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Le ragazze di Gaston Twssokk

di Frank Gallo
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Pubblicato il 05/08/2012 12:12:08

LE RAGAZZE DI GASTON TWSSOKK

(Il quindici maggio del 1891 un uomo di origini scandinave, trasferito in rue de Foresta, nell’antico palazzo del convento del porto, fu arrestato dopo aver distrutto due mura portanti e quasi tutte le porte dei dormitori, oggi trasformati in moderni monolocali per le studentesse di una rinomata scuola di economia. Prima dell’esecuzione, in presenza dei membri del consiglio medico e del sacerdote della chiesa del porto, Gaston Twssokk raccontò quanto segue…)

 

Erano tantissime, tutte organizzate come un esercito di bambole che non avevano mai visto un bambino, e ogni notte venivano fuori dalle pareti; erano le più furbe che avessi mai visto in vita mia!

A quei tempi facevo il cantante nelle osterie, cantavo e la gente si ubriacava, era bellissimo; vivevo da solo in una piccola casa in affitto, in un vicolo del quale non deve aver parlato molta gente, e loro, sebbene fossero mie nemiche, erano le mie uniche amiche. Ogni volta che uscivo, gli lasciavo qualcosa da mangiare, a volte gli lasciavo anche da bere; erano le mie ragazze, non ne avevo viste prima così, facevo fatica a credere che potessero esistere, eppure erano lì, alla mia tavola, e mi ringraziavano per quello che gli lasciavo da mangiare. 

«Per così poco ragazze! Dove si mangia in due, si può mangiare anche in tre».

«Sei gentile Gaston, sei il più gentile dei proprietari ai quali abbiamo…»

«Zitta! Non vorrai dirgli quello che stavi per dirgli!»

«Che cosa stava per dirmi?»

«Nulla, è una sciocchezza».

«Aspettate ragazze, il dolce!»

«No, grazie Gaston; per stasera c’è il ramadan delle ragazze, non possiamo mangiare dolci».

«Come volete. Io lo lascio qui, non ne voglio più».

Erano bionde, le mie ragazze, non potevo guardarle in faccia perché la loro faccia era piccolissima, più piccola di quelle che vedi dall’ultimo piano della Tour Eiffel o da un’aereo che sta decollando. Ma erano davvero care e gli volevo bene. Qualche volta le mie amiche mi raccontavano come funzionava il loro sistema, ma, visto che io non sono dotato di buona memoria, me ne dimenticavo sempre. 

Erano tantissime, qualcuna amava l’acqua, si facevano il bagno nel lavandino; gli lasciavo sempre il tappo a disposizione e quando gli andava lo tiravano via per rinfrescare la loro piscina di acqua calda. 

Avevo anche voglia di chiedergli dove andassero a dormire; quello era un argomento che mi stava molto a cuore. Loro dormivano pochissimo, avevano una vita molto organizzata, lavoravano sodo, non sempre avevano il tempo di dormire. 

«Dormi tu per noi!»

«Ma neanche io ho il tempo di dormire; è per questo che sono qui!» 

«Vuoi ancora sapere dove andiamo a dormire?»

«Certo!»

In quel momento stavo parlando con la regina delle ragazze, la più importante dell’intera organizzazione. Era piccolina, piena di gambe, le accavallava come una professionista dell’accavallamento; io la guardavo e ascoltavo con un occhio la storia e con l’altro la musica che veniva fuori dal suo corpo luccicante.

«Siamo arrivate qui con la neve dell’inverno passato, tu non ti eri ancora trasferito giù al porto, eri ancora a bordo della tua nave. Noi odiamo le navi perché soffriamo il mal di mare! Quando siamo arrivate, ci siamo accorte subito che questa casa sarebbe stata perfetta per riposare un po’ e decidere come organizzare i lavori per la prossima stagione. 

