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Capitano Coraggioso

di Giovanni Barlocco
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Pubblicato il 02/01/2015 15:26:36

Sorrisi. E braccia agitate dall’alto e dal basso.

Respiro gli odori che intridono l’aria. Sono sempre gli stessi, familiari, eppure più intensi, come se si adoperassero per trattenermi in un ultimo abbraccio fragrante.

Ma è solo uno scherzo del mio olfatto nostalgico, acuito dalla lontananza incipiente.

La nave si stacca dal molo; lenta, e imponente più di una cattedrale, si allontana dalle case affacciate sul porto; vicine l’una all’altra, nella malinconia del tramonto, sembrano ragazze stanche, sedute in fila alla fine di un ballo.

Appoggiato al parapetto di poppa del ponte più alto, sorrido e saluto anch’io, come se lasciassi qualche affetto a terra.

Sono tra tanti, uguale a loro; come loro, si direbbe, porto il mio bagaglio di sogni in vacanza su quest’acqua danzante,  e splendente dei riflessi della grande nave, che adesso saluta il porto con la sua voce profonda di lusca.

Il battito delle macchine pulsa come un cuore immenso ma, credo, lo avvertiamo in pochi. Quasi tutti hanno altro a cui pensare, eccitati e gioiosi per una partenza che li porterà a scoprire altre spiagge incantate e case di legno e paladares  e rum e ragazze e ragazzi e salsa e son e habanera, prima del ritorno.

Lentamente il ponte si svuota.

I turisti si preparano alla cena, cercano, nelle cabine eleganti, il vestito adatto all’occasione, che potrebbe servire anche dopo, in discoteca o al casinò, o al teatro o al bar.

O forse no.

Più probabilmente, si cambieranno di nuovo d’abito, perché sono in crociera, e hanno a portata di mano,  in una notte, tutti i loro parchi giochi, uno vicino all’altro; posti che, a terra, ne basta uno per sera.

E allora anche cambiare se stessi fa parte del divertimento, dà l’illusione che la gente non sia mai la stessa, che il paradiso sia più lungo di trecentocinquanta metri, più alto di sessantacinque e, soprattutto, frequentato da molte più anime elette di quelle che hanno pagato il biglietto.

Sono rimasto solo, adesso, a guardare le luci già lontane della città e la schiena scura della mia isola bagnata dall’oceano.

Rigiro tra le dita la cartolina, mentre penso che, tra quindici giorni, quando tutti arriveranno a casa e ritroveranno il divano di pelle o di velluto, il televisore e il gatto, e dormiranno nel loro letto come tornassero al nido, eccitati dal primo volo,  io sarò soltanto all’inizio del viaggio.

Non va bene così. Non si deve notare la differenza. Devo mischiarmi e confondermi.

Mi volto verso le luci più vicine e più forti, prendo un respiro, apro la porta e affondo le scarpe nella moquette soffice del bar.

Il cuore metallico del mostro, qui, batte molto più piano, sopraffatto dalla canzone sussurrata da impercettibili bocche elettroniche, dissimulate nel lucido controsoffitto

Mi accosto al bancone e ordino un cocktail dal nome di donna.

Troverò il modo di parlare, anche se non si deve, di sapere.

Ho pazienza. E il tempo, Signore, mi dovrà bastare. Me ne dovrai concedere ancora un po’, mi accontento di poco.

Metto la mano nella tasca della giacca e accarezzo, ancora una volta, il suo nome.

 

E’ l’alba quando mi sveglio.

Scendo dal letto, tiro la tenda e faccio scorrere la vetrata che mi separa dal balconcino a picco sul mare.

Respiro profondamente e mi lascio accarezzare dalla brezza salata che precede l’ascesa del giorno.

Tutto è silenzio, tranne il tumulto dell’onda di scia, quaranta metri sotto di me, e il ritmo profondo  e sommesso che dà  vita allo scafo.

Ho fatto tardi, ho dormito poco. Ma non sono stanco. Complice l’alcool, sono riuscito a confondermi con un gruppo di passeggeri a cui ho raccontato la mia storia inventata, quella che mi aiuta a non destare sospetti: figlio di fuoriusciti cubani, emigrato in Europa, assunto in una ditta che importa rum dai caraibi, diventato manager, in pensione da un anno, vedovo da due, sto facendo un giro di piacere in posti che, da giovane, non mi potevo permettere e che, da adulto, ho sorvolato un paio di volte con desiderio.

E’ una recita che posso sostenere. Mi sono preparato bene su Milano, sede della mia azienda immaginaria, scelta perché so che nessuno dei passeggeri di questa nave è italiano; inoltre i crocieristi americani sono più interessati alle atmosfere esotiche, e io, di Cuba so parecchio, “grazie ai racconti dei miei genitori e dei miei poveri nonni.”

