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Un Talento Naturale

di Giovanni Barlocco
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Pubblicato il 01/01/2015 02:53:31

Sì, lo so. Tu ora mi vedi così, seduto tranquillo al tavolino di un locale esclusivo, intento solo a calibrare la delizia dei sorsi del mio mojito.

Guarda il mare, là sotto, oltre lo strapiombo: un altro strapiombo azzurro.

Hai mai visto un mare così?

Respirato un’aria come questa?

Oh, sì, tu sì, ne sono sicuro. Ma ci scommetto che non te ne sei mai accorto, non ti sei soffermato sulla tua fortuna.

E’ un peccato. Come se io trangugiassi il mio cocktail senza apprezzarne il sapore.

E di me hai già un’opinione:

“Questo è uno che non si è mai fatto il culo, nella vita, un figlio di papà,  anche un po’ stronzo.

Anzi, magari parecchio stronzo.”

Ti capisco, sai, tu di me conosci nulla, io invece, so tutto  di te.

Bé, proprio tutto forse no. Per esempio, non so cosa pensi; posso intuirlo, dedurlo, ma non lo so davvero.

Del resto, nemmeno di una moglie, di un marito, un fratello, un figlio, si può davvero sapere cosa pensano.

Si intuisce. Si spera.

Io so, di te, la famiglia da cui provieni, gli studi effettuati, gli interessi coltivati, che successi hai avuto,  che amici hai e, come vedi, che luoghi frequenti.

So perfino, con discreta approssimazione, l’importo del tuo conto in banca.

Anche se, per la verità, conto in banca è solo un modo di dire riassuntivo per chi ha beni disparati e conduce affari in ogni parte di questo nostro strampalato pianeta.

Come vedi, è già molto quello che so.

E quello che intuisco è  che, di me, hai un’opinione sbagliata.

Io non sono stato sempre così come adesso, sai;  sono nato in una famiglia poverissima, ultimo di dodici figli, certo non una benedizione del cielo; piccolo, gracile e decisamente brutto.

Anche ora, senza questi vestiti costosi, il mio orologio, il mio portafoglio pieno, gli occhiali da sole firmati che porto; anche adesso, fossi nudo, non sarei un granché.

No, anzi, diciamolo: brutto ero e brutto resto. Quella che mi migliora un po’ è la sicurezza faticosamente conquistata attraverso la certezza del mio talento.

Tutti noi abbiamo almeno un talento, solo che, a volte, non è facile scoprirlo e valorizzarlo.

E’ lì che entrano in gioco il libero arbitrio e  la nostra intelligenza.

Ma non è il caso di arrivare subito alle conclusioni, in una serata come questa. Abbiamo tutto uno splendido  tramonto da consumare, da questa terrazza incomparabile sospesa sull’agonia del giorno.

Sembra quasi che il sole si tuffi soltanto per noi.

E, in fondo, è proprio così. Il nostro crepuscolo si può vedere solo da qui, venti metri più in là è già altra cosa, una visuale di categoria inferiore e, comunque, non c’è nulla di accessibile lungo un raggio ben più lungo di venti chilometri da qui.

I ricchi hanno diritto ai posti migliori, ovunque.

Ma sto divagando.

I primi anni della mia vita non furono felici, sai. Neanche i secondi, se è per quello.

Mia madre mi partorì in quella baracca che chiamavamo casa, sullo stesso pagliericcio che aveva assistito al concepimento e alla nascita dei miei sette fratelli e delle mie quattro sorelle, e all’andirivieni di numerosi padri.

Adesso non farti un’altra opinione sbagliata; anche se lo sembra, non è una storia lacrimevole; finisce bene, per me.

L’amica che aiutò la mamma a farmi venire al mondo era una donna povera anche lei, e molto bella.

E’ strano, perché i poveri non hanno tempo per coltivare l’estetica, ma lei era avvenente a dispetto della sua indigenza. 

Mi afferrò, tagliò il cordone ombelicale e mi diede a mia madre sorridendo: “E’ un altro maschio”

La mamma mi guardò e non seppe trattenere un moto di repulsione: “Come è brutto!”

