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... togliere ad una madre la sua creatura...

di Maria Pace
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Pubblicato il 25/08/2012 17:56:24

 

 

...............

Due mesi dopo misi al mondo la mia creatura.

Era un maschio e gli fu dato il nome di Ismaele, che significa: "Il Signore ha

esaudito", proprio come il mio amatissimo Amosis mi aveva predetto la notte

in cui avevo lasciato Tebe.

Fu tutto come un sogno: il sorriso di Abramo, i doni di Sarai, il mio pianto di

gioia. E poi, il ventre vuoto, il seno gonfio, il cuore triste. Nella profonda

tristezza che nasceva da un dolore nuovo e nel rimpianto che veniva dalla

rinuncia, scoprii la solitudine alimentata dal rancore.

Partorii sulle ginocchia di Sarai; lei stessa aveva reciso il cordone ombelicale e

per questo mio figlio le spettava di diritto:erano le consuetudini.

Di tutte le consuetudini che Abramo aveva spezzato, di quelle portate dalla

Terra di Nahor, quella che permetteva ad una donna di portar via il figlio a

un'altra donna, continuava a resistere.

A Tebe no! A nessuna madre sarebbe accaduto mai.

Hathor l'avrebbe impedito!

Sarai reclamò il suo diritto di Grande Madre del popolo di Jhwh.

La guardavo, mentre recideva il cordone che ancora legava mio figlio alla mia

carne. Era di nuovo bella; quasi come mi era apparsa nel giardino del principe

Abimelech, ma più radiosa. I simboli della dignità matriarcale, trionfavano sul

suo petto e sulla fronte. Il volto, felice ed appagato, era il volto di una donna

diventata madre.

"Il mio bambino.- disse tendendo le braccia verso mio figlio - Guarda il mio

bambino, Agar, sorella mia."

"Non chiamarmi Agar. – proruppi - Non chiamatemi mai più Agar, che vuol

dire Gioia..Chiamatemi  Mara... Amarezza." 

 

Lei mi fece una carezza e si allontanò col frutto del mio grembo ed io mi sentii

il più spoglio degli arbusti e il più solitario dei loti, Le facce mute della gente,

il deserto grigio, il cielo, il silenzio, parevano attendere le mie grida di dolore.

Nelle notti che seguirono, la clessidra accanto alla stuoia chioccolava lenta e

ogni goccia mi teneva sveglia e teneva sveglia la mia pena alimentata dal

dolore. Un dolore nuovo; diverso da ogni altro dolore patito prima. Diverso da

quello per i bimbi della fornace del Santuario di Hathor; diverso da quello per

la morte di Amosis e di Merit; diverso anche da quello per la perdita di Hiram:

era il dolore che tiene vivo il mondo!

Cosa è il Nilo, se non le lacrime di dolore di Iside per lo smembramento del

corpo di Osiride? E non è, forse, una vena aperta sul corpo di Hapy?

Anche il mio corpo e il mio spirito sanguinavano come il Nilo.

Il dolore, sprofondato nel rancore, e mi aggredì lo spirito come un insetto

attacca le radici delle piante nella stagione secca.

Non sentivo più il canto degli uccelli e le tende del campo mi parevano vele

alla deriva.

Ne fui atterrita. Conoscevo la devastazione di quel sentimento. Gli oscuri

fantasmi, generati in me dagli Dei di Ugarit, di Gerar e perfino dal Dio di

Abramo, insidiavano ancora la parte più profonda del mio spirito, ma io decisi

di deporre rancori e atteggiamenti di ribellione. Fu per questo, forse, che Sarai

mi concesse di allattare il mio bambino.

Mentre porgevo il seno al mio piccolo, che mi trafiggeva il cuore col suo

sguardo innocente, mi domandavo se ero proprio io quella donna sottomessa.

Dov’era andata a nascondersi la principessa di Tebe, che seguiva il volo degli

ibis, sognando di seguirli in volo.

Ma non c'erano ibis a Mambre, solo corvi e civette.

 

 

brano tratto dal libro di Maria Pace:   A G A R

 

 

 

 


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