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La folle vita di Jean Rossignol il marinaio

di Frank Gallo
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Pubblicato il 05/08/2012 12:13:03

KINDO

Dopo che la mia follia uscì dalla porta dell’ingresso principale, una bella porta di mogano, lo stesso legno usato per le casse da morto, mi infilai nella sala ristoro delle suore al pian terreno dell’edificio principale sul lato nord. Lassù c’erano diverse suore, mi incuriosivano.

Non vidi nessuno, era tutto silenzioso, pieno di polvere, una polvere fredda e corposa. Quando mi avvicinai alla porta, non ne vidi neanche una, neanche una per sbaglio, sembrava che fossero scappate tutte. Forse avevano visto Gesù sul tetto del manicomio e qualcuno le aveva avvertite: “Correte, correte Sorelle, c’è Gesù!”.

Intanto mi inoltravo lungo gli uffici del vecchio edificio spagnolo, c’erano tre stanze dopo la grossa sala delle suore. Erano tredici sorelle in tutto, non sapevo i loro nomi, ma le vedevo sempre e ne avevo contate tredici, come le tredici apostole. Molte avevano preferito lasciare le loro camere interne, di pietra, ai malati gravi e si erano accontentate di condividere quella grossa stanza, con i fiori sul davanzale e un’arietta fresca che entrava sempre dal giardino.

Gli uffici erano anche quelli pieni di polvere, sembrava che a San Juan nessuno avesse voglia di lavorare o di togliere la polvere, non c’era neanche la luce, ma grazie alla finestra enorme della grossa stanza delle suore, si poteva vedere fin dentro l’ultimo dei tre uffici. Entrai. Ero in una parte dell’edificio che normalmente veniva tenuta chiusa, ci ero andato per cercare qualcosa, ma non ero sicuro di trovarla facilmente. Intanto ci provavo, infilavo il naso dove non erano affari miei. Provai ad alzare l’interruttore della luce, mi sembrava un grilletto di una pistola, ma era rotto e tornò giù in un attimo. Il rumore della plastica che mi sfuggì dal dito mi fece saltare fuori dalle scarpe, tirai un respiro e lasciai stare l’interruttore, aprii bene la porta, la fermai con una sedia o qualcosa del genere e mi guardai intorno. In fondo alla stanza, che non era più grande di venti metri quadrati, c’era una bella scrivania, mi sembrava un banchetto. Cercai i bambini con i grembiuli e gli zainetti con i dinosauri e le bambole e le penne colorate, ma non c’era niente di tutto questo, c’era soltanto polvere a tonnellate. Finirò anche io sommerso da quintali di polvere, mi chiedevo, ci sono quelli che sono arrivati qui prima di me sommersi qua sotto. Allora per togliermi il dubbio passai la mano sulla scrivania. Ancora quel maledetto mogano, lucido, riflesse la mia faccia sbalordita. La mano diventò nera, sporca e puzzava di vecchio. Ero dentro una maledetta tomba. Che cosa sotterravano là dentro?

«Che ci fai qui!» Una sorella mi trovò mentre mi stavo chinando su uno scaffale interessante, pieno di nomi e di cartelle ingiallite dal tempo che là dentro sembrava correre più lentamente del normale. Non sapevo cosa rispondere, cercare il bagno era la scusa di tutti gli 007, forse avrebbe funzionato, ma la suora subito aggiunse: «E non mi dire che stavi cercando il bagno! Che è la scusa di tutti gli 007! ».

«No, Aurelia». Avevo imparato i nomi di alcune di loro, per fortuna quella che mi trovò nel seminterrato del manicomio era Aurelia, la più giovane. Non so se anche la più bella perché avevano tutte quella tunica larga sui fianchi e si potevano distinguere soltanto quelle magre e quelle grasse. Aurelia faceva parte di quelle magre. Aveva il volto giovane delle novizie, la pelle bianca, un nasino piccolo, timido, gli occhi chiari e una voce talmente sottile che si faceva fatica a sentirla quando eravamo all’aperto. «Ecco, Aurelia, il fatto è che mi sto annoiando da morire da quando mi è finito l’inchiostro di quella meravigliosa penna nera che mi avete regalato al mio arrivo, sei settimane fa».

