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IL GUARDIANO DELLA SOGLIA Capitolo X

di Maria Pace
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Pubblicato il 23/03/2012 17:28:37

 

 

CAPITOLO X   -   Il ritorno

 

La nave reale con a bordo il Faraone , i principi reali ele principesse, salpò insieme alle ombre della sera che andavano allargandosi enavigò tutta la notte, prima che le mura del distretto di Shetep,  profilassero l’orizzonte.

Una distesa desolata a nuda si distendeva a perditad’occhio: un mondo levigato e in continua, lentissima mutazione, dove acque,prati e foreste erano scomparsi per sempre o affondati nelle profondità.

Shetep era nota per la caccia ai tori selvaggi, passatempoassai amato dai Faraoni.

In piedi sul suo carro da guerra, all’inseguimento di unosplendido esemplare di toro, il faraone aprì la caccia. Lo seguivano i carridei principi reali e dei principi ostaggi: figli di Re vassalli o alleati;seguivano gli arcieri e i mandriani che avevano  raccolto in un ampio recinto i tori selvaggi della regione.

Le donne del seguito, spose reali e principesse, eranostate fatte allontanare dal campo e dall’alto di una collinetta seguivano ognifase della caccia; tra loro d’era anche la principessa Nefer.

Nefer avea cercato un buon posto di osservazione e nonperdeva neppure un gesto di quanto stava avvenendo nella piana assolata; allesue spalle, il sole del primo mattino aveva già raggiunto l’orizzonte e dalontano arrivava il rumore dei campanacci degli armenti al pascolo.

“Guardate Thomosis. – la principessa Nefrure tese unbraccio – Guardate con quanta spericolatezza si spinge incontro a quel torodalla testa spaventosa… Oh!... Il nostro divino padre dovrebbe imporgli piùprudenza.”

Nefer volse il capo nella direzione indicata; il gestofece tintinnare gli orecchini di lapislazzulo.

“Quello scervellato – interloquì la voce petulante dellaprincipessa Iter – verrà sbalzato dal carro, le cui redini, il principe Omohlodi Creta, con troppa leggerezza, gli ha messo nelle mani.”

“Thotmosis è un ottimo guidatore. – puntualizzò Nefer – Seil principe di Creta gli ha affidato la guida del suo carro è perché Thomosismerita la sua fiducia.”

“Thotmosis è il prediletto di nostro padre. – sorriseNefrure. Aveva un sorriso dolcissimo, la principessa Nefrure – CertamenteThotmosis vorrà fare buona figura ai suoi occhi.”

Mefer guardò il fratello, il suo fisico nervoso e sveltoche prometteva prestanza per l’età matura, poi guardò il Faraone.

 

Il faraone Meremptha era imponente come una Divinità.Nefer lo guardava ammirata, mentre con la mano sinistra scagliava la lancia econ la destra reggeva le redini e dominava l’irrequietezza dei cavalli; neammirava l’assoluto dominio su quelle creature nobili e fiere.

Nefer amava i cavalli ed amava i racconti di caccia e diguerra che, come tutte le ragazze a corte, aveva ascoltato fin da bambina e chevedevano i loro uomini, padri e fratelli,sempre vincitori.

La corsa dei carri, i muggiti dei tori, lo scalpitio deiloro zoccoli contro le pietre, lo stridore delle ruote, il corno di caccia deltrombettiere, esercitavano su di lei un fascino strano ed irresistibile e latrascinarono giù dalla collina, spingendola a disobbedire agli ordini delFaraone. Lasciò le altre donne e di corsa si portò verso uno di quei sentieri.Di corsa lo attraversò, per raggiungere l’altra collina da dove sarebbe statopiù facile seguire le fasi della caccia.

 A metà sentiero,un potente muggito l’aggredì alle spalle. La ragazza si voltò e restòimpietrita: un’enorme massa scura le stava davanti, dieci quintali e più dimuscoli  guizzanti sotto un manto dilucido pelo raso.

