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La globalizzazione alimentare

Argomento: Alimentazione

Articolo di Vincenzo R. Spagnolo 

Proposta di Giuliano Brenna »

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Pubblicato il 14/05/2008

Intervista a Paul Aries: la globalizzazione alimentare
Intervista: Il sociologo Aries contro la globalizzazione dei gusti alimentari
"SE OGNI CIBO È UN PAESE"

Cosa mangeremo nel futuro? Mentre l'Europa recita un accorato de profundis per la bistecca con l'osso, sono in molti a chiedersi se un domani sulle nostre tavole potremo ancora gustare il sapore forte di un Gorgonzola o un Camembert, arrotolare del prosciutto "stagionato al naturale", inebriarci col bouquet di un buon vino oppure, semplicemente, far crocchiare fra i denti la crosta del pane appena sfornato. «Già, chissà se potremo...», sospira pensieroso il sociologo francese Paul Aries: «Purtroppo, le avvisaglie non sono buone: lo spettro de la mal bouffe, la cattiva abbuffata, incombe ormai su tutti noi». E alla BTEX-Mostra del turismo dei prodotti tipici, a Roma, all'Ergife Expo, dal 26 al 29 aprile il dibattito sarà appunto su globalizzazione e prodotti tipici.
Quarantun anni, docente all'università "Lumière" di Lione, Paul Aries è autore di vari saggi su alimentazione e modernizzazione delle relazioni sociali. Opere dai molteplici approcci (sociologico, ma anche economico, etnologico, psicoanalitico e gastronomico) in cui il professore lionese si scaglia contro la filosofia del serial food, il "cibo seriale" con cui le grandi catene di ristorazione hanno invaso ogni angolo del pianeta. Teorizzando l'avvento di una "globalizzazione" alimentare che minaccerebbe il palato e la cultura di vaste aree del pianeta.
Una recente indagine sull'alimentazione afferma che ci sarebbero otto cibi e bevande presenti ormai in tutto il mondo: pastasciutta, hamburger, pizza, sushi, chili con carne, cuscùs, coca cola e caffè. Lei che ne pensa?
«La trasformazione delle pietanze, sempre più simili da un capo all'altro della Terra, è ormai un fatto. Gli esperti dicono che il mondo diventerà, nel XXI secolo, un villaggio globale. Come potrebbe la sola alimentazione sfuggire al rullo compressore della mondializzazione? Il problema è, come sempre, cercare di decifrare i cambiamenti in atto per capire che direzione prenderanno. La globalizzazione alimentare coinvolge ognuno di noi, perché non solo decide cosa mangiamo adesso, ma anche cosa mangeremo. Perciò, è bene chiedersi quali cibi stanno preparando sui propri fornelli le multinazionali alimentari…»
Qual è la sua risposta?
«Da anni le multinazionali del settore alimentare lavorano per produrre cibi "senza identità", che vadano bene negli Usa come in Cina, in Africa oppure in Russia. E' come se una gigantesca mano passasse decisi colpi di spugna sulle culture locali per far posto a prodotti nuovi, forse più igienici ma assolutamente anonimi, insapori e inodori. Qualcuno afferma che in questo modo si riuscirà a sfamare l'intera umanità. Io non sono d'accordo.»
Perché, professor Aries?
«Perché a colpi di hamburger, patatine surgelate, pizze e insalate che sanno di sintetico, si stanno cancellando le radici culturali di molte aree del pianeta. Oggi sparisce un tipo di formaggio, domani un sistema di stagionatura degli insaccati, dopodomani ogni tradizione, cultura gastronomica e economia locale basate su quei prodotti. Non c'è da stare allegri: si profila un futuro che deve spaventare non solo buongustai o sommelier, ma tutti noi».
Non le sembra di esagerare? Trent'anni fa, previsioni apolicattiche sostenevano che nel duemila ci saremmo nutriti solo di pillole e liquidi energetici…
«Il pericolo non è solo, come dire, "squisitamente gastronomico". Anzi, risiede soprattutto nell'omologazione culturale diffusa attraverso il cibo. Un concetto che in un recente saggio, "Les fils de McDo"" (uscito l'anno scorso in Italia per la Dedalo col titolo "I figli di McDonald's", ndr), ho chiamato il rischio della "Mcdonaldizzazione" del mondo.»
Cosa vuol dire?
«Significa che i processi di globalizzazione hanno innescato una sorta di pericolosa regressione: oggi un altissimo numero di individui ha i medesimi desideri. E, per soddisfarli, fa ricorso ai medesimi prodotti, senza riguardo per latitudini o culture di provenienza. Come nel caso di McDonald's, la cui insegna spicca in tutte le metropoli mondiali, in mostra ad ogni angolo di strada. Un tempo si diceva che i bambini nutriti da una stessa balia fossero fratelli di latte. Un domani forse potremmo essere tutti fratelli di Mc Donald's, visto che ogni giorno la medesima polpetta di carne di manzo con patatine viene servita da 25mila ristoranti in 115 diversi Paesi. In tutto, oltre 40 milioni di pasti quotidiani venduti in Asia, nelle Americhe, in Europa, Nord Africa e Australia».
Senza dubbio, un esempio di diffusione capillare del prodotto. Ma dov'è il pericolo?
«L'hamburger di un fast food è il miglior prototipo di cibo senza identità: si rivolge a tutti, a qualsiasi ora del giorno, indipendentemente da gusti, abitudini, tradizioni familiari o regionali. E anche l'ambiente in cui viene venduto, il costo di ogni singolo pasto, tutto deve essere più o meno uguale da Paese a Paese. Lo scopo è creare una cornice, falsamente familiare, di situazioni standard. Che induca il consumatore a mettere in atto comportamenti ripetitivi, a tutto vantaggio del consumo. E così, alla lunga, il consumatore di hamburger diviene un uomo senza storia e senza memoria, che non mangia più per desiderio o tradizione, ma per soddisfare bisogni di carattere impulsivo o imitativo: vado al fast food perché è di moda e ci vanno tutti. Oppure perché ho necessità di placare la mia fame e so che lì troverò sempre quegli stessi alimenti, con lo stesso sapore e allo stesso prezzo. Ma allora io mi