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il pozzo e il pneuma

di Giovanni Barlocco
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Pubblicato il 01/01/2015 15:45:12

Un po’ di luce in più non mi  dispiacerebbe.

Neanche un po’ di caldo.

Respiro bene, tuttavia.

E anche i battiti cardiaci non sono accelerati.

Li posso sentire mentre pompano il mio sangue con la vibrazione regolare di una nota di basso, inserita tra lo scroscio ritmico dei risucchi seguiti da brevi gorgoglii.

Potrebbe essere un buon rap.

Niente paura.

Calma.

La mia esperienza è superiore a quella di chiunque altro.

La mia freddezza è esemplare..

Esamino la situazione.

Non c’ è da fare affidamento su Luca, l’ho spedito io stesso in un’altra direzione senza dirgli che sarei venuto qui.

Siamo scesi insieme, ma a me non piace lavorare con qualcuno intorno; si rischiano discussioni sulla divisione del guadagno.

Anche Pietro sa che deve tornare a prenderci tra un’ora,  davanti alla chiesa, cento metri più in là, questi sono i patti.

La caviglia comincia a far male, devo muovermi con cautela, se si gonfia è peggio.

Le lancette luminose mi dicono che sono inchiodato qui da cinque minuti; ho ancora una mezz’ora buona e pochi metri da percorrere verso la salvezza.

La mia frustrazione mi riporta a tutte le norme trasgredite da anni.

Mai da soli; mai senza appoggio; mai senza segnali, lo sanno tutti.

Certo che lo so che è pericoloso, ma  quello che faccio io viene meglio in solitudine, maledetti corvi, maledetti manuali, maledetto buon senso.

Mi ci sono già trovato, più di una volta, e me la sono cavata.

Sarà così anche oggi.

L’aria che inspiro è fresca e buona, ma devo dosarla, adesso sono mendicante del  bene più gratuito e comune, al punto che non posso permettermi neanche un respiro inconsapevole.

Cerco un’altra volta di capire in che modo il mio piede sia incastrato nella spaccatura, e il raggio della torcia illumina il viso della statua, libero quasi del tutto dalla sabbia del fondo.

Dioniso mi rimanda una smorfia beffarda.

Quella faccia potrebbe valere la cifra dell’esistenza di un uomo, preferisco pensare che mi stia sorridendo.

Appoggio la torcia alla fronte del dio, per dissipare l’oscurità che mi tiene e avere mani libere.

Del buco, però, continuo a capire poco; lì l’acqua è più torbida, come se una corrente mantenesse sabbia costantemente in sospensione.

Cerco di muovermi con delicatezza, ma una fitta mi rammenta che i bordi della roccia che mi imprigiona sono taglienti.

Mi sembra che, fra le alghe, si levi un ricciolo di fumo rosato, subito diluito.

Il piede deve essere già più gonfio, sento che comincia a intorpidire e non riesco a muovere le dita.

Mi fermo e respiro lento, ma mi pare che la nota di basso si faccia un po’ più incalzante.

Non va bene.

L’ansia brucia ossigeno.

Dall’imboccatura della grotta sottomarina proviene, celeste, il chiarore del giorno.

Saranno tre metri.

Poi altri diciannove verticali, fino alla superficie, alla carezza del sole, all’alito del vento.

Pochi secondi.

Fin da bambino ho compiuto percorsi ben più impegnativi.

E’ quasi buffa l’idea di essere bloccato qui, con un tesoro a portata di mano e poco mare  a contenderti la vittoria e la vita.

Mi arrabbio.

Questo non è oceano, quaranta ruggenti, profondità abissali

Questo è un mare da turisti, un mare noto, una specie di vasca da bagno di casa.

Non è una cosa che può succedere, non qui, non così, non a me.

La morte.

Un brivido; l’inizio di un rimpianto, mentre guardo la macchia luminescente, distante soltanto un paio di colpi di pinna.

Il cuore manca un battito, poi accelera.

Un respiro profondo, solo uno, per rallentarlo e sgomberare il cervello da quella parola nera che si forma sul muro della mente e ondeggia come il ghigno di un fantasma.

Non basta.

Ce ne vogliono due.

Poi tre.

Sento le bolle uscire rumorose dall'erogatore, le guardo affollarsi al soffitto di roccia e mutare forma per strisciare come amebe fatali, via, fino all'uscita. 

Libere.

Le immagino salire in fretta, loro, a cui neanche importa di salire, di abbandonare questa tomba salata di cui non hanno percezione.

Non hanno vita.

Niente da perdere.  

Pure sono così veloci  e ansiose, nella loro corsa verticale, da parere vive.

Io invece, io, quello vivo, io sto.

Quante ne ho sprecate? Quante ne rimangono?

Pochi litri d’aria sono lo scudo di nulla che mi mantiene al mondo.