Le finestre non hanno giunture, anche la porta e il cancello che dà sulla terrazza non avevano nessuna protezione, così ci siamo riunite sulle tegole che corrono sotto la tua finestra e ci siamo organizzate: duemila ragazze per costruire il mio palazzo, dietro le mattonelle della cucina fino alla parete interna del bagno, con due ingressi laterali dalle credenze e uno principale sotto il lavello. Sotto il lavandino non ci guarda mai nessuno; è difficile, per questo noi altre ci accampiamo sempre lì prima che gli alloggi siano pronti.

Altre seimila si sono occupate degli approvvigionamenti. Non sapevamo ancora che tu ci avresti adottate, così ci siamo organizzate raccogliendo tutto quello che a te non serviva. Quello che si poteva conservare in frigorifero lo abbiamo nascosto sotto i cestelli per le uova. Anche lì non ci guarda mai nessuno. Per le spedizioni in frigorifero soltanto un centinaio di noi hanno la resistenza e il fisico adatti. Poi, dopo una settimana, durante una ricognizione del tetto, ti abbiamo visto per la prima volta. 

Quando una di noi vede uno di voi, sa che potrebbe essere la fine. Eravamo in cinquemila, stavamo percorrendo la parete dietro i fornelli confondendoci nelle intercapedini. Le intercapedini possono essere le nostre migliori amiche. Invece tu ci hai viste e ti sei messo a cantare; noi ti abbiamo guardato per un attimo per accertarci che non fossi pericoloso e ci siamo messe ad ascoltare la tua canzone. L’abbiamo chiamata La canzone delle ragazze perché ogni volta che ci vedevi la cantavi come un matto. 

D’accordo, volevi sapere dove sono i nostri letti. Ma perché sei così curioso?»

«Perché siete le mie amiche e voglio sapere tutto di voi! Volete ancora del pane ai cereali?»

«No, grazie Gaston, per ora siamo a posto. Vedi, il letto di una di noi è il segreto più importante che si porta appresso. Non importa se muoia o se viva per tanti anni, quanto non racconti mai, mai, dove si trova il suo letto».

«Ma perché?»

Perché tutti hanno i loro segreti. Tutte le persone importanti e tutte le ragazze».

«Vuoi dire che siete tutte donne!»

«Sì, è così, e non fare quella faccia…»

Dovevo sapere che erano tutte ragazze, adesso mi spiegavo come mai ero stato così gentile con quelle piccolette. 

La sera in cui parlai con la regina delle ragazze, riuscii anche a scoprire dove dormivano, e spiegherò adesso come feci:

«Quando parli mi fai pensare a un fiammifero che cade nell’acqua ghiacciata…»

«Sei dolce Gaston, anche perché sai che adoriamo l’acqua. Bene, sai anche che siamo tutte donne».

«Sì, me lo hai detto tu».

«E che, se siamo tutte donne, non c’è neanche un uomo».

«Sì».

«Neanche un uomo nel raggio di un chilometro tranne te…»

«Esatto».

Era sera, grazie all’arte della semplicità erano cadute in mano mia, o io ne ero diventato schiavo. Avevano sempre avuto la misteriosa abilità di porti davanti ad una scelta; era la loro natura. Ed io adesso dovevo lasciare tutto quello che avevo per scoprire dove fossero nascosti i loro letti. Ma che cos’è che avevo io, infine? Così decisi di seguirle fin dentro il loro palazzo a patto che non lo rivelassi a nessuno. Ma come avrei potuto?  Loro erano le mie uniche amiche. 

Passammo nella parete tra la cucina e il bagno; la regina mi spiegò come nascondermi nelle intercapedini, io l’ammiravo perché anche in tutti i posti dove avevo lavorato i capi erano sempre donne; questo ci legava al mio mondo anche se loro non lo sapevano. 

