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Decimo comandamento

di Pietro Menditto
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Pubblicato il 03/10/2012 18:22:32

 

  

   Dirai ai tuoi figli che quando tuo marito

   ebbro di fortuna e sazio di carne

   mi uccise confondendomi col tramonto

   fu un atto dovuto.

 

   Le cartilagini erano già impresse da un collaudato

   destino e le membrane mai divenute palinsesti.

 

   La gente del posto era così abituata

   ai cieli di sangue di quella terra infame

   da scambiarli per teloni

   gettati sulla carne che i camion

   portavano ai depositi.

 

   Mi misi in testa di portarti via ai tuoi

   e non riuscivi a capire come l’eterno

   crepuscolo nei tuoi occhi

   potesse essere dimenticato

   per un profilo riemerso

   da combusti ricordi, sciamanti

   come da un disturbato alveare

   durante una visita a un cimitero occidentale.

 

   Ma io avevo parole di sangue caldo

   come i mattoni del muro maestro

   calcinato dall’ira perseverante del leone estivo

   e i parti e gli aborti e l’aver procurato

   vita e morti come acqua sorgiva dal grembo

   non poteva salvarti dall’alito in rivincita

   di scoperchiati sepolcri –

 

   sghembi nel mondo i figli uscivano dal tuo ventre

   torniti pipistrelli, come da una grotta

   grondante buio e seme di decreti.

 

   A loro curiosi della mia morte

   come di ogni luogo incantato

   dirai che di notte vedevi tra i campi

   intorno alla vostra casa aggirarsi un’ombra di luce

   avvoltolata espandersi raggomitolarsi tra i lampi

   diventare un punto ingigantirsi volare via improvvisa

   nuvola fola minaccia esorbitante veleno

   alle radici di tutto che mai sarebbe stato mosto

   bollente per un convivio di lemuri di paglia

   a chiudere il giorno biblico agghindato in salmi.

 

   Che poi essa ritornava dallo zenit alla vostra casa

   tu diventavi la casa e quella cosa stringeva

   in vita te e i muri e scendeva superba in cantina

   e slegava i nodi e svitava tutte le viti e tutta la vita

   e scuoteva i pilastri e la terra e l’acqua e l’aria

   ed era fuoco che s’era messo in cattedra, e altre cose     

   del genere.

 

   Ma poi essi si faranno più pressanti e alla tua lingua

   verrà in soccorso il fiato monotono del tempo narrante

   ed essi non acquietati vedranno finalmente la madre

   e le sue mani alla carne silenziosa e al carnefice

   cantante e l’ombelico arcaico del giorno consueto

   secco di polvere di rovine felici di una morte solare.

 

   Non l’avrai detto, ma anche loro sapranno infine

 

   che anche tu volevi salvare qualcosa di quello

   che nella quinta stagione mi fece danzare su un filo d’ombra

   nella ardente freschezza del crepuscolo, ma solo qualcosa,

   non più di tanto, quello che a una madre tocca salvare,

   il passaggio, ma in cosa consistesse quel passaggio

   era al di là delle labbra umide del tuo prosperoso destino.

 

   Così la cosa fu risolta in un sol colpo con un colpo solo

   e dalla voce del fanciullo chiamata: il cielo che cade

   e dalla pietra confortata in memorabile oblìo.

 

   Ora i tuoi figli hanno scoperto dove sono sepolto

   e spesso vengono a trovarmi confidandomi i loro silenzi

   mentre ignota tra le braccia stringono

   l’eco sapiente del tuo grembo vuoto.

 



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