Lei non ce l’avrebbe fatta, a diciannove anni, a mentire così bene sulla sua vita, avrebbe corso rischi più seri dei miei e, soprattutto, avrebbe avuto molto di più da perdere.

Rimango a lungo sotto alla doccia, sperando di attenuare il mal di testa. Mi dico che le cose si stanno mettendo bene, anche se non ho un piano preciso per i prossimi giorni.

Del resto, non avrei scommesso un peso sui miei documenti falsi, e invece, eccomi qui.

Mi riprometto di scendere da questa nave con le informazioni che mi servono, anche se non sarà facile, anche se la segretezza assoluta era la prima delle condizioni del suo imbarco.

“Dovrai cancellare tutto quanto. Riceverai una cartolina al suo arrivo. Da quel momento in poi, sarà come se non fosse mai esistita.”

Sono cambiate molte cose, da allora, e quel patto non lo posso più rispettare.

Adesso, morto Miguel, c’è solo il capitano che mi può aiutare, e so già che non vorrà farlo.

Lo capisco. Per poter pagare il prezzo del suo biglietto, alcuni di noi hanno  venduto tutto ciò che avevano, compresa la dignità, ma quel prezzo paga l’impagabile e quell’uomo non rischia solo la carriera. Quell’uomo, sia benedetto  il suo nome, fa un lavoro segreto molto più pericoloso del suo, e molto più importante.

Cuba perseguita i suoi figli ribelli, e chi aiuta la loro fuga è un nemico.

Cuba è meravigliosa, ma è una dittatura che ha carceri buie arroventate dal sole,  e povertà, e pene severe per i dissidenti.

La gente libera guarda il nostro mare e si addormenta e sogna, e fa in fretta a dimenticare. Forse è il sole, forse è la nostra musica che impedisce loro di udire le grida.

Ma tutto questo ormai, per me non ha più importanza.

Io non tornerò, non potrei più farlo neanche se volessi, non c’è più niente che mi trattiene.

Il mio destino è segnato, e lo è anche la mia strada che ancora non conosco. Ma ne conosco la fine.

Mi vesto. Ho speso buona parte dei miei ultimi risparmi e della colletta, per un guardaroba credibile, ma non devo tralasciare alcun dettaglio se voglio diminuire i rischi di insuccesso.

Su questo grande albergo galleggiante è possibile trovare tutto a qualsiasi ora. Non è troppo presto per fare colazione. E nuove amicizie.

 

Ho trascorso la giornata in compagnia di un macellaio di Dallas e della sua giovane moglie.

In realtà, Jo ha cominciato come macellaio ed ora possiede una quindicina di negozi dove altri sgobbano per lui.

Ha sessantatre anni e ha fatto fortuna con le bestie argentine, ha inventato, mi ha detto, un tipo particolare di hamburger, una miscela segreta di carne macinata e spezie che ha decretato il suo successo e gli ha permesso di impalmare, in terze o quarte nozze, una splendida trentenne, dalle curve forse non del tutto autentiche, alla quale dava grandi manate sulla coscia, mentre mi raccontava, come se si trattasse di sottolineare la qualità di un quarto di bue.

Jo non è il mio tipo, però sembra ben introdotto a bordo; le sue macellerie sono avviate e gli lasciano parecchio tempo libero, così lui spende in crociere i soldi che gli restano, soddisfatte le esigenze vitali e i capricci personali della sua graziosa vitellina.

Gli ufficiali della nave lo chiamano per nome, quando lo salutano, e lui sostiene che il capitano sia un suo buon amico.

Su questo ho qualche dubbio.

Il comandante della nave è un tipo elegante e serio; partecipa alla vita mondana del suo piccolo impero galleggiante solo lo stretto indispensabile per assolvere ai suoi doveri di ospitalità.

E’ un uomo affascinante, e misterioso anche per me, che pure conosco parte del mistero.

La sua figura alta e asciutta, la sua voce profonda, la sua misura, incutono una certa soggezione

Non ce lo vedo a fare a pacche sulle spalle col texano.

Ma Jo sostiene che, nelle due precedenti  traversate caraibiche, ha cenato almeno una volta con lui e pochi eletti, nella sua sala da pranzo privata. Siccome gli sono simpatico, promette che quando riceverà l’invito mi porterà con sé.  

Questa è una cosa positiva. Una conoscenza ottenuta tramite i buoni uffici di un normale passeggero non  desterà sospetti e dovrebbe dare al capitano la certezza della mia cautela.

All’ora dell’aperitivo, ai tavoli esterni dell’ Hemingway, uno dei tre bar del ponte più alto, ci raggiungono altri “amici”.

Tra le donne la gara è a chi mostra più pelle levigata e scura, tra i maschi comincia il solito match a chi resta in piedi per ultimo, che decreterà il vincitore solo a notte inoltrata, quando tutti gli altri finiranno knock out in un letto, o su qualche divano finché un cameriere servizievole li accompagnerà in cabina.