All’ingresso si sentiva un odore inebriante di curiosità, ero un fiammifero che cadeva nell’acqua ghiacciata. La regina mi sorrise, sentii che poteva capirmi anche se era piccolina e stanca. Era, la loro, vera curiosità; non avevano mai visto un uomo così da vicino. Dopo una vita intera passata sui mattoni a costruire il palazzo, erano davvero confuse, per quanto stentassi io a credere che la confusione fosse come felicità. Mi sedetti a tavola con loro; migliaia di piatti volavano sulla mia testa, scoprii sapori di vecchie pietanze ribollite nelle spezie dell’Est, comprate durante il loro viaggio, e più mangiavo più mi sentivo simile a loro.

La regina mi poggiò una mano sulla coscia e mi chiese: «Perché non hai altri amici oltre noi Gaston?»

«Perché vengo dalla Scandinavia. La gente non parla la mia lingua; non sa neanche dove si trovi la Scandinavia!»

«Ma certo! Da qualche parte lassù, dopo la terrazza».

«Sccc, zitta tu!»

«Visto…»

«Ma perché ci interrompi sempre tu? Chi sei?»

«Io sono l’ultima arrivata, non mi conosci perché ho lavorato sodo nel frigorifero per due settimane».

«Come ti chiami? Dov’è il foulard che indossano tutte le ragazze?»

«Lo indossano davvero tutte?». Già m’immaginavo tante ragazze nude con il loro foulard attorno al collo. Il collo è la parte che mi attirava di più in una di loro; può dire quello che gli occhi non dicono; non esistono colli bugiardi.

«Sì Gaston, lo indossano proprio tutte. Tranne lei».

La regina si alzò; tutta la tavolata si azzittì d’un colpo. Ci fu quell’assordante rumore che precede un silenzio, quando lei disse: «Questa ragazza non viene dall’Est come tutte noi! Non indossa neanche il suo foulard». 

«L’ho perduto signora, era solo uno stupido foulard».

«Ti sbagli, quello è il simbolo della nostra femminilità; è tanto importante almeno quanto i segreti».

Infine, la sconosciuta mi guardò e si rivolse a me: «Io sono qui per te Gaston!»

«Davvero!»

«Sono venuta per portarti via, questo non è il tuo Paese».

«Io vengo dalla Scandinavia. Scommetto che non sai neanche dove si trovi il mio Paese!»

«Certo che lo so. La Scandinavia, detta anche Penisola Scandinava, è composta da Norvegia, Svezia e Finlandia nord occidentale. Ma non è per questo che ti porterò via». Ero congelato perché le sue parole sembravano venire fuori dal frigorifero nel quale aveva trascorso le ultime due settimane. «Tu hai distrutto le mura delle ragazze, le hai perseguitate per mesi, attirandole nelle tue trappole ogni sera, per scoprire dove dormissero, e avvelenarle. Come se fossero formiche!»

«Formiche?» chiesi alla sconosciuta.

«Formiche?» chiese la regina.

«Formiche!» rispose la sconosciuta.

«Formiche…» risposi alla regina. 

Così le ragazze trasformarono la loro curiosità in paura, dandomi la conferma che non avesse nulla a che fare con la felicità. Gaston Twssokk era destinato alla solitudine, ormai ne ero certo.

Mentre la sconosciuta mi portava via, scorsi una lacrima sul volto lucido della regina, la quale si accarezzò il foulard e sussurrò qualcosa alla propria mano. Passammo per l’ingresso laterale, attraverso la credenza. Alla mia sinistra scorrevano le acque cristalline che io stesso avevo lasciato aperte per loro. E alla mia destra un barlume di luce mi rivelò finalmente la loro camera da letto… Al suo interno un mangianastri, recuperato durante una delle loro ultime incursioni notturne, cantava la canzone delle ragazze.      

