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Al mio cane Fado

di Pietro Menditto
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Pubblicato il 26/11/2012 18:19:40

Non credevo di poter scrivere di te

anzi, di poter ancora scrivere.

Sognando una torta di mele degli anni '70

la vita scorreva ancora tra le mie sponde brulle

indifferente.

                       

                        Ma a volte concludi che se non le cose,

gli scorporati creduti assenti puoi nominare senza errore

o colpe flagranti perché con la stravaganza di un satellite

poligamo scelgono l'ora sfuggente e per te reinterpretano

(che non credevi di poterlo più tentare) la luce impenetrante

del faro imperturbabile.

                        Credo che proprio la luce sia madre della polvere,

il fallimento della sua cosmica pietà, o di questa l'ultimo senso, se polvere era

                       

                         Due che cercavano un ricorso a un tribunale

soppresso e non sapevano che le loro aure si congiungevano

intanto nel cerchio magico per la tua evocazione e così tra le

dita la molla arcana infilò il rettangolo dove sopravvivevi…

                       

                         E quindi sei apparso, o non tu, la tua proiezione siderea

dall'evanescente pennello o alito che sul nudo vetro di sempre

fa comparire le terribili tenere impronte che da qualche parte in me

macerano, lottizzano il fegato dopo aver sezionato l'aulica pompa.

                         Pertanto, anche se sono sempre di più i meno e per fortuna

in rialzo i crimini contro l'unanimità, adesso sono qui assorto all'eco della retina

di un tuo pintore che non sapeva quello che fotografava.

                        

                         Ecco che nell'unica foto (l'ultima di un rullino

da completare sono certo), intrusa in un mazzo già troppo scomposto

da dimenticate ricerche, di attimi che ingialliscono al sole extragalattico degli album, mi appari come se il flash soffio di vento improvviso avesse vorticato a ventaglio il tuo vello di sabbia intorno al centro focale dell'irriverente tartufo.

                          

                         Perso il negativo, spero distrutto, anche questa è immortalità sull'olimpo della mia tanto attuale calvizie.

 

                         Non so nemmeno con quale terra adesso si mescoli il miele della tua cenere, mio levriero, del colore che se ne avesse uno sarebbe quello di una dissipata adolescenza nel sole. La mia ignoranza mi autorizza a venerare il tuo spirito. Dico spirito non la torbida anima intasata che il catechismo ti nega, poiché ulula ancora sulle nude interiora del mondo che in tua vece abito, in questo volgere divisato, diviso, resto zero delle cose ultime.

                

                         Perché levassi la testa alla luna preannunciando la pece ribollente, l'inizio impercettibile dei cataclismi a piè dei pilastri dell'impermanenza – i cosiddetti fondamenti – mi sono chiesto per infinite sieste commosse dalla tua assenza.

                        

                         Ora so che il circolo si chiude, si tiene un mondo bene o male, bastando un astro e se gli fa eco un cane.

                        

                         L'odore del tuo mantello, di boschi prossimi a una Thule, si plasmava ai serpenti d'aria… medusa che resuscitava…

 

                         Rotolarti estasiato nelle feci disseminate da un gregge appena trascorso, negli escrementi fumanti delle sapienti vacche retrograde poteva appagarti del tutto e alla fine ne eri disfatto, sfinito come nemmeno una donna che ha appena partorito.

                        

                          Figlio di un tappeto volante e della mia infanzia tetraplegica nella tua veglia sorvegliavi le rapide della mia reverie, nel tuo sonno avevi ancora fremiti per me.

            

                         Quello che tu sapevi io presagivo, come può un'ombra separata dal corpo.

                         Tu freccia scagliata negli ombelichi palpitanti di quei giorni, di quel tempo interrogato in fermaimmagini vibranti attraversati da una striscia tecnicamente non eliminabile e tra corrucci veementi.

                         

                          Quello che io e te sentimmo lo ululammo irosi ai quattro cardini e agli ottantaquattromila insegnamenti.

 

 

 


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