Mi do da fare anch’io; le mie consuetudini mi aiutano, ma bevo comunque molto meno di quanto sembra e impasto la voce e sghignazzo molto di più di quanto mi obblighi l’alcool trangugiato.

Pamela, la moglie di un esperto finanziario di Chicago dallo sguardo sfuggente e dall’incipiente calvizie, mi fissa con occhi liquidi, e sbatte le palpebre un paio di volte.

Mi sorride in maniera un po’ troppo insistente. Suo marito non si accorge di nulla, già sulla strada della sconfitta alcolica.

Lei ha almeno la metà dei miei anni, ma la capisco. La sua bella vita, scandita dall’estetista, dalla palestra, da cene insulse a cui accompagna un marito insopportabile, deve essere piuttosto noiosa.

Non sa quanto volentieri io mi annoierei per il resto dell’esistenza.

 

Sono qui da quattro giorni. Ho partecipato a feste, cene, partite a carte ed escursioni, navigando mollemente su un mare dagli approdi bugiardi.

Le coste delle isole su cui sbarchiamo e che non abbiamo il tempo di percorrere fino al cuore, hanno l’aspetto voluto dagli scenografi bianchi, sono fondali di cartapesta che, sovente, nascondono povertà ossequiose.  

Sulla nave, ormai, mi conoscono in molti, e tanti mi salutano, mi invitano al loro tavolo, mi propongono di accompagnarli nel giro turistico delle spiagge di Antigua o nella salita al vulcano di St. Lucia o negli acquisti di spezie nei mercatini di Guadalupe.

Anche l’equipaggio ha cominciato a riconoscermi, e siccome io cerco di non essere noioso e importuno, ho risate contagiose, e elargisco giuste mance, le donne e gli uomini che sono qui per lavoro mi sorridono spesso e volentieri.

Sono riuscito, insomma, a rendermi abbastanza popolare, almeno quanto basta per essere una presenza familiare nelle mie passeggiate sui ponti e nel mio girovagare per i locali, e una compagnia gradita con cui scambiare quattro chiacchiere seduti sulla sdraio intorno  a una delle cinque piscine.

Il capitano è ancora distante, però; gentile con me come con tutti nelle sue rare apparizioni, ma mai a portata della voce bassa che serve per un segreto condiviso.

“Pepe! Ehi, Pepe!”

Non faccio in tempo a muovermi che una mano pesante mi cala tra le scapole.

Il macellaio texano mi afferra per le spalle e mi sbuffa in faccia il fumo del suo sigaro. Mi volto e vedo la mia faccia riflessa nei suoi grandi occhiali a specchio  Puzza di sudore e di crema solare al cocco, indossa una camicia hawaiana sgargiante che svolazza fuori dai suoi pantaloni corti.

“Ti cerco da un’ora. Che cosa ci fai qui, tutto solo? Vieni a bere una cosa con noi, siamo intorno alla piscina di prua.

Poi pranziamo insieme, ci rilassiamo e ci prepariamo alla serata.”

Si ferma e ammicca. Vuole sentirselo chiedere. “Che serata? “ Gli domando.

“Cena privata con il comandante. Che cosa ti avevo detto?”

Il suo sigaro mi soffoca, ma il mio sorriso è sincero.

“Sei contento, eh? Lo capisco. E’ il tuo debutto in società. Vestiti bene e mantieniti sobrio.”

Sghignazza e mi dà altre due manate sulla schiena.

“E adesso, vieni a farti un tuffo, e se hai paura dell’acqua, c’è sempre il Margarita.”

 

La sala sembra appesa al tramonto con un filo.

Architetti sapienti l’hanno ricavata in uno spazio a lato della plancia. Aggetta sul mare ed è un semicerchio di vetro contornato da una balconata  che mantiene i suoi ospiti invisibili dagli altri punti della nave.

Dentro, la musica di Chopin è solo un sottofondo, che risalta, tuttavia, stagliato contro un silenzio privo persino dell’onnipresente ritmo cardiaco del grande cuore d’acciaio.

Mi stupisce un po’ verificare di persona la confidenza che c’è davvero tra il capitano e il macellaio, che mi presenta, ed introduce anche l’esperto finanziario e la moglie annoiata, e un’altra coppia, lei manager, lui avvocato, di Boston.

Viene servito l’aperitivo e, con esso, si dà avvio a una conversazione formale che il comandante della nave conduce con affabile abilità.

Le mie dita corrono alla cartolina che mi brucia nella tasca della giacca scura. Cerco coraggio e ispirazione, mando giù un altro drink, sperando che qualcosa si sciolga nell’atmosfera che separa me e lui.