Un toro.

Nefer sollevò il capo e il suo sguardo andò a perdersi indue pupille di vitreo liquido giallastro. Ubbidendo ad un impulsoincontrollato, si voltò per darsi alla fuga; il toro, alle spalle, sbuffava. Lozoccolo batteva così forte da farle tremare il terreno sotto i piedi. Dalontano la raggiunsero le grida d’orrore delle donne e lo stridore delle ruotedi un carro in avvicinamento: il Faraone stava puntando nella sua direzione.

Un urlo, però, piombò sulla scena come un tuono;attraversò l’aria e la riempì di echi.

Un urlo di guerra.

 

Uno straniero, poi, un guerriero, calò giù dallacollinetta e si frappose fra il toro e la principessa. Lo scontro fubrevissimo: la lunga, affilatissima spada del guerriero, quelle in uso presso iPopoli di Mare, forgiata nel prezioso “metallo degli Dei”, penetrò nella frontedell’animale che stramazzò fulminato ai suoi piedi.

Nefer, sempre di corsa, andò quasi a farsi travolgere daicavalli del carro del faraone che la evitò solo grazie alla sua perizia diguidatore.

Un bagliore si levò dagli occhi del Faraone mentre,consegnata la principessa alle cure di ancelle accorse premurose e spaventate,scendeva dal carro per andare incontro allo straniero il quale avanzava versodi lui a lunghi passi.

Questi si liberò il capo dall’elmo piumato e mostrò icapelli biondi.

Il suo aspetto era fiero e la fronte grave, gli occhierano ardenti e la mascella energica e volitiva. La figura, sotto la tunica dipregiata lana, era possente e salda. Odorava di acqua salmastra, di sangue esudore.

Fu lui a salutare per primo, nel riconoscere le insegnereali che posavano sul largo petto di Meremptha.

“Signore d’Egitto, Figlio degli Dei…” cominciò

Il Faraone lo interruppe e continuando a fissarlo conmolta intensità domandò:

“Chi sei? Qual è il tuo nome, straniero? Vieni in amiciziaed alleanza o come nemico? Se è come nemico che sei giunto su queste terre,sappi che io, Meremptha, ho ricacciato in mare popoli invasori. Li ho uccisi efatti prigionieri a migliaia ed ho costretto le loro donne a servire le donnedi Tebe.”

“Giungo nella tua terra, potente Sovrano, - rispose lostraniero  - naufrago e perseguitato daun Fato avverso. Sono supplice e non nemico.”

Il Faraone addolcì un po’ l’espressione del proprio volto;i suoi occhi scuri parvero.incassarsi ancora più dentro le orbite mentrefissavano quelli azzurri del suo interlocutore. Scrutava attentamente quelvolto dall’aria selvaggia: il volto di un uomo che doveva aver combattuto moltebattaglie e non tutte contro altri uomini.

“Il tuo nome, straniero. – disse infine – Possa ioconoscere il nome di chi ha salvato la vita di una delle mie figlie e dargli ildegno benvenuto nella mia casa.”

“Menelao, io sono, figlio di Atreo e Re di Sparta!”

 

                    +++++++++++++++++++++++++++++

 

Per onorare l’illustre ed inatteso ospite, il Faraoneoffrì un banchetto che raccolse intorno a tavole riccamente imbandite ed ornatedi ghirlande  di fiori la rappresentanzapiù nobile di una corte disciplinata ed allineata secondo il rigido protocollo.

Avvenenti ragazze offrivano ai convitati profumi e fioridi loto e il Faraone, che aveva preso posto su un grosso scanno  alla testa del tavolo, aprì il banchettoalzando la coppa.

Accanto a lui sedeva la Grande Consorte Reale. Seguivanole altre Regine e le principesse in ordine di grado; la principessa Nefer vennea trovarsi accanto alla regina Amesh e di fronte al principe Thotmosis.