“Non ti preoccupare, sono sicura che, crescendo, diventerà bellissimo.”

Si sbagliava. O forse mentiva per bontà d’animo.

Immagino che tu penserai che questo dialogo mi sia stato riportato, e invece no.

E’ curioso, eh?

Per quanto sembri improbabile, io ho ricordi precisi della mia nascita, come se, all’improvviso, si fosse accesa una luce sul mondo, dissipando la tenebra liquida che mi aveva protetto, fino allora, dalla consapevolezza di me.

Sta di fatto che io pensai: “Volesse il cielo che diventassi bello come te!”

E la mamma lo disse alla sua amica, con le stesse parole precise: “Volesse il cielo che diventasse bello come te!”

La mia levatrice si mosse per farmi una carezza, inciampò nel pavimento sconnesso, batté il bel  viso su uno spigolo  del comodino che aveva il ripiano protetto da un rettangolo di vetro.

Forse il ripiano era già venato. Si aprì del tutto e la deturpò perennemente, rendendola guercia dall’occhio destro.

Un disgraziato infortunio, quindi, accompagnò il mio debutto nella società dei mortali.

Mia madre e i miei fratelli ne furono molto dispiaciuti; prestarono alla poveretta i primi soccorsi, chiamarono un’ambulanza e, nella confusione che seguì, io fui abbandonato per alcuni minuti, avvoltolato nei poveri  panni che servivano a riscaldarmi.

Avevamo un cane. Anzi, la mia famiglia lo aveva. Anzi, non è che lo avesse proprio, Nick era un grosso randagio bastardo, fetente e spelacchiato, che faceva da spazzino agli scarsi resti dei pasti dei miei cari e di altri sventurati, abitanti quella specie di favela, e perciò la sua fame non si saziava mai.

Era, lo seppi dopo, un bestione indistruttibile, prodigioso incassatore di calci e bastonate, con una dentatura capace di sgretolare ossa di bue, legno, plastica, qualunque cosa il suo stomaco formidabile fosse in grado di digerire.

E il suo stomaco mirabolante forse non si tirava indietro nemmeno di fronte al metallo.

Questo fenomeno della razza canina era capace di entrare in ogni recesso, di superare qualsiasi barriera e aveva un fiuto allenato a percepire ogni più piccola particella odorosa di plausibile cibo.

Inevitabile che l’attirasse l’odore del sangue, e che mi scoprisse, povera bestia, come un succulento boccone di tenera carne fresca, confezionato apposta per lui.

Se quello sciagurato quadrupede avesse potuto piangere di commozione, sono certo che l’avrebbe fatto.

Mai, in tutta la sua vita, gli era stato offerto un pasto tanto sontuoso.

Mi si avvicinò in punta di zampe, con una sorta di rispettosa eleganza, come se fosse conscio dell’importanza del momento.

Io ero così piccolo ed ingenuo, allora; ricordo che non ne ebbi paura, anzi, quando snudò le zanne mi parve quasi che sorridesse e ricordo che pensai: “Che bel cagnone! Voglio tenerti con me per sempre.”

Gli occhi concupiscenti gli si fecero, d’un tratto, opachi, e le labbra ricaddero sui denti come se fossero state appese a un filo tagliato di colpo.

Mi parve che il suo ultimo sguardo fosse stupito, o forse deluso dalla crudele inopportunità dell’accadimento.

Uggiolò. Sparò una lunga, tonitruante  scoreggia, e si afflosciò a terra come un palloncino sgonfiato.

Morto stecchito.

Ebbi come un brivido di inquietudine, ma lo scambiai per il dispiacere della perdita repentina di un possibile compagno di giochi, caduto sul campo senza aver avuto nemmeno l’opportunità di cominciare a giocare.

Riflettei sul fatto che quella mia vita appena cominciata, mi sembrava già scortese e mal disposta nei miei confronti, ma ero un pargolo ottimista, e con un bell’urlo di gioia scacciai i cattivi pensieri.

Crescendo, però, non potei fare a meno di notare quante  e quanto strane  coincidenze  si verificassero in mia presenza.