 ***

Les petites amies de GASTON TWSSOKK

 

(Le quinze mai du 1891 un homme d’origine scandinave, installé rue de Foresta, dans l’ancien Palais du Couvent du port de Nice, devint fou. Il fut arrêté après avoir détruit deux murs maitres et presque toutes les portes des dortoirs, aujourd’hui convertis en modernes studios pour les étudiantes d’une renommée école de commerce. Juste avant son exécution, en présence des membres du conseil médical et du curée de l’Eglise du Port, Gaston Twssokk raconta ce qui suit…)

Elles étaient nombreuses, organisées comme une armée de poupées qui n’avait jamais vu un enfant, et chaque nuit elles sortaient des murs; elles étaient les plus malines que j’avais connues dans ma vie!

A l’époque j’étais chanteur de bistrot, je chantais et les gens se soulaient, c’était merveilleux. J’habitais tout seul dans une petite maison, au long d’une ruelle méconnue, et quoiqu’elles fussent mes ennemies, elles étaient aussi ma seule compagnie. Chaque fois que je sortais, je leur laissais quelque chose à manger; parfois même à boire. Elles étaient mes petites amies. Je n’en avais jamais vue des pareilles auparavant, j’avais du mal à croire qu’elles pouvaient exister, et pourtant elles étaient là, à ma table, et elles me remerciaient pour ce que je leurs laissais à manger:

«Ce n’est pas grand-chose, les filles! Où l’on peut manger à deux, on peut aussi très bien manger à trois».

«Tu es gentil Gaston, tu es le propriétaire le plus gentil auxquels nous avons…»

«Tais-toi! Tu ne voudras pas lui dire ce que tu allais dire!»

«Elle allait me dire quoi?»

«Rien, c’est une bêtises».

«Attendez les filles; le dessert!»

«Non, merci Gaston; pour ce soir il y a le ramadan des filles, nous n’avons pas le droit de manger du dessert».

«Comme vous préférez. Je le laisse ici, je n’en veux plus».

Elles étaient blondes, mes petites amies, je ne pouvais pas les regarder dans les yeux parce que leurs yeux étaient minuscules, encore plus que ceux que tu peux voir du dernier étage de la Tour Eiffel ou d’un avion qui est en train de décoller. Mais elles m’étaient vraiment chères et je les aimais beaucoup. Quelquefois mes amies m’expliquaient comment elles étaient organisées, mais étant donné que je ne suis pas doué d’une bonne mémoire, j’ai finis par tout oublier.

Elles étaient vraiment nombreuses. Certaines aimaient l’eau et prenaient leur bain dans l’évier; où je leur laissais toujours le bouchon à disposition pour qu’elles puissent se rafraichir dans leur piscine d’eau chaude quand elles avaient envie. 

Un sujet qui me tenait très à cœur, était aussi de savoir où elles allaient se coucher. Elles dormaient très peu en vérité, elles avaient une vie tellement organisée, car elles travaillaient beaucoup, et elles n’avaient pas souvent le temps de dormir.

«Tu peux dormir à notre place!»

«Mais moi non plus je n’ai pas trop le temps de dormir; c’est pour ça que je suis là!»

«Tu veux toujours savoir où nous allons nous coucher?»

«Bien-sûre!»

A ce moment j’étais en train de parler avec la reine des petites amies, la plus importante de l’entière armée. Elle était aussi très petite et avait beaucoup de jambes, elle les croisait comme une spécialiste; je la regardais, j’écoutais l’histoire d’un œil et la musique de son corps brillant de l’autre. 

«Nous sommes arrivées ici avec la neige de l’hiver dernier; tu ne vivais pas encore au Port, tu étais encore à bord de ton navire. Nous détestons les navires car nous avons le mal de mer! Quand nous sommes arrivées, nous nous sommes vite rendu compte que cette maison était parfaite pour nous détendre un peu et décider comment organiser les activités de la saison prochaine.