All’altro capo del tavolo sedeva l’ospite d’onore:Menelao, Re di Sparta e Principe di Micene.

 

Nefer lo guardava di sottecchi, ma con insistenza. Avevaudito molti racconti sui “Popoli di Mare” e le loro strane abitudini. Ora, perla prima volta, ne vedeva da vicino non uno, bensì due, poiché con lui c’era ladonna la cui bellezza, si diceva nel gineceo di Tebe, aveva scatenato unaguerra: Elena, regina di Sparta.

Nefer guardava anche lei, ma con aria disincantata edocchi sgomenti: era bellissima. La donna più bella che avesse mai visto.

La Regina di Sparta aveva forme perfette, pelle luminosa,occhi brillanti e capelli di vivido oro.

Molte donne, si disse la ragazza, possedevano queglistessi pregi, ma nessun’altra donna da lei conosciuta aveva quel fascino particolareche emanava dalla persona, dallo sguardo, dal sorriso e che attirava su di leiogni sguardo.

“Una bellezza che soggioga gli uomini e li rende rivali –si sorprese a pensare – è una bellezza pericolosa!”

 Non sapeva se lestorie udite sul suo conto che Laria, la sua schiava cretese, amava colorire dimolti particolari, fossero vere oppure leggende.

Merende, la sua nutrice, che era una donna piena disaggezza, diceva che in ogni leggenda si nasconde sempre un fondo di verità.

Laria aveva raccontato di un principe troiano di nomeParide a cui tre Dee straniere avevano chiesto di giudicare chi tra loro fossela più bella, promettendogli in cambio doni favolosi; Paride aveva scelto ildono della Dea dell’Amore e cioè l’amore della donna più bella del mondo:Elena, regina di Sparta, già moglie di Menelao, principe di Micene.

Quella scelta, però, s’era rivelata infelice e sciaguratapoiché aveva trascinato in una lunghissima guerra contro Troia, risoltasi conla caduta della città, molti dei Re della terra.

Nefer non era ancora nata quando quegli avvenimentiavevano avuto inizio, ma poteva costatare quanto dolorose fossero ancora, per iprotagonisti, le conseguenze.

Lei non poteva né voleva giudicare quegli eventi poichéappartenevano ad altre genti, di altre terre, che seguivano altre consuetudinied adoravano altri Dei, ma… una donna che tradiva il proprio marito, dopoaverlo fatto Re, per seguire un altro uomo…

 

Come richiamata dal suo sguardo, la regina Elena si voltòverso di lei. Le puntò addosso uno sguardo lucente, trasparente, luminoso, chericordava acque azzurre attraversate da brezze, raggi splendenti… Nefer sisforzò di non provare pietà per quella donna, ma qualcosa dentro di lei,estranea alla sua volontà, la conduceva verso di lei.

Gli Dei! Pensò. La colpa era tutta degli Dei.

Brutto affare ingelosire una Divinità… ma anche gliuomini, sempre in cerca di gloria, di avventure, di bottini. Uomini che…

L’ingresso di un gruppo di cantori e musicisti interruppei suoi pensieri. L’arpista era già in attesa e un giovane, avvenente cantore,cominciò il suo canto accompagnandosi con le note di un liuto.

    “Gettate allespalle crucci e pene e volgete l’animo alla gioia –cantava-

      finché sileverà il giorno in cui

      dovremoviaggiare verso la Terra-che-ama-il-silenzio…”

La musica era dolce e le danzatrici si muovevano congrande grazia. L’attenzione di tutti, però, non era per loro, ma per il Re diSparta, che il Faraone aveva invitato a prendere la parola.

Re Menelao cominciò a raccontare. Narrò delle peripezieche lo avevano trascinato per mare con i compagni fino a sospingerlo verso laterra d’Egitto.

“La mia storia è intessuta di dolori e sciagure –cominciò– La collera del Tonante Zeus ha spinto fin qui me, la mia sposa e ipochi compagni che mi rimangono   enulla del ricco bottino depredato a Troia.”