«Uhm, una penna in sei settimane non è tantissimo. Non è ispirato qui, signor Rossignol?»

«No. Non è questione di ispirazione, Aurelia. Anzi, qui si sta benissimo, è il posto ideale per scrivere un libro».

«Allora? Che cosa succede Jean?»

Suor Aurelia si era tolta quell’orrendo cappello e aveva sfoggiato dei capelli rossi, profumati di camomilla, senza le doppie punte, ricci, lunghi fino alla schiena. Era la prima volta che una suora mi chiamava per nome, mi venne così duro che sentii un urto contro la scrivania di mogano. Con la scusa di pulirmi la polvere dalle mani, mi diedi un’aggiustata, ero pur sempre davanti a una rappresentate della Chiesa.

«Le mie colleghe sono alla cappella in fondo al parco. Sai, qualcuno ha gridato di aver visto Gesù sul tetto del manicomio. Sono corse tutte lì! Sembravano delle matte».

«E perché tu non ci sei andata, Aurelia?»

«Mi sarebbe piaciuto, ma io sono ancora novizia e non mi è permesso lasciare il convento prima di un anno. Neanche per andare in fondo al parco. Ma, sai Jean, sono soltanto cinquecento metri!»

«Già, è un’ingiustizia. È una vera ingiustizia!»

«Inoltre mi obbligano a portare quest’orrendo copricapo anche quando siamo in privato. Sai che le altre se lo tolgono appena svoltano l’angolo della mensa!»

«No! Non ci credo!»

«Già, è così. E io invece sono costretta a sudare e a rovinarmi i capelli con quest’affare!»

«Mah» le dissi «non so se è una blasfemia disprezzare quel copricapo, ma hai ragione, è davvero un affare orrendo. Non ha nessuna forma. Fammi vedere!»

Mentre me lo passò, dovetti allungarmi in avanti per non spostarmi dal retro della scrivania, mi vergognavo perché pensavo che una novizia fosse una specie di mezza suora e quindi mezza rappresentate della Chiesa. Mi toccò le dita col dorso della mano, me le accarezzò, ci avrei giurato, ma scossi la testa. Non poteva essere vero.

«Già! Guarda qui, è come pensavo, sono questi orrendi ferretti infilati qui sotto che lo rendono così brutto. Sembra un coronamento francese del Settecento».

Cercai di fare qualcosa per la povera Aurelia, sfilai il ferretto che sosteneva il suo copricapo e lo trasformai in una specie di velo, inoltre la parte marrone sparì sotto le pieghe e sembrò quasi un foulard di seta bianca all’ultima moda.

«Oh, grazie Jean! È meraviglioso, me lo invidieranno tutte!»

Era fuori di sé dalla gioia, ma io non avevo fatto niente, stavo solo cercando di capire quanto fosse più magra delle altre. Sei settimane potevano causare tante fantasie davanti a una veste bianca e marrone tanto larga e tanto pulita. Profumava di detersivo di Marsiglia. Poi, accorgendomi che mi ero un po’ distratto e non si vedeva più quell’imbarazzante gonfiore sotto i pantaloni bianchi che mi aveva dato William al mio arrivo, mi avvicinai a lei per ricevere l’abbraccio che mi stava offrendo come ringraziamento. Mi sembrò un abbraccio sincero, dal cuore di una giovane donna resa felice con così poco. “Tutte le donne dovrebbero essere un po’ suore” mi dissi mentre mi avvicinavo ad Aurelia. “Dovrebbero essere tutte così quelle là fuori”.