Les fenêtres n’avaient pas de jointures, la porte non plus et le portail de la terrasse n’avaient aucune protection; alors nous nous sommes réunies sur les tuiles de ta fenêtre et nous nous sommes organisées: deux milles filles ont construit notre château, derrière les carreaux de la cuisine. Il y avait deux entrées latérales dans le placard et l’entrée principale était sous l’évier. Personne ne regarde jamais sous l’évier.  C’est pour ça que nous campons toujours là-bas avant que les logements soient prêts.

Les autres six milles se sont occupées des approvisionnements. Nous ne savions pas encore que tu nous aurais adoptées, voilà pourquoi nous nous sommes organisées afin de rassembler tout ce dont tu n’avais pas besoin. Tout ce qu’on pouvait conserver dans le réfrigérateur nous l’avons caché sous les casiers des œufs.  C’est un autre endroit où personne ne regarde jamais. Pour les expéditions dans le réfrigérateur, seulement une centaine parmi nous a la résistance et le physique adaptés. Au bout d’une semaine, pendant une promenade sur la toiture, nous t’avons aperçue pour la première fois. Quand une des notre voit un des votre, elle sait que ça pourrait être la fin. Nous étions cinq milles, en train de parcourir le mur derrière la gazinière en passant par les fissures. En effet les fissures des murs pouvaient être nos meilleurs amis. Mais tu nous as vues et tu as commencé à chanter; nous t’avons regardé un instant, juste le temps de comprendre que tu n’étais pas dangereux, et nous avons écouté ta chanson. Nous l’avons nommé La chanson des petites amies. Chaque fois que tu nous voyais, tu commençais à chanter comme un fou. 

Et Bien, tu voulais savoir où se trouvent nos lits. Mais pourquoi es tu si curieux?»

«Parce que vous êtes mes amies et je veux savoir tout de vous! Voulez vous encore du pain aux céréales?»

«Non, merci Gaston, pour le moment ça va aller. Tu sais, le lit est le secret le plus important pour chaque une de nous. Peu importe si elle meure ou si elle vit longtemps, à condition qu’elle ne dise jamais, vraiment jamais, où son lit se trouve».

«Mais, pourquoi?»

«Parce que tout le monde a des secrets. Tous les gens importants et toutes les filles».

«Tu veux dire que vous êtes toutes des femmes!»

«Oui, exact, et ne nous regarde pas avec cette aire …»

J’aurais dû imaginer qu’elles étaient toutes des filles; maintenant je comprenais pourquoi j’avais été si gentil avec ces petites.

Le soir où j’ai parlé avec la reine, je réussis aussi à découvrir où elles dormaient. Et je vais vous expliquer maintenant comment j’y suis parvenu:

«Quand tu parles, tu me fais penser à une allumette qui tombe dans de l’eau gelée…»

«Tu es mignon Gaston, surtout parce que tu sais bien que nous adorons l’eau. Et Bien, tu sais aussi que nous sommes toutes des femmes».

«Oui, c’est toi qui me l’a dit».

«Et tu sais aussi que, si nous sommes toutes des femmes, il n’y pas d’hommes».

«Oui».

«Même pas un homme dans un rayon d’un kilomètre excepté toi».

«Oui, très juste».

C’était un soir; grâce à l’art de la simplicité, elles étaient toutes tombées à mes pieds. Ou en étais-je devenu esclave? Elles avaient toujours eu la mystérieuse habilité de vous amener  à faire un choix: c’était leur nature. Maintenant je devais quitter tout ce que j’avais pour découvrir où se trouvaient leurs lits. Alors je choisis de les suivre à la découverte de leur château à condition que je ne l’aurai jamais raconté à personne. Comment aurai-je pu? Elles étaient mes seules et uniques amies.

Nous passâmes à travers le mur entre la cuisine et la salle de bain; la reine m’indiqua comment se cacher entre les fissures; je l’admirais car j’avais toujours été dirigé par des femmes.