Non credo che sia il momento giusto per parlargli, ma lo è per rendermi meno anonimo ai suoi occhi, per diventare una presenza conosciuta, un ospite da non tenere fuori dalla porta. 

Ci sediamo a tavola.

Il cibo è ottimo e raffinato, e anche l’affiatamento tra i commensali migliora. Gli altri sembrano addirittura trovare spiritose le battute del texano, o forse è la sua rozzezza che li diverte. Fingo di associarmi alla loro allegria e, un paio di volte, incrocio lo sguardo del capitano. Ho l’impressione  che, in tema di umorismo, la pensi come me e mi sconcerta, una volta di più, la presenza di un individuo tanto volgare al suo tavolo elegante.

Il tempo passa e la cena sta per finire. Una volta di più, è la voce del macellaio a svettare sulle altre, un po’ impastata: “ Ehi! La cena è terminata, ma la notte comincia ora! So che il nostro comandante, che ringrazio per la magnifica serata,  è abituato a andare a letto con le galline; d’altra parte,  lui qui ci lavora;  noi invece siamo in vacanza e preferiamo le pollastre, e quindi, cosa ne dite di fare quattro salti in discoteca? Naturalmente dopo un ultimo brindisi al nostro Cristoforo Colombo. Al comandante! Che possa avere sempre mare buono e venti favorevoli!”

Tutti sollevano il bicchiere verso di lui, che si alza in piedi e, con un breve inchino della testa, solleva anche il suo calice rispondendo: “ E commensali squisiti come voi.”

Ho la sensazione di essere l’unico sufficientemente sobrio da cogliere l’ironia della sua frase, o forse sono solo l’unico che non si sta divertendo.

Il capitano riprende a parlare con gentilezza, come se davvero fosse dispiaciuto  della partenza dei suoi ospiti: “Signori, spero che la cena sia stata di vostro gradimento. Non vorreste assaggiare almeno un goccio del mio rum speciale, prima di andare via?”

Il texano risponde per tutti. “Oh, no, grazie!  Tienilo per la prossima volta, sono pieno come un uovo! Già così, per fare andar giù tutto di salti ce ne vorranno almeno sedici,  e se voglio stare al passo con la mia giovane pollastrella, conviene che mi dia una regolata.”

E’ un’occasione d’oro, e decido di non perderla.

“Io quel rum lo assaggerei, capitano, se non le dispiace. Il passaggio da Chopin alla musica da discoteca sarebbe troppo brusco per le mie orecchie anziane. Le prometto  di togliere il disturbo in fretta.”

“Ci mancherebbe! Sarà un piacere. Bere da soli è molto meno bello che in compagnia.”

In pochi minuti, gli altri sgomberano il campo, il capitano fa abbassare le luci,  e la sala, privata del chiacchiericcio delle donne e del vociare insulso dei loro maschi, diventa una bolla magica che racchiude un tesoro di note cristalline.

Un cameriere porta la bottiglia ed esce, ed è il comandante stesso a versare nei due bicchieri due dita di liquido ambrato. Me ne porge uno. Lo prendo, e mi dirigo verso la balconata.

La notte è limpida e calda, appoggio le braccia alla ringhiera e aspiro l’odore del mare.

Il capitano mi raggiunge, e si mette al mio fianco in silenzio.

So che è troppo presto. Non è possibile pretendere che lui si fidi già di me, e un approccio sbagliato rischia di creare danni irreparabili. 

Ma non ce la faccio a tacere, e decido che non posso più aspettare; che questa è l’occasione e non voglio  lasciarmela sfuggire.

Butto fuori tutto, senza esitazioni.

“Non sono quello che tutti credono. E avrei mantenuto il patto. Lei è l’ultima persona al mondo che vorrei mettere in difficoltà. So quanto sia pericolosa la sua missione e l’ammiro moltissimo per ciò che fa.

Per questo sono stato attento a inventare una storia che mi potesse permettere di avvicinarla senza destare sospetti. Mi dispiace, non avrei voluto farlo.

Ma non posso morire senza rivederla.”

Faccio scivolare la mano nella tasca della giacca, le dita mi tremano quando gli porgo la cartolina di mia figlia, quell’unico prezioso segnale a cui ho avuto diritto, la testimonianza della sua libertà.

La guarda, poi fissa i suoi occhi nei miei. “Alicia.-mormora, e la sua voce diventa un sussurro-  E’ vero, non avrebbe dovuto farlo. Lei sta mettendo a repentaglio l’intera organizzazione.”

Mi prende un brivido di freddo, mentre cerco di ragionare se questa risposta sia comunque meglio di uno stupore artefatto.     

E, a un tratto, lui perde tutto il suo distacco e il suo contegno e mi sorprende; mi abbraccia.