«Oh, grazie, grazie» ripeteva, ed io la stringevo per eseguire il mio test. Era magra, era davvero magra. Non mi permisi di scendere lungo i fianchi perché era una mezza rappresentante della Chiesa, ma da quello che sentivo sotto i polpastrelli, aveva le costole a fior di tunica. Sentivo la sua guancia profumata posarsi sulla mia spalla, un entusiasmo adolescenziale l’attraversava da capo a piedi. Era felice.

Quando, con molta fatica e moltissima concentrazione, riuscii a liberarmi da quell’abbraccio senza conseguenze evidenti, le chiesi: «Aurelia, perché tu sei l’unica suora che mi ha chiamato per nome in vita mia?»

«Non so. Hai conosciuto molte suore in vita tua? ».

«No, soltanto voi. Una volta ho conosciuto un prete, mi ha benedetto e ha benedetto anche il mio libro. Ma nessuna suora».

«Beh, allora è normale, Jean. Qui sono tutte vecchie, non si sognerebbero mai di compromettersi con un paziente».

«Cosa intendi dire per compromettersi?»

«Sai, chiacchiere, voci. In fondo siamo in un piccolo paese della Playa di San Juan».

«Allora avevo ragione. Lo dicevo che eravamo alla Playa di San Juan! Perché William mi ha detto che mi sbagliavo?»

Aurelia sorrise. Pensandoci bene, io là dentro non conoscevo i nomi di nessuno perché anche le suore avevano nomi finti o inventati. I pazzi, quelli lì non parlavano neanche sotto interrogatorio. E i medici? Mai visto uno in sei settimane. Il fatto è che me li ero immaginati io, credevo che quel posto fosse una sorta di clinica dopotutto, ma non ero sicuro che ce ne fossero.

«Non so. Può darsi che William, come lo chiami tu, non aveva capito a cosa ti riferissi».

Mentì, me ne accorsi subito. Ormai me ne accorgevo subito quando una donna mi mentiva.

«Comunque» dissi «non è affatto vero che sono tutte vecchie. C’è Adelaide, quella che rifà le camere, che ha un bel corpo, bello sodo».

Lei intanto si era messa a pulire il vetro sulla scrivania rimasto opaco, si stava chinando troppo. Credo che quella fu la prima volta in cui pregai davvero nostro Signore. Anche perché era una sua seguace ad essere in gioco, era nel suo interesse ascoltarmi oppure no.

«Adelaide è stata sposata, sai!»

«Ah sì?»

«Molte di loro sono state sposate e poi hanno cambiato idea sposando la Chiesa e questo convento. Inoltre ha tutti i denti di porcellana» aggiunse Aurelia quasi per dare a vedere che quello fosse un difetto. Ma non mi sbilanciai su quell’argomento, non era il caso. Invece le chiesi: «Perché lo continui a chiamare convento?»

«Ecco, per due motivi. Questo era un convento prima che ci mettessero il manicomio, fin dal secolo scorso, credo. Quando ancora esistevano vere suore».

Una smorfia nelle sue labbra mi colpì come una balestra medievale in pieno petto.

«Poi» continuò Aurelia «ci misero i malati e lo chiamarono manicomio. Ma quando hanno iniziato a chiudere i manicomi, qualche anno fa, alla fine degli anni settanta, iniziarono a chiamare questo posto un’altra volta convento, come se cambiargli il nome bastasse per cambiare tutto il resto. E invece…» indicò lo scaffale dietro di me, proprio quello che avevo adocchiato prima che lei entrasse. «Oggi continuano a portare i malati qui dentro, pagano un mucchio di soldi per mantenerli e tutti si dimenticano della loro esistenza, proprio come ai tempi del manicomio. Ma non ti so dire molto su questa storia, io sono venuta qua solo due mesi fa. Sono giovane, ma la vocazione può arrivare a qualsiasi età, sai».

«Tu quanti anni hai?»