Tento ancora, curvandomi, afferrando la roccia  e tirando piano in un’altra direzione.

Una lama di dolore mi lacera la gamba.

Mordo i pioli di gomma che stringo tra i denti, butto fuori d’un colpo secondi preziosi e visibili nella loro fuga gassosa.

La fenditura non mi  restituisce.

Cerco di rilassare i muscoli contratti, pinneggio lentamente col piede libero per riprendere l’assetto e scongiurare un crampo in agguato.

L’agonia di una foca arpionata.

Per normalizzare i processi chimici all’interno del mio corpo consumo troppa aria, ma devo, devo trovare più pace possibile, e lucidità. 

Dioniso ride, muto e impudente.

Per liberare lui, mi sono imprigionato

Ho spinto, puntando i piedi sulle rocce, per strapparlo all’abbraccio dei secoli; una pinna è scivolata via e il mio stesso impeto mi ha scagliato nella morsa.

La Moira scioglie l’immortale e chiede un mortale in cambio.

Sragiono.

Quando uscirò di qui, staccherò quella testa pietrosa dal busto, cancellerò quella gioia manufatta, mi prenderò una costosa soddisfazione,

Mi preparo.

Cerco di abbandonarmi il più possibile, mentre lascio colare verso l’alto i secondi necessari a radunare le forze e il coraggio.

Il soffio ritmico dell’erogatore scandisce, come il fruscìo del pendolo, il silenzio di questo mio pozzo inglorioso e domestico, così ad ogni passaggio d’aria  la mia vita si accorcia. 

Della similitudine sono stupidamente lieto: anche nel delirio di disperazione della pagina scritta da Poe, rievoco la pietà di un finale salvifico.

Non rassegnarsi, non perdere la mente.

Mi convinco della necessità del dolore, lo esamino, lo analizzo scomponendolo nel niente che rappresenta.

Una condizione temporanea, un parossismo sensoriale che non può alterare le mie funzioni vitali in maniera definitiva, di sicuro non come l’asfissia.

Per quanto esso possa essere forte, finirà, e questo lo rende meno spaventoso.

Meglio varcare la soglia del dolore che l’altra.

Immagino un male fisico che possa essere la somma di ogni altro mai provato, se sbaglierò per difetto non avrò nulla da rimproverami.

Riempio i miei polmoni, infine, e scatto, chiamando a raccolta muscoli e tendini e ossa, strappando nel guizzo più potente di cui sono capace.

La sofferenza, tuttavia, mi sorprende. E‘ molto di più di quanto potessi immaginare: un istante terribile di nebbia rossa che pare non avere mai fine.

Mi lascia semisvenuto, spossato, incapace di qualsiasi altra percezione.

E così non avverto subito quel che è successo, ci vuole il tempo in cui l’onda di strazio si ritira dopo aver allagato tutto il corpo e tutta la coscienza.

Scende piano, si allontana, ma non troppo.

Si ferma e si appuntisce, rovente consapevolezza del mio piede ancora serrato.

Adesso rimane un’unica alternativa.

Comprendo, in un momento di lucidità, di non essere più lucido.

Il mio  pensiero ormai si aggrappa e si avvita ancora lì: oscillazioni.

Tra  la speranza orribile e la certezza mortale.

Oscillazioni.

Resistere o lasciarsi finire.

Oscillazioni.

Del mio pendolo inconsistente che non taglia e non squarcia, ma si allontana dal mio petto, a intervalli di grappoli leggeri e letali.

Oscillazioni.

Non so nemmeno se me ne sono rimaste a sufficienza. Non sarà un lavoro breve.

Estraggo il coltello, perché la vita è caparbia.

Prego.

Non immagino da quale recesso della memoria mi ritornino le invocazioni che si formano nella mia mente, ma le ripeto ancora e ancora, per distrarmi, ipnotizzarmi nell’unica anestesia a cui ho accesso.

Piango.

Mentre l’acciaio affilato, che neanche vedo, mi cerca la carne nel buio.

All’inizio la sofferenza non aumenta di molto; la parte è indolenzita e quasi insensibile, e il taglio, sicuramente, netto.

Forse è la preghiera che funziona.

Pianifico.

Dovrò recidere rapidamente i tessuti con la parte liscia della lama, finché non arriverò all’osso; allora bisognerà lavorare con il bordo seghettato e ci vorrà più tempo e più forza, finalmente è possibile che io debba far leva con la punta del pugnale per scalzare l’articolazione che spero di trovare in fretta, perché poi mi resterà altra carne da tagliare, dalla parte opposta della caviglia, prima di essere libero.

Libero.

Un pensiero, un magnifico aggettivo, che mi sostiene finché l’arresto lancinante del coltello sull’astragalo scuote ogni centimetro delle mie membra, subito  mosse da un tremito incontrollabile.