Certo, ci sta che uno degli amici di mia madre abbia scoperto all’improvviso una rarissima allergia ai latticini, mai evidenziata prima, quando, cercando di farmi digerire una poppata, colpito da un mio rigurgito neonatale, ne risultò ustionato come da un getto d’acido, ricoprendosi istantaneamente di macchie rosse e soffrendo di un immediato edema della glottide, un gonfiore veloce e invadente che rese indispensabile la tracheotomia, tra l’altro, non perfettamente riuscita, con esiti disastrosi per le sue corde vocali.

Ricordo, tuttavia, che, momenti prima, mentre mi batteva dolcemente tra le scapole, dicendomi: “Su, su, piccolo mostriciattolo, fa’ il ruttino, così io e la tua mamma possiamo spassarcela un po’.” Ricordo che, nonostante la pancia mi dolesse, facendomi strillare, io, colpito dalla virile profondità del suono, avevo formulato un muto apprezzamento: “Che bella voce che ha quest’uomo!”

Fu un vero peccato che, nonostante anni di esercizi, da quel giorno il suo eloquio, diventato avaro,  somigliasse a un gracchiare faticoso e roco.

E, quando acquistai l’uso delle gambe e della parola, gli eventi rimarchevoli si moltiplicarono.

La nostra baracca stava in pianura, in una periferia attraversata da strade che tiravano via dritte, tracciate dalla speranza di un altrove meno grigio e disperato.

C’era, vicino, un prato mai verde e un albero conficcato in esso, sempre scheletrito.

Neanche parevano appartenere al regno vegetale, ricoperti com’erano di polvere e tristezza.

Eppure, un giorno, su quell’albero ai margini di quel prato, separato da un muraglione solo dallo sferragliare di pachidermi ferrosi sulla loro pista inesausta, un uccello fece il suo nido e depose le sue uova.

Noi bambini ce ne accorgemmo subito e, da quel momento, i più piccoli al seguito dei più grandi, andavamo spesso a vedere il prodigio della natura che non voleva rassegnarsi ad abbandonare quel pezzetto di terra vilipesa alla sua malasorte.

Stavamo lì sotto a osservare, in compunto silenzio, la fatica della vita che si voleva rinnovare ad ogni costo, grazie alla protezione delle fragili ali di quel batuffolo pulsante che attendeva. 

Anche noi attendevamo.

E quando, una domenica mattina, trovammo finalmente gusci rotti e testine pigolanti, la felicità esplose, subito trattenuta da una sorta di religiosa devozione, come fossimo al cospetto dell’epifania di un miracolo in cattedrale.

Fu allora che i nostri sguardi innocenti si riempirono di un altro, sorprendente dono.

Fu quando esclamai: “Belli ccellini!” pensando a quanto sarebbe stato meraviglioso vederli crescere, giorno per giorno, fino al primo volo.

L’aquila comparve, come dal nulla.

Impensabile un rapace in quella periferia insolente; una distesa suburbana, piatta senza misericordia, che aveva quasi le stesse probabilità di ospitare una caccia d’ala e artiglio e la visita dell’unicorno.

Ma quell’aquila inopinata piombò sul nido come un castigo divino, lo distrusse, lasciando solo, spenta l’eco dell’ultimo strido, ciuffi di stecchi, e lanugine di piume a danzare lenta nell’aria; poi mi guardò, ne sono sicuro. E un attimo dopo tornò nell’inferno celeste da cui proveniva.

In seguito la mia povera famiglia si avviò a un sensibile miglioramento delle sue condizioni.

In realtà non era difficile migliorare una situazione così compromessa, bastò che l’ultimo degli amici di mia madre fosse uomo di quel poco cuore sufficiente a concepire un’attrazione non  guidata esclusivamente dalla bacchetta di rabdomante che avevano gli altri tra le cosce.

Andammo quindi a vivere in un quartiere appena più decente, e alcuni di noi trovarono la loro strada.

Restammo con mia madre in quattro, due sorelle e due fratelli, i più piccoli.

La mia vita però continuava a subire i colpi di un fato che sembrava accanirsi contro chi mi stava vicino, risparmiando solo i miei famigliari.