Apparve subito,  daquelle prime, sofferte  parole, lospettro di una guerra conclusa con l’inganno.

Era noto dappertutto, anche in Egitto, l’inganno ordito daun astuto guerriero di nome Odisseo e del suo grande cavallo di legno spacciatoper sacrificio offerto ad un Dio di nome Poseidone.

Re Menelao parlava, parlava, parlava e sciacquava leparole con piccoli sorsi di un corposo vino proveniente dalle vigne del tempiodio Ammon, annacquato ed aromatizzato, contenuto nella coppa d’oro che glistava davanti. Narrò della caduta di Troia, dell’ultimo assalto degli Achei edella loro partenza carichi di bottino. Molti loro, disse, come Agamennone,Odisseo ed egli stesso, avevano dimenticato di placare con sacrifici l’iradegli Dei di Troia. Soprattutto l’ira di Atena, corrucciata con gli Achei,spiegò, perché sotto il suo altare, il guerriero Aiace aveva violatoCassandra,  figlia di re Priamo esacerdotessa della Dea.

L’immagine della Dea, disse con voce rotta dall’emozione,aveva distolto lo sguardo con orrore dalla scena di violenza.

Mentre Menelao parlava, la regina Elena piangeva e nelsilenzio profondo si udivano soltanto le parole dell’Acheo e i singhiozzi dellaregina di Sparta.

 

Il volto commosso e impietosito da tanta tragedia, laprincipessa Nefer non si accorse di piangere lei pure, se non quando, unrivoletto di lacrime le inondò la guancia. Piangeva il destino di tutte ledonne che quella guerra aveva ferito: Cassandra vittima della cieca violenza diun guerriero vincitore, Andromaca, madre e sposa sfortunata, Ecuba, madreinfelice, Enone, sposa abbandonata. Piangeva per tutte le donne vittime diquella e di altre guerre e piangeva anche per Elena e il suo destino di donnatroppo bella. Piangeva per lei e con lei ed intanto Menelao continuava araccontare, dosando parole e tempi con grande lentezza, quasi che ognuna diquelle parole gli costasse fatica e dolore; parlava con essenzialità e senzal’uso di parole superflue, come si faceva invece a Tebe, dove la consuetudinedi parlare era diventata un uso ed abuso di parole inutili che allungavano lefrasi e le rendevano deboli e spesso incomprensibili.

Questo rendeva il racconto dell’ospite ancora piùdrammatico e le sue lacrime e quelle della regina Elena, sempre più copiose.

“Sanguina il cuore rivolto alla casa lontana – il raccontodell’illustre naufrago si avviava alla conclusione – ed esulta ogni volta chegli occhi scorgono una terra all’orizzonte, ma ogni volta, Poseidone sconvolgele acque, scatena i venti e sospinge lontano i legni…. A gran faticaraggiungemmo la tua terra, o Figlio di Osiride.”

Gli occhi del guerriero acheo, mentre parlava, fissavanoun punto imprecisato del mosaico del pavimento: una moda approdata in Egittodalla sua terra. Quando si rivolgeva al faraone o alla Regina d’Egitto, però,levava su di loro gli intensi occhi azzurri come il suo mare.

“… così riuscimmo ad approdare in una delle molteinsenature di un’isola.” si concluse il racconto.

Nefer si passò le dita sul volto rigato.

“Mia dolce signora. – un’ancella le porse il catino;piangeva anche lei – Cancella il pianto con l’acqua e alleggerisci il cuore conuna coppa.”

Nefer prese il catino, vi affondò le dita, agitandonelievemente l’acqua.

La superficie andò improvvisamente muovendosi. Nefer restòa fissarla.