Dalla spaccatura si estende ormai una nuvola scarlatta che attira alla festa nugoli di piccoli pesci affamati.

Mi fermo e respiro, respiro senza ritegno; non riesco più a controllare nulla di me, la nausea, le lacrime, l’urina,  il dolore, il terrore, il tremito; non sono capace più di formulare altro pensiero che non sia –tagliare- eppure non riesco a proseguire, non sono in grado di obbedire al mio cervello, o forse il mio cervello non è più in grado di impartire ordini.

L’erogatore mi sfugge di bocca, non ci sono più i gommini che mi permettono di trattenerlo con i denti, li ho spezzati e si sono spezzati anche i denti nello spasimo.

Mi manca l’aria all’improvviso, ed è quest’assenza brusca e terrificante a sferzarmi col suo atroce messaggio: -Sarà così. Tra poco. Per sempre-

Stringo le dita sull’impugnatura della mia cruenta salvezza che, per un attimo, ha rischiato di rotolare in fondo alle fauci che mi hanno catturato, rimetto in bocca l’erogatore, trattenendo i rimasugli di gomma con  i rimasugli di denti.

Respiro profondo; l’aria comincia ad arrivare con sforzo maggiore, o forse è solo una mia impressione generata dal panico.

Urlo.

Dentro di me urlo e manovro il coltello avanti e indietro come un forsennato.

Mi sembra di sentirne lo stridìo mentre divento un agglomerato di tormento, tale da non poter essere superato neanche aggiungendone.

Qualcosa cede, in ultimo, e la mia gamba sembra più mobile.

Rigiro il coltello senza neanche estrarlo dalla nebbia sanguigna che lo avvolge, che mi avvolge, e lo spingo avanti e indietro, ancora.

I pesciolini sono ormai uno sciame impazzito di gioia.

E di colpo la rivedo, la mia caviglia sepolta e difforme, e il movimento brusco con cui ritorna fuori dal buco mi sbilancia, il coltello mi sfugge di mano e non ho nemmeno il tempo di pensare che sono vivo, che pochi secondi mi separano da quell’aria illimitata di cui potrò bearmi fino alla fine dei miei giorni, senza risparmio.

Non ho il tempo perché nuoto, istintivamente e immediatamente, verso la luce.

L’ultima bolla mi abbandona quando sono ormai fuori dalla piccola caverna.

Mi viene da ridere.

Non sento più nulla, o forse sento così tanto da non rendermene più conto.

Da qui in avanti, ce la faccio da solo a risalire. Il pendolo si è fermato. Ho vinto.

Punto la superficie, la mia unica pinna spinge come un congegno difettoso; dietro di me, a partire dall’estremità della gamba orfana,  un nastro rosso segna il sentiero liquido  del mio trionfo.

In un attimo percepisco sul mio volto quell’alito  familiare  che sognavo come un bene inarrivabile, pochi minuti or sono.

Riempio i polmoni e assaporo i profumi, la luce, i rumori del fuori, che suonano una melodia bellissima, comune e mai ascoltata prima.

Il dolore torna a mordere, se mai ha smesso, e la spossatezza e il tremito mi lasciano in semideliquio, ma riesco a sganciare i piombi e abbandono le bombole.

So che il neoprene mi farà galleggiare finché Luca e Pietro mi troveranno al terzo o al quarto cerchio concentrico.

Mi rimane poco da resistere.

 

Non è  infrequente, in questi mari.

L’ho incontrato spesso, di solito a maggior distanza dalla riva.

La verdesca, tuttavia, è uno squalo.

Deve essere stato il mio sangue, ad attirarlo.

Penso di essere fortunato: gli esemplari più imponenti raggiungono i quatto metri, ma questo non è molto grande.

E’ un animale elegante e non aggressivo, perfino timido.

Non provo paura.

Sono più grosso, e più forte.

E lui non attacca l’uomo.

So che, tra breve, la barca di Pietro doppierà la punta.

Mi rimane poco da resistere, ma quando cerco di girarmi, il mio corpo gelato mi ignora.

Tento di gridare, ma la mia voce non supera il livello di un basso lamento. 

Lo squalo è scomparso.

Non mi accorgo più di lui finché non addenta il mio moncherino.

Non sento altro dolore, solo tirare.

So che è un suo diritto.

Senza movimento, voce, reazione, circondato dal sangue, non sono un uomo ai suoi occhi; solo una grande porzione di carne succulenta. 

Era un morso prudente, un assaggio. Mi lascia.

Mi dico che non può nemmeno sperare di farcela, in condizioni normali.

Ma, naturalmente, in condizioni normali non avrei perso tutto quel sangue che l’ha attirato e ha  dilapidato ogni mia energia.

In lontananza, il rumore del motore che si avvicina è una promessa.

Nello sguardo offuscato, la prua che si alza è vicina e troppo lontana, al di qua della punta.


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