La spinta che diffonde quando è ora
è tutta qui
se nel farsi preghiera muove l'aria
col goccio di saliva trattenuto
dal sogno di stanotte-
sino a rendere pesanti i nostri occhi
come frutti-
maternità tra l'intimo dell'acqua
e la coppa che raccoglie la sua origine-
le terre emerse è Noi. Mio sposo
...la mia Jebel. ti mostro,
i suoi colori
lungo il perimetro dei fianchi,
circondata da due fiumi, una segesta,
mentre scende nella yurta
coi suoi capelli d'oro silenziosa
ti racconto della casa
fatta come il ventre di una madre
con un corpo nomade che viaggia
sulla schiena errante senza chiodi
solo Geni che si baciano a raggiera
e una finestra in cielo pitturata,
una corona e come gioco il giragira:
consonante-vocale consonante-
“Fammi frusciante il Tamashek !
il verso nasale dei Tuareg, con l'ewè,
la lingua dei bambara, eppoi lo schiocco”
ridiamo come stessimo pregando!-
Ti celebro così dentro i paesaggi
come in fondo al vuoto del mio letto
nell’esatta simbiosi della gioia
madre dalla lunga voce-
fango che dorme nella luce
con tutto il silenzio fuori dal torace
della carne, allo scoperto. Amo.
Ciò che nasce non è altro
da questo uccello azzurro nei polmoni
con il dorso carico di latte
“Cosa vedono i tuoi occhi, Aman,
quando vai a fare i fiori..
la porta stretta di una retina dove s'inginocchia il cielo
quando non arriva in cima ? la sua parte di luce
è quel prodigio
fedele all’invisibile
nel rosso della gola fino a sera-
una piaga battuta dal mattino
nell’urlo che viene,
la gemma che cerca
la lingua in un punto,
il suo latte,
solo quello può essere:
una parola che ride-
che viene a morire nel gesto
per disegnare un respiro
riportando il campo di una lacrima
nella radura da cui riparte il filo
che appena visibile cammina
sul buco di dolcezza della yurta
si espande e si contrae,
ti assorbe
lo spiraglio che moltiplica l’amore
nel continuo movimento di un miracolo
librandosi nel cielo come un figlio,
a comporre la sua voce. Va alla gioia.

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