue corna.”

“Ah.ah.ah…” rise ancora Thotmosis; Nefer lo fulminò conlo sguardo, ma la collanina era davvero bella e Ankheren, incoraggiato dal suosorriso,  la prese dal collo del torelloe la passò intorno a quello della ragazza, poi invitò i due a seguirlo, cosache quelli non si fecero ripetere.

Si fermarono ad ascoltare un vecchio cantastorie cheraccontava della stoltezza di un padrone e della furbizia del suo servo.

“I ricchi sono sciocchi!” sentenziò Ankheren, dando lespalle al citaredo.

“Perché?” domandò Nefer.

“Perché il ricco non deve aguzzare il proprio ingegnocome deve fare il povero, finendo, per tale ragione, per non sapersene piùservire.”

“Tu non sei povero, vero?” domandò ancora la ragazza, disturbatadall’idea che al suo nuovo amico potessero accadere le avventure delprotagonista del racconto appena udito.

“Io sono figlio di Uriak, l’Ittita, domatore di cavallie allevatori di tori al Tempio di Ptha.” Rispose il ragazzo con orgoglio.

“E’ da tuo padre che hai avuto quel coltello? - chieseThotmosis indicando il coltello dalla lama di ferro che l’altro portava allacintola – Se avessi del denaro con me, ti chiederei di vendermelo.”

“E’ un oggetto di nessun pregio. -  Ankheren scosse il capo, ma non era vero elo sapevano entrambi. Però, Ankheren doveva dire così, poiché agli Ittiti eravietato vendere oggetti di quel  metallo– Se non posso vendertelo, però, posso donartelo.” sorrise tendendo la mano.

“Sei davvero generoso con i tuoi doni…”

Thotmosis non riuscì a portare a termine la frasepoiché una voce, appartenente ad una faccia assai corrucciata, assalì Nefer:

“La mia collana… la mia collana…”

Thotmosis ed Ankheren accorsero entrambi in difesa della ragazza, disgraziatamente,però, il trambusto aveva attirato l’attenzione di una guardia.

“Dove hai preso questa collana?”  domandò subito la guardia.

“L’ho trovata io per terra.” si fece avanti Ankheren.

“Lui dice il vero.” Intervenne anche Thotmosis, ma iltono secco, risoluto e perentorio della voce non impressionò nessuno; siaccigliò e fece l’atto di riprendere la parola. Guardando le umili vesti chenascondevano le insegne reali, però, preferì tacere.

“E tu chi sei? – l’apostrofò la guardia – Sei suocomplice?”

“Lui è mio amico e io non sono un ladro… io…”interloquì ancora Ankheren, ma una voce, tra la folla formatasi alle lorospalle interruppe in sul nascere la sua arringa in difesa di Thotmosis:

“Bugiardo. – diceva la voce – Sono sicuro che neppureil torello ti appartiene.”

“Dove hai preso questo torello?” tornò ad interrogarela guardia.

“E’ mio. E’ della mia famiglia.”

“Bugiardo. – ripetè l’accusatore tra la folla,indicando la spalla del recalcitrante animale – Quello è il marchio del tempiodi Ptha.”

“Sia portato al Tempio.” fece una seconda voce.

“Siano portati al tempio tutti e tre.” aggiunse unaterza voce.

“Che siano fustigati…”

Ormai era solo un coro di minacce cui solo loscalpitare di cavalli in avvicinamento pose fine. La folla si aprì davanti aicavalieri come un gregge spaventato dall’assalto di un branco di lupi.

“Fermi tutti. Che cosa succede qui?” un comandoperentorio.

Zittirono tutti e Nefer sollevò gli occhi in faccia alcavaliere, un giovane sui venti anni, bello e altero; nel silenzio sceso sullascena, si udivasolo il campanaccio degli armenti condotti al Tempio.

“che cosa succede qui da giustificare assembramenti dipersone?” tornò a chiedere il cavaliere, ma il tono s’era addolcito el’attenzione pareva tutta concentrata sul bel volto della principessa di Tebe.

“Hanno rubato una bestia sacra del Tempio di Ptha,signore. - spiegò la guardia; alto, grasso, puzzava di sabbia e sudore – Devonoessere puniti.”