“ Ma tu sei il padre di Alicia, e non sai il regalo che mi fai. Le ragazze  e i ragazzi che porto via da Cuba li vedo per pochi minuti, il tempo in cui devo trovare loro un rifugio sicuro sulla mia nave. Non posso parlare con quelle persone, non so nulla delle loro storie e delle loro famiglie, sarebbe troppo pericoloso approfondire, e, a volte, ho l’impressione di essere soltanto un corriere di fantasmi che escono dal buio e al buio ritornano.

Capisco bene che è per la loro sicurezza e per la mia, ma il dolore che spesso hanno negli occhi, per il poco tempo in cui  incrocio i loro sguardi, non lo posso affrontare né lenire. E a volte  mi sembra che rimanga sulla mia nave.

Non conoscere la vita dei fuggiaschi, né prima né dopo, per me  è la parte più difficile della loro fuga.”

Non so se è la mia malattia a rendermi fragile o se sono le sue parole a commuovermi. Gli rispondo:

“Io sono il padre di Alicia, ma tu sei  il padre di tutti quelli che fai rinascere a una nuova vita.”

La bocca gli si piega in una smorfia.“Un padre che nessun figlio potrà  mai riconoscere. Per questo ringrazio dio di aver conosciuto almeno te. Me li fai sentire tutti un po’ più vicini.

Non ti preoccupare per tua figlia. Ti aiuterò a ritrovarla quando saremo in America. Fino ad allora, manteniamo la nostra cautela. Grazie, Pepe.”

Gli stringo la mano. “Non riesco a credere che sia tu a ringraziare me, dio ti benedica, so che non potrò mai sdebitarmi, e non mi chiamo Pepe.”

Il capitano sorride. “Non importa. Resta Pepe, per ora. Mi racconterai di te e di Alicia al nostro arrivo.”

Mi ritrovo sul ponte, per la prima volta con la testa leggera come un palloncino. La speranza ha davvero effetti prodigiosi sulle vite degli uomini.

Prendo a fantasticare sul prossimo incontro con Alicia come se fosse già reale e stabilito, poi vado oltre: perfino come se avessi un futuro di nonno accanto ai propri nipoti, per gli anni a venire che invece non verranno.

Mi ritrovo, a notte inoltrata, su una panchina, in compagnia dei miei sogni e di una bottiglia.

Sembra che tutti dormano, ormai; intorno a me c’è solo il rumore costante del solco d’acqua arato dallo  scafo, mentre la nave avanza sul suo sentiero scaglioso di luna.

Il frangere della prua è una ninna-nanna ed io sono in pace, come non mi accade da mesi. Mi assopisco, ma quando la mia testa crolla all’indietro, mi ridesto di soprassalto. Spalanco gli occhi, per caso  verso l’alto e, affacciata alla balaustra del ponte superiore, la vedo. Mi dà le spalle, forse intenta a fissare il margine scuro del cielo tuffato nell’oceano. Sta fuori dal  luminoso  giallo di un lampione, ma la luce d’argento che bagna la nave mi mostra ugualmente il vestito che indossa; è il suo preferito, a fiori, quello che la fa sembrare l’incarnazione stessa dell’estate.

“Alicia” Dico più a me stesso che a lei. Colgo appena il movimento del suo capo, e subito il mondo si mette a girare vorticosamente, non so per quanto. Ma quando si ferma, l’apparizione è svanita.

Respiro profondamente mentre la chimica del mio corpo, che ha accelerato il cuore,  riesce anche a sbarazzarsi di una buona percentuale del torpore alcolico.

Mi inerpico per la stretta scala che porta al ponte superiore, deserto come lo doveva essere anche pochi minuti fa.

Raggiungo il punto da cui la mia allucinazione scrutava il firmamento. Qualcosa brilla sulle assi del ponte. Mi chino a raccogliere un piccolo orecchino: un vetrino azzurro sfaccettato a cui è appesa una minuscola conchiglia.

Non lo riconosco. Non sembra prezioso. Apparterrà a qualche giovane turista che l’avrà perduto chissà quando, correndo sul ponte, passeggiando con un gelato in mano, o flirtando con il ragazzo che ha scelto per movimentare questa crociera.

Non è di Alicia.

Mi vergogno un po’ della mia visione; la speranza ha anche controindicazioni.

Lo metto in tasca e alzo, istintivamente, lo sguardo.

Sopra di me, verso prua, il balcone e la vetrata semicircolare che ha ospitato la cena col capitano, e la nostra reciproca confessione, sono immersi nel buio.

Lui starà dormendo poco distante, nel suo alloggio; o forse ha già cominciato il turno in plancia.

In ogni caso anche il mio viaggio è finalmente cominciato davvero e, per portarlo a termine, conviene  risparmiare le energie che mi restano.

La stanchezza torna ad aggredirmi e decido di dare retta alle richieste del mio corpo sfinito; scendo la scala, prendo l’ascensore e, un quarto d’ora dopo, mi lascio cadere sul letto.