Sopra la sua testa, intanto, Ammon veleggiava veloce versooccidente e il suo bagliore riverberava nelle gocce che cadevano dalle mani ein quelle che le coprivano il volto proteso. Seguì un lieve vertigine,accompagnata da una leggera inquietudine: i lineamenti del volto riflessonell’acqua erano i suoi, ma la zazzera scomposta e soffice e gli occhi chericambiavano il suo sguardo, quelli non erano davvero i suoi.

Comprese di avere di fronte l’altra “se stessa”.

 

Si guardarono e si fissarono, la principessa Nefer edIsabella, e si chiesero la stessa cosa: riuscivano l’un l’altra anche a“vedersi” mentre si fissavano?

“Mi… mi senti? – fu la principessa Nefer ad approcciarsiper prima – Qual è il tuo nome?... Ti chiami Nefer anche tu?”

“Nefer… Nefer, sorellina…”

Una voce la strappò dall’abissale lontananza; laprincipessa sollevò lo sguardo che andò a naufragare in quello del  principe Thotmosis .

“Ancora i fantasmi delle tue visioni, sorellina?” chieseil ragazzo.

“Non sono fantasmi, ma persone reali come me e te.” scosselei il capo.

“Per la Barba di Seth!” esclamò il principe afferrando lacoppa di vino spumeggiante che un servo gli tendeva. Un’ancella vi avevalasciato cadere un petalo di profumatissimo loto blu; Thotmosis le sorrise,sorseggiò, poi tese la coppa alla sorella.

Alle ragazze non era consentito bere vino, soprattutto inpresenza di estranei, benché al gineceo le mogli delle guardie portassero loroda bere di nascosto, ma si trattava sempre di un vinello dolce e leggero

Nefer tese la mano per prendere la coppa, ma qualcosariaffiorò dal profondo del suo essere: qualcosa simile ad un ricordo lontano.

Fu come se quel velo di minuscole scintille che sempreimprigionava le sue “visioni”, si fosse finalmente squarciato.

Ricordò.

Ricordò voci, volti, nomi: Isabella, Alì, Alessandro, Jim,Hammad…Osor.

Ricordò le loro voci risuonanti nelle orecchie; riudì lerisate, le esclamazioni di stupore.

Non più solo come in un sogno, ma reali.

“… la morte giungerà sul petalo del loto blu caduto nellacoppa…”

Quelle parole le attraversarono la mente come un lampo. Silanciò in avanti per afferrare la coppa che aveva restituito al fratello e chequesti stava portando alle labbra, ma un capogiro la fermò e quel velo discintille tornò a ricomporsi e ad avvilupparla strettamente.

 

                                   +++++++++++++++++++

 

La principessa Nefer riaprì gli occhi.

“Isabella.”

La stavano chiamando con il nome dell’altra “se stessa”.Sapeva, però, di non “essere” Isabella. E sapeva di non essere neppure soltantopiù la principessa Nefer. Sapeva di essere parte di entrambe.

C’era Osor accanto a lei e lo sguardo della prodigiosacreatura era più intenso e più “vivo” che mai ed indusse in lei una malinconiaimprovvisa. Un presentimento.

Comprese, senza bisogno di parole.

“Devi andare?” bisbigliò.

Osorannuì.

“Perché? Perché vai via?” domandò.

“Il compito di Osor, il Guardiano della Soglia, èterminato e Osor deve andare.”

“Io non voglio che tu vada via.” Gemette Isabella-Nefer

“Io non ti lascio… -  Osor indietreggiò versol’uscita con un sorriso indecifrabile sulle labbra - Io tornerò,. Tutte levolte che chiamerai ,  Osor, ilGuardiano della Soglia, accorrerà a liberare dalle insidie il cammino diIsabella, la sua Signora.”

“Isabella|… Mi hai chiamata con il mio nome. – stupì laragazza – E’ la prima volta che mi chiami così…”

Osor sorrise ancora, in quel modo indefinibile che sololui era capace di avere e  arretròancora di un passo prima di scomparire dietro l’uscio.

 

 

 

 

 

                                      


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