Aggiunse incrociando le braccia con aria soddisfatta,ma tenne gli occhi bassi, non osando sostenere lo sguardo del principe, edattese la lode. Per nulla interessato alle solerti accuse, attirato invecedall’avvenenza di Nefer, il principe ordinò:

“Taci. La tua voce mi infastidisce. Parla tu, ragazza.Spiega ogni cosa senza timore.”

Nefer si fece avanti incerta sul da farsi; lo sguardoaudace del giovane la lusingava ma, anche, la irritava un po’. Dentro sé, però,pensava che quel giovane, a cui si rivolgevano tutti con rispetto era davverodi bell’aspetto e, benché indossasse solo un perizoma, il collare che gli coprivail largo petto e le spalle, rivelava che lui era il principe e gli altri isubalterni.

 Anche Thotmosisavanzò per prendere la parola, ma l’altro non gliene dette il tempo; con unbalzo fu a terra e gli si pose di fronte, gambe divaricate e braccia conserte.

“Che cosa ci fa al di qua del fiume il principeAmosis?” domandò.

“Tu mi conosci?” chiese a sua volta il ragazzo frugandonella memoria alla ricerca di un nome da riconsegnare a quel volto.

“Per il Cranio Rilucente e Calvo di Ptha! Davvero nonriconosci Sekenze?”

“Sekenze?... Per la Barba di Ammon! Sei proprio il mioamico Sekenze.”

“L’esercizio fisico mi ha irrobustito, ma sono proprioio. Anche tu, però, sei cambiato, ma dimmi, che cosa ci fai qui, nascosto inquelle vesti? Sei venuto a cacciare la testa in qualche rete, quaggiù,ah.ah.ah…” rise.

“Un principe reale?... Pie…tà!” balbettò il solerteaccusatore e anche la guardia era sbiancata in volto:

“N…non è un ladro? Oh, povero me!”

“Stupido imbecille! Meriteresti d’esser fustigato conla tua stessa frusta.- Sekenze, che pareva divertito dall’equivoco, si girò verso la ragazza – Tu sei laprincipessa Nefer. Sei diventata molto bella – disse; Nefer arrossì e l’altroproseguì -  Ma che cosa ci fate qui,vestiti a quel modo?”

“Noi pensiamo che la tenebrosa Mertseger vogliamanifestarsi e che abbia mandato al sua “voce” a Nefer per farsi sentire, manon abbiamo capito il senso delle “visioni” e siamo venuti qui per scioglierel’enigma.”

Un breve silenzio riempi l’attimo che seguì, poiSekenze disse:

 “Mi domando sesia stata una buona idea venire qui senza scorta, ma non dovete preoccuparvi:vi accompagnerò io fino al Sacro Antro di Mertseger… Quanto a costoro..”aggiunse girandosi verso il servo che, nella speranza di evitare la punizionetornò ad accusare Ankeren:

“E’ colpa sua. – disse – Ha portato via dal recinto unabestia sacra e deve essere esaminato con la bastonatura.”

“Ankeren è innocente. – interloquì Nefer – Dillo chesei innocente, Ankeren. Dillo.”

“Sono innocente. – si difese il ragazzo – L’ho soltantoportato fuori del recinto dove Uriak, il padre di Ankeren, alleva i tori delTempio. Non l’ho rubato. Le Sacre Dita di Horo mi fulminino, se mento.”

“Sta mentendo e bestemmiando.” Insisteva l’accusatore.

“Non è lecito accusarmi solo perché non porto sandalied ho i calli ai piedi. – incalzò il ragazzo – Non li porto perché vogliosentire il contatto con la terra, ma possiedo ben tre paia di sandali di corda.Frequento la scuola del Tempio con profitto ed alla nascita mi è stato predettoche un giorno avrò il comando su molta gente… Come potrei essere un ladro?”

“Questo sfrontatello dice cose strane…” cominciòSekenze, ma Nefer lo interruppe:

“… strane, ma sensate.” disse.

“Ah.ah.ah… - rise il principe – Dici cose strane anchetu, bella Nefer.”

“Nefer parla spesso in modo strano.” convenne Thotmosise Nefer interruppe anche lui:

“Porterò il mio amico Ankeren a Tebe con me eintercederò per lui personalmente presso il Faraone.”

“Non occorre. – fu Sekenze, questa volta, adinterrompere lei – Qui basta la giustizia di Sekenze per stabilire la Verità!”affermò e fece loro cenno di seguirlo.

 

 

 


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