 

Mi sveglio certo di aver sognato e, tuttavia, non riesco a scacciare dalla mente la nitidezza di quel miraggio notturno.

E anche l’orecchino che stringo nuovamente tra le dita mi lascia perplesso, per la capacità mostrata nello  sfuggire a ramazze solerti, sguardi acuti e innumerevoli paia di piedi.

A meno che non sia stato perduto poco prima che io lo ritrovassi.

Questa idea per un momento mi terrorizza, potrebbe essere stata partorita da una metastasi del mio cervello, così come la visione che l’ha prodotta, eppure non mi sento confuso, stamane, anzi, mi pare d’essere pieno di energie.

In ogni caso, conviene che tenga per me quel che mi è sembrato di vedere. Di una cosa sono sicuro: Alicia non può essere ancora su questa nave.

Mentre mi lavo, percepisco un rallentamento nel ritmo delle macchine e rammento che la giornata di oggi è dedicata alla visita di Barbados.

Jo mi vorrà di sicuro trascinare nel suo tour dei locali caratteristici, forse mi conviene fingere di non stare bene e prepararmi a essere fresco e riposato per questa notte.

Ordino la colazione in cabina e mi sistemo sul balconcino, in attesa. Se il macellaio venisse a bussare alla mia porta, indosserò una faccia sofferente prima di aprire.

Non passa più di un quarto d’ora prima che un tocco discreto  e una voce cristallina annuncino il servizio; apro la porta e aspetto che la graziosa ragazza in divisa apparecchi all’aperto il tavolino in teak.

Le do la mancia e mi accomodo, mentre la costa dell’isola comincia a sfilare alla mia destra.

Faccio a tempo a finire di mangiare e bere prima che la nave cominci le manovre d’attracco.

Di Jo nessuna traccia.

Me ne stupisco un po’; lui e la sua giovane moglie non si perdono un’escursione. Immagino che si stiano preparando per scendere a terra e non abbiano semplicemente voglia di venirmi a cercare. Meglio così.

Assisto all’ormeggio e alla discesa dei passeggeri dalla nave, quelli che posso vedere dal mio punto di osservazione a poppa.

Quando l’ultimo di essi ha messo piede in banchina, faccio passare  una ventina di minuti, per essere ben sicuro che anche dall’invisibile passerella di prua sia scesa tutta la processione, poi esco e mi dirigo alla piscina grande.

Come mi auguravo, non incontro Jo, né qualcuno della sua combriccola.

Mi sdraio al sole con un libro in mano e aspetto che si faccia sera.

 

I crocieristi sbarcati sono rientrati e la nave sta per salpare; sulla rotta di ritorno ci attende meno di una notte di navigazione  prima di arrivare a Martinica, poi toccheremo St, John, St, Croix, e infine,  il lungo salto fino a Nassau, Bahamas, per poi concludere la crociera nella vicina Miami.

Lì comincerà il mio viaggio vero, e non aspetto altro che il momento in cui metterò finalmente piede nell’ultimo porto.

C’è dell’altro, però. Un’impazienza nuova. Ora che ho parlato con il capitano e che posso contare sul suo appoggio non riesco più ad accontentarmi di sognare il momento in cui rivedrò mia figlia.

Voglio sapere di lei, del tanto che mi è stato sottratto anche quel poco che conosce il comandante.

Voglio sapere dove è stata durante la traversata, che parole ha detto, che cosa ha mangiato, se era più triste per l’esilio o  più allegra al pensiero della libertà che l’attendeva.

Non riesco a trattenermi dal desiderare di lei, come se avessi appena assaggiato un frutto delizioso e succulento dopo anni di acqua salata.

Cerco di pensare ad altro.

E’ strano che non abbia ancora visto in giro il texano; alcuni dei suoi amici sono risaliti; poi Pamela, passando di qui, svela il mistero; mi dice che Jo non è sceso a terra , mentre la sua mogliettina se l’è spassata tutto il giorno con loro: sabbia bianca, mare blu, daiquiri fantastici, e bla bla bla, eccetera eccetera.

Pare che il macellaio si sia perso tutta la festa perché non è stato bene, la notte scorsa.

Non ho difficoltà a crederlo: beve come una spugna e mangia come un lupo.

Racconto che anch’io devo aver esagerato con i bicchieri della staffa, e così sono rimasto a impigrire sul ponte.

Lei sembra indecisa sull’opportunità di cogliere l’occasione per coccolarmi, poi forse capisce che il suo insulso e danaroso marito potrebbe  vederla e risentirsi per una tenerezza eccessiva esibita in pubblico; si limita a una carezza e un casto bacio sulla guancia, mi strappa la promessa di cenare al suo tavolo, arriccia il naso, vezzosa, e va via.

Pochi minuti dopo vado via anch’io.