Aurelia smise di pulire la scrivania, si tirò su sudata, il viso accaldato, la tunica le aderiva ai seni. Mi pentii di averle fatto quella domanda.

«Non si chiede l’età ad una donna.  Non te lo hanno insegnato, Jean!»

«Ma tu sei una suora».

«E allora! Una suora non è forse una donna come tutte le altre?»

«Mah…»

«Ho capito, vieni qui!»

«Qui dove?»

Aurelia si tolse per la seconda volta in un giorno il suo foulard di seta bianco all’ultima moda e l’odore di camomilla mi fece sentire la pesantezza dei due mesi passati a scrivere da solo con quell’odiosa penna nera, di sopra, sul mio terrazzino, senza l’ombra di una donna. Mi prese una mano e me la mise tra i capelli. Guardai in alto, chiesi scusa in silenzio, chiedo sempre scusa in silenzio. Le accarezzai i capelli e lei mi disse con voce tranquilla e presuntuosa: «Hai mai toccato dei capelli così morbidi? Solo una donna sa come tenere i propri capelli così morbidi. Se non fosse per quello stupido copricapo».

«I tuoi capelli sono morbidissimi, Aurelia. Non hanno neanche le doppie punte».

Se c’era una cosa che mi ero sempre chiesto prima di quel giorno nel manicomio spagnolo, era da dove si aprissero le tuniche delle suore. Fin da bambino mi ero sempre domandato se avessero una cerniera nascosta sul lato o sulla schiena. La schiena l’avevo sempre esclusa perché era troppo sexy per una monaca. Poi l’idea che tra di loro si aprissero lunghe cerniere sulle schiene nude, senza quegli aggeggi imposti dal mondo moderno per sostenere i seni, un dono di Dio da tenere libero, era troppo eccitante. Avevo sempre cercato di escludere le cerniere. Forse c’erano delle clip da qualche parte, oppure erano più pezzi uno sopra all’altro, per questo c’erano quei disegni sul petto, come delle tovagliette quadrate. I colori erano così tanti, e le forme ancora di più, i materiali sottili, setosi. Ogni ordine aveva i suoi segreti e il suo modo di indossare i propri abiti. Era sempre stata una di quelle domande che stanno lì, nella tua testa, e sai che non avranno mai una risposta perché una risposta non la potevano avere, tutto qui.

Allora glielo chiesi. Erano i due mesi di astinenza, la mia follia, o tutte e due le cose messe insieme, le accarezzai un’altra ciocca di capelli, tirai il fiato e le chiesi: «Sai, Aurelia, mi sono sempre chiesto come si indossano queste tuniche, dove si sbottonano quando andate a letto». Poi subito aggiunsi: «Intendo dire, prima di andare a letto e fare le vostre preghiere al nostro Signore, Che Dio sia lodato, Amen!»

«Jean! Mi stai sfiorando il seno con il dorso della mano. Non avevi detto che io ero una suora e che le suore non hanno il seno? Smettila subito. No, non ti fermare, ti prego! Continua ad accarezzarmi e sentirai che il mio seno è stato sempre qui e la tua mano è stata sempre qui. Come ci disse Gesù, quello vero, quando apparve veramente».

Io non avevo detto che non avesse il seno, avevo solo detto che lei era una suora e non sapevo se una suora poteva essere paragonata a una donna, ma non m’importava in quel momento di darle delle spiegazioni inutili.

«Sai cosa ho sempre pensato io invece da quando ti hanno portato qui? ».

«No, a cosa?»

Era possibile innamorarsi di una suora o di una mezza suora o di qualunque cosa fosse Aurelia, la giovane Aurelia, arrabbiata con le sue colleghe, con il suo passato o con il suo corpo? Mi ripetevo un sacco di domande per evitare di ripetermi un sacco di risposte.

«Ho sempre pensato, ho pensato, oh ti prego, smettila Jean. No, aspetta, non smettere. Si apre da qui, guarda…»


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