A l’entrée, il y avait un parfum enivrant de curiosité. J’étais une allumette qui tombait dans de l’eau gelée. La reine me sourit, je sentais qu’elle pouvait me comprendre malgré sa petite taille et sa fatigue. Il s’agissait d’un sentiment de véritable curiosité; elles n’avaient jamais vu un homme de si près. Après une vie passée parmi les briques à construire leur château, elles étaient un peu gênées; pourtant je pensais que la gêne était une sorte de bonheur. Je m’assis à leur table; de milliers de plats volaient au dessus ma tête. Je découvris les goûts des anciens plats épicés de l’Est; plus je mangeais et plus je me sentais proche d’elles.

La reine me posa sa main sur la cuisse et me demanda: «Pourquoi tu n’as pas d’autres amis à part nous Gaston?»

«Parce que je viens de la Scandinavie. Personne ne parle ma langue, et n’a aucune idée d’où se trouve la Scandinavie!»

«Mais oui, quelques part là-haut».

«Chut, silence!»

«T’as vue…»

«Mais pourquoi tu nous interromps chaque fois? Qui es tu enfin?»

«Je suis la dernière arrivée, tu ne me connais pas car j’ai travaillée dans le réfrigérateur pendant deux semaines».

«Comment tu t’appelles? Et le foulard que toutes les filles portent, où est-il?»

«Vraiment ? Vous le portez toutes?» Je m’imaginais déjà toutes les filles nues avec leur foulard autour du cou… Le cou était la partie de leur corps qui m’attirait le plus; il pouvait dire tout ce que les yeux ne peuvent pas. Il n’y a pas de cous menteurs.

«Oui Gaston, toutes les filles le portent. Sauf elle».

La reine se leva; tout à coup, la table se tut. Il eu cet assourdissant bruit qui précède un silence, quand elle dit: «Cette fille ne vient pas de l’Est comme nous toutes! Elle ne porte pas son foulard».

«Je l’ai perdu madame, c’était seulement un stupide foulard».

«Tu te trompes, celui-ci est le symbole de notre féminité; il est aussi important que les secrets».

Enfin, l’inconnue me regarda et se dirigea vers moi en me disant: «Je suis là pour toi Gaston!»

«Vraiment?»

«Je suis venue pour t’emmener. Ceci n’est pas ton Pays». 

«Je viens de la Scandinavie. Je parie que tu ne sais même pas où se trouve mon Pays!»

«Mais oui je sais! La Scandinavie, aussi dit Péninsule scandinave, est composée de la Norvège, la Suède et la Finlande nord-occidentale. Mais ce n’est pas pour cela que je t’amènerai avec moi». J’étais congelé parce que ses mots semblaient arriver du réfrigérateur dans lequel elle avait passé ses deux dernières semaines. «Tu as détruit les murs des filles, tu les as tourmentées pendants des mois, en les piégeant chaque soir, pour découvrir où elles se couchaient, et les empoisonner. Comme si elles étaient des fourmis!»

«Fourmis?» demandai-je à l’inconnue.

«Fourmis?» demanda la reine.

«Fourmis!» répondit l’inconnue.

«Fourmis…» répondis-je à la reine. 

Alors les filles changèrent leur curiosité en peur ; probablement la curiosité n’avait plus rien à voir avec le bonheur. Gaston Twssokk était destiné à la solitude, désormais j’en étais sûr.

Les arbres de la colline du Château regardaient les fenêtres du couvent; ils étaient froids. Les couloirs étaient froid aussi et sentaient le vin. Alors que l’inconnue m’amena avec elle, j’aperçus une larme sur le visage brillant de la reine, qui en caressant le foulard murmura quelque chose à sa main. Nous passâmes par l’entrée latérale, à travers le placard. A ma gauche coulait l’eau cristalline que j’avais laissée pour elles. Et à ma droite, une faible lueur me révéla enfin leur chambre… A l’intérieur, un magnétophone, récupéré pendant une de leurs dernières incursions nocturnes, chantait La chanson des petites amies.

(écrit dans le Café Sully.)

 


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