Stasera non intendo fare il giro dei bar, prima di cena. Voglio mantenermi lucido, perché, anche se non so ancora bene come, devo togliermi dalla testa quell’idea che si è piantata in qualche punto del mio cervello come un chiodo, dal momento della mia allucinazione.

 

A tavola, l’atmosfera era strana.

Mancava un po’ l’irruenza volgare del macellaio texano, che ha anche diminuito il consumo di alcool e si è limitato a mangiare le portate, invece che divorarle.

Deve aver preso una bella batosta.

Io ho abbandonato la compagnia e mi sono ritirato in cabina molto più presto del solito, ho cercato di dormire un po’ senza riuscirci, e alle tre del mattino sono venuto qui, a sedermi su un gradino della scaletta, invisibile dal ponte superiore.

Guardo il mare, e guardo in su. Finché nel mio campo visivo entrano due piedi nudi e due polpacci giovani e affusolati, che si dirigono, senza rumore, al parapetto.

Le mie pulsazioni aumentano a tal punto che temo siano udibili dall’esterno. Mi alzo lentamente  e salgo la scala con cautela.

La ragazza non si accorge di me. Sta dove l’avevo vista ieri notte, ma adesso riesco a coglierne il profilo, e non è quello di Alicia. Il cuore rallenta.

Mi incuriosisce, tuttavia, la sua presenza. Sono sicuro di non averla mai incontrata sulla nave, probabilmente è un membro dell’equipaggio che lavora in orari o settori che non ho mai frequentato.

Metto la mano in tasca ed estraggo l’orecchino raccolto sul ponte. Mi avvicino, abbandonando la mia circospezione, lei si volta e rimane,  per un attimo, come paralizzata, con gli occhi spalancati; ho addirittura la sensazione  che smetta di respirare. Le sorrido e le mostro l’oggetto che tengo tra le dita.

“Buonasera, o forse buongiorno, signorina. -sussurro-  Ho trovato qui questo, ieri notte. E’ suo, per caso?”

Non mi risponde. Si volta e schizza via, veloce come una gazzella, sparisce verso prua, lasciandomi basito, ma finalmente certo di non aver sognato e di non essere pazzo.

Provo a seguirla, ma la nave sembra nuovamente deserta.

All’improvviso mi pare di udire rumori, sopra di me: una specie di tonfo soffocato, e lo scatto di una porta.

Alzo gli occhi. Verso prua, per un momento, colgo un breve chiarore.

E allora capisco. E mi domando  come ho fatto a essere tanto ottuso. Quella che ho visto è una delle ragazze che, come Alicia, fuggono in America grazie al coraggio del comandante che le ospita clandestine sulla sua nave.

Per questo la mia presenza ha provocato il panico in quella sventurata.

Domani proverò a parlare al capitano, in modo che la rassicuri e si tranquillizzi anche lui sul mantenimento del nostro segreto.

Mi volto e scendo le scale; indugio un po’, affacciato alla ringhiera, con l’idea di prendere un’ultima boccata d’aria prima di andarmi a coricare, ma, a un certo punto, mi pare di udire una rapida nota stonata nella melodia monotona del mare tagliato; come se la prua si fosse imbattuta nel cavo di un’onda, ma senza produrre sussulti. E, in effetti, quale sussulto potrebbe provocare la navigazione su una scura tavola liscia?

Cambio idea e torno sui miei passi e, più in là, nella direzione in cui la ragazza è sparita.

La catenella che mi trovo di fronte delimita gli spazi riservati all’equipaggio; poco oltre, una porta immette nel corridoio; da lì, una scala e un ascensore conducono soltanto all’alloggio del capitano e alla sua sala da pranzo.

Scavalco facilmente;  la porta non è chiusa, il corridoio, rivestito di moquette, non fa risuonare i miei passi.

Salgo la scala e, proprio accanto alla cabina del comandante, scopro quello che non avevo visto la sera prima.

C’è un pannello, dissimulato nella parete, che adesso noto solo perché non è perfettamente chiuso; è più piccolo di una porta, probabilmente dà accesso a uno stanzino di servizio o a un qualche magazzino.

Mi guardo intorno soltanto un momento prima di chinare la testa ed entrare.

Dentro, il buio è completo. Decido di correre un altro rischio e cerco a tentoni un interruttore.

Lo trovo, e la luce illumina un ambiente squallido, privo di oblò, con tubature a vista sul soffitto e sulle pareti metalliche.

Una brandina disfatta è incongruente, qui dentro, come lo sono un paio di sandali da donna e un vestito abbandonato sul giaciglio.

Mi manca il respiro quando lo riconosco. E’ l’abito che indossava la ragazza misteriosa la prima volta che l’ho vista. E non è simile a quello di Alicia. Adesso che lo stringo tra le dita, mentre un  groppo mi sale alla gola, sono sicuro che sia proprio il suo.