Fu forse la circostanza in cui un gatto nero morì, pubblicamente, nel momento stesso in cui incrociò il mio cammino, schiacciato da un’auto che non avrebbe dovuto trovarsi lì, in un bugigattolo di vicolo chiuso al traffico.

Il destino a motore lo spianò, un attimo dopo la mia frase scherzosa rivolta agli amici sul marciapiede opposto: “No! Un gatto nero che mi attraversa la strada! Che sfortuna!”

Potrebbe aver contribuito l’ascolto delle mie valutazioni sulla bonaria clemenza del tempo, udite un paio di volte, forse tre, da alcuni ragazzi,   in occasione di scampagnate o gite scolastiche, appena prima che scoppiassero, subitanee violente e imprevedibili, autentiche tempeste tropicali, con scrosci di acqua, vento e fulmini inusitati alle latitudine nostrane.

In ogni modo,  sul mio conto, le voci si moltiplicavano.

Quelli citati, però, erano fatterelli banali, tutto sommato spiegabili nella loro dinamica semplice; ciò che li trasformò in segnali agli occhi altrui fu la loro frequenza e la voglia di leggenda, tanto più grande quanto più una comunità è sprovveduta e indifesa.

L’insieme cospicuo delle concomitanze bizzarre, elaborato e condito, produsse quindi il sostentamento della mia prima fama.   

Forse, il colpo di grazia lo diede  l’incidente insolito che distrusse la vettura nuova del ragazzo più invidiato del quartiere.

Credo che l’avesse appena ritirata dalla concessionaria di proprietà di suo padre, quando ci passò davanti, a me e alcuni compagni, suscitando commenti rancorosi..

Non accadde nulla quando Paolo disse: “Che culo che ha quella merda di Luigino!”

Né quando Giacomo rincarò la dose: “Quell’affare vale almeno cinque anni dello stipendio di mio padre. Sai quante donne ci tirerei su! E allo sbruffone piace solo farsi vedere in giro per il quartiere.”

Neanche allora accadde nulla.

Invece la betoniera, che precedeva l’invidiabile Luigino, inchiodò e, tamponata, svuotò in un batter d’occhio il suo pesante carico di cemento sul cofano già fumante della fuoriserie, solo un secondo dopo la mia decisa affermazione: “Dite quel che volete, però quella è una gran bella macchina!” 

Bé, sì, capisco anche che tu lo possa trovare divertente.

Il lato più buffo della faccenda si riesce a vedere, in genere, quando non capita a te.

Ma ti assicuro che questa storia ha condizionato pesantemente i miei rapporti umani.

Gli amici erano ormai un problema per me, e io lo ero per loro.

Nessuno mi confidava pene o aspirazioni, per paura che io esprimessi una valutazione o un augurio.

E, d’altra parte, come avrei potuto dire a uno studente che l’interrogazione sarebbe andata bene senz’altro, senza sentirmi responsabile della sua probabile catastrofe; come avrei potuto rincuorare un innamorato tradito col trito luogo comune chiodo scaccia chiodo, senza rischiarne la crocifissione; o gioire insieme a un giovane asso del pallone per il suo ultimo goal, magari apprezzando il suo sinistro esplosivo, senza temere che quello stesso arto potesse andare in frantumi nella partita successiva?

Immagina poi la mia fortuna con le donne.

Se già la realtà non mi aveva elargito fascino, la mia mitologia mi rendeva praticamente un appestato.

Quando gli ormoni urgono, non è bello desiderare di sfiorare un seno acerbo e vedere che quello stesso seno  è già stretto tra le mani della sua proprietaria, in un  gesto apotropaico di disperato scongiuro.

E così divenni sempre più cupo e taciturno.

Immagina: brutto, cupo, taciturno e con la patente di portarogna. E, a differenza del Leopardi, senza nemmeno il conforto di Euterpe.

In definitiva, la mia adolescenza e la giovinezza  furono una via crucis di solitudine, segnata da stazioni di accadimenti funesti.

Nemmeno gli studi, in cui eccellevo, compensavano le assenze delle agognate stupidaggini che mi erano precluse e, d’altra parte, neppure mi piaceva particolarmente lo studio; avevo solo molto tempo a disposizione.

Le mie emozioni di carta erano tuttavia solitarie e smunte, e valevano a stento il prezzo delle pagine su cui altri le avevano scritte.

Io le avrei cedute  volentieri in cambio di una sola viva, nuova e condivisa.

Ebbi perfino pensieri suicidi, non mi vergogno a dirlo.

Quel che cambiò del tutto il corso della mia esistenza accadde passati i vent’anni.

C’era una ragazza. 

Oh, c’è sempre una ragazza. Ed è sempre bella.

Sapevo bene di non avere speranze con lei e mi struggevo di desiderio e autocommiserazione.

Lei spasimava per uno. Uno bello, intelligente, affascinante.

Insomma, una carogna integrale, anche tralasciando il fatto che io mi rodevo per la gelosia.

Una sera seppi che ci sarebbe stata una festa, una delle tante che si tenevano a casa di Tizio o di Caia, una di quelle faccende tra ragazzi, dove magari si beve un po’ e si trova il coraggio per qualche bacio meno casto, una di quelle occasioni in cui si impara che cosa si è e quanto si vale senza l’ingombro degli adulti; insomma uno di quegli eventi a cui non mi veniva mai proposta la partecipazione.

Spiavo.

Quando accadeva, a casa dicevo che anch’io ero stato invitato e mi piazzavo nascosto in un bel punto di osservazione, in strada, o vicino al giardino, perfino appeso ad un traliccio, e guardavo chi entrava e chi usciva, raggranellavo emozioni riflesse come fossero briciole di un pasto sontuoso cadute dalla tavola.

Quella sera lei arrivò con lui, e con lui uscì prima della fine della festa; li seguii, non visto, finché non sparirono oltre la porta di un magazzino abbandonato da anni.

Lungo il breve tragitto, lei sbandava vistosamente e si appoggiava a lui ridendo; rischiò più volte di cadere.

Aveva esagerato a vuotare bicchieri, che sospettai riempiti con astuta premeditazione.

Mi avvicinai e sentii, dopo poco, dei rumori soffocati, dei lamenti, un ansimare doppio, poi un singolo pianto sommesso.

Avrei voluto intervenire, ma non sapevo se la mia partecipazione sarebbe stata ben accolta almeno da un componente della coppia. Non avevo esperienze in materia. E, in ogni caso, lei consenziente o meno, avrei potuto fare ben poco per impedire ciò che, confusamente, avvertivo.

Il ragazzo era una montagna di muscoli veloci.

Trascorsero i minuti più lunghi della mia vita, mentre mi maceravo vigliaccamente in un dilemma che non avrei risolto.

Poi lui uscì, sistemandosi i pantaloni.

Quando fu lontano, mi affacciai sulla soglia, col cuore che menava colpi per uscirmi dal petto, e quella che vidi, alla bassa luce della luna fu, inequivocabilmente, la vittima di uno stupro.

Tu ora pensi che fosse la mia occasione.

Basta entrare, aiutarla, accompagnarla a casa o all’ospedale, condividere la sua pena o il suo silenzio, rendere  testimonianza, se lo vorrà, per acquisire meriti ai suoi occhi.

Ma io non ero nelle condizioni di fare niente di tutto questo.

Se fossi entrato, lei probabilmente avrebbe urlato, sarebbe fuggita, e magari, chissà, avrebbe potuto perfino accusarmi per il delitto dell’altro. Sarei stato un colpevole certamente più credibile; perfino i suoi stessi occhi gonfi, complice la confusione etilica, sarebbero stati lieti di sbagliarsi nel designare l’autore del crimine.

E, se tutto questo fosse accaduto, nessuno avrebbe dubitato della mia violenza e magari, col tempo, anche lei si sarebbe convinta di aver fatto e ottenuto giustizia.

Dici che avrei dovuto correre il rischio? Forse. Ma non lo feci.

Rimasi nell’ombra e attesi finché non la vidi alzarsi e camminare, storta e stracciata, verso casa.

Sapevo che, l’indomani, Jack Lo Stupratore, avrebbe costituito la colonna portante della squadra di pallavolo della scuola, finalista nel campionato studentesco.

Non dubitai neanche per un attimo che si sarebbe recato a fare il suo dovere, per la gloria sua e dei propri compagni.

Così fu.

Il ragazzo giocò una partita magistrale, era davvero un atleta fantastico. La sua squadra vinse e lui fu portato in trionfo.

Attesi sugli spalti (che si vuotarono in fretta, soprattutto nelle mie immediate vicinanze) il tempo giusto per permettergli di togliersi la divisa e cominciare a rilassarsi sotto la doccia, ed entrai negli spogliatoi, vestito di nero come un angelo vendicatore.

Sì, lo ammetto, fu un ingresso un tantino teatrale, con occhiali scuri e tutto.

Al vedermi, i lazzi dei giovani agonisti morirono sulle loro labbra, le mani scattarono ai rispettivi inguini, calò un silenzio assoluto e, per la prima volta, godetti del rispetto e del timor panico che la mia figura, visibilmente, provocava.

Mi guardai intorno lentamente, poi feci tre passi e aprii deciso la porta a vetri della piccola cabina.

Jack Lo Stupratore sbarrò gli occhi, mentre piccole goccioline di rimbalzo colpivano le mie lenti scure, e il vapore mi annebbiava la vista.

Tolsi lentamente gli occhiali e lo guardai fisso.

“Volevo complimentarmi con te. Una partita davvero superba. Sono certo del tuo luminoso futuro. Lo meriti. –poi spostai lo sguardo in basso-  E complimenti anche per il tuo batacchio, raramente ho visto un tipo così ben dotato. Chissà quante ragazze farai felici con un arnese così!”

Si ammalò di tumore ai testicoli nel giro di un mese.

Per guarire guarì, dopo molte cure e molte sofferenze, ma uno dei suoi ninnoli gli fu amputato e l’altro avvizzì.

Non poté mai più praticare sport alcuno e divenne un grasso rottame, assolutamente impotente.

La mia carriera cominciò lì.

Cominciò quando capii che possedevo un talento davvero singolare e che la sfortuna degli altri  poteva diventare la mia fortuna.

Da allora ho affinato il dono, e adesso la situazione è radicalmente cambiata.

Viaggio molto. Mi piace viaggiare, per lavoro e per diletto; nei posti dove vado le persone non hanno quasi mai il tempo di conoscermi a fondo e, se ce l’hanno, poi manca loro la possibilità di diffondere informazioni.

Questo è un grande vantaggio, sai. Specie con le donne.

Ora credo che ti domanderai perché tutte queste cose, così intime, se vogliamo,  le racconto proprio a te, che neanche mi conosci.

Ti avrò fatto l’effetto di uno squilibrato, di uno sfacciato seccatore, nella migliore delle ipotesi.

Eppure il motivo c’è, ed è molto semplice. Qualcosa ci unisce.

Per essere precisi, si tratta della tua foto e del tuo dossier, trasmessi nella mia casella riservata, quella dedicata ai contratti.

E ritengo ci uniscano anche i miei committenti che devono essere i tuoi più acerrimi nemici.

Credo che sia superfluo parlarti del mio attuale mestiere, quello che mi ha reso così diverso dal reietto che ero.

In definitiva, sono riuscito a comprendere il mio talento e l’ho messo a frutto. Sembra facile, ora, ma è stato un autentico colpo di genio che mi ha mostrato l’ampiezza delle mie potenzialità.

Tu capisci, ho fatto del mio handicap il mio punto di forza, la mia salvezza, e adesso sono il migliore.

Nessuna arma per uccidere, a meno di non considerare armi i pensieri, o le parole.  Nessun rischio.

Nessun giudice sarebbe disposto a crederci. E comunque non esiste il reato d’opinione.

Dunque, eccoci qui. Il sole sta incendiando il mare e la mia storia è terminata.

Temo che tu possa dire altrettanto.

Ti auguro il meglio, dal profondo del cuore, il prima possibile.

E riguardati, mi raccomando. La tua è un’età pericolosa.


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