In un angolo del ripostiglio c’è una specie di gavone. Lo apro, e lo scopro pieno di indumenti femminili.

Una serie infinita di pensieri mi attraversa la mente nello spazio di un secondo.

All’improvviso, le voci soffocate di un alterco mi arrivano da qualche parte.

Qui non c’è niente altro da vedere. Prendo il vestito ed esco.

Davanti alla porta della cabina del comandante ascolto ancora sussurri di rabbia trattenuta. Tento la maniglia e la sento cedere.

Entro. Nessuna lampada accesa, all’interno, ma una porta schiusa sulla vasta sala da pranzo, fornisce l’illuminazione che basta, ricevuta dalla balconata.

Due ombre, all’esterno,  appoggiate alla ringhiera, si stagliano contro la luce lunare. E, mentre mi avvicino, le loro parole si fanno più chiare.

“Quella piccola troia aveva trovato il modo di uscire e se ne andava a spasso di notte.”

“Proprio adesso che c’è capitato tra i piedi il ficcanaso, ti rendi conto del rischio che abbiamo corso?”

“Già. E’ tutto il giorno che me lo rinfacci. Però è andata bene. E secondo me tu hai esagerato. Potevamo godercela ancora un po’.”

“No, sei tu che esageri. Prima ti fai menare per il naso dalla mulatta, poi pretendi anche di farmi la paternale perché ci hai rimesso il giocattolo.”

“Mi pare che i miei giocattoli divertano anche te.”

“Sì, ma io non perdo la testa al punto di farmi abbindolare. Tu, invece,  sei ammalato di fica e vai in confusione. In ogni modo, anche il ficcanaso dovrà sparire.”

“Non sono sicuro che sia una buona idea. Potrebbe aver parlato con qualcuno. Potrebbe avere qualcuno che lo aspetta.”

“Ragiona, comandante: è un altro clandestino. Te l’ha detto lui o no, di non chiamarsi Pepe? Farà la fine delle ragazze e nessuno lo verrà mai a cercare.

E del resto, il sistema ha sempre funzionato, giusto? Quelli che sono arrivati di là ci adoreranno per tutta la vita; se ne avessimo bisogno, si butteranno nel fuoco per noi.”

“Intendi i maschi e le femmine brutte?”

“Sono così stupidi da credere di rinunciare al passato per la loro sicurezza e non sanno che così difendono soprattutto le nostre scappatelle.”

State tranquille. Una volta salite sulla mia nave, sparirete nel nulla. Sono sicuro che manterrete il segreto. Per sempre.

Non si può nemmeno dire che non siano state avvertite.”

Ridono. Sommessi e sguaiati, producendo suoni raschiati che paiono rantoli.

Adesso ho capito davvero tutto della mostruosa macchinazione.

Le sventurate che cercano il loro aiuto, se sono desiderate, vengono costrette a sottomettersi alle loro voglie dal miraggio della fuga e dalla paura del ritorno; credono che il prezzo della libertà sia cresciuto a dismisura, e non immaginano che salderanno il conto con la propria vita.

Per il comandante e il macellaio, ucciderle e gettarle in mare è un rischio minore di quello rappresentato dalla loro testimonianza. 

Si salvano quelle che non piacciono e gli uomini, che  serviranno a diffondere per misteriosi canali  le voci della loro riuscita, dando modo a due belve di continuare a cibarsi di carne giovane e lucrare sulla disperazione.

Ora so che cosa era il breve suono diverso dell’acqua. Era il rumore della caduta di un corpo.

Ora so che non vedrò mai più la mia scalza apparizione notturna.

Ora so perché è qui il vestito che la mia bellissima Alicia ebbe da sua madre, e che non avrebbe mai abbandonato.

Mi avvicino di più, lentamente, tenendolo l’abito in alto, come fosse una bandiera.

Il capitano e Jo si accorgono di me quando sono ormai a pochi metri e leggono qualcosa di ineluttabile nei miei occhi; così non tentano di mentirmi, di fermarmi; non parlano nemmeno. Il texano estrae una piccola rivoltella per minacciarmi, mentre il comandante mi balza addosso con le braccia in avanti e le dita protese come artigli.

Non mi interessa fuggire. Non durerei molto comunque, con il cancro che mi divora, e adesso mi resta solo un viaggio da intraprendere. Mi lancio contro i due assassini.

E’ rimasta  un’unica strada per arrivare ad Alicia, e passa di qui.

Capiscono, a un tratto, che non cerco di sottrarmi e i loro occhi sembrano schizzare dalle orbite. Jo spara e mi colpisce, ma non mi frena.

Mi avvinghio a loro, usando le forze residue e il vestito a fiori come fosse una corda. Jo bestemmia e spara di nuovo.

Ma è troppo tardi. Stiamo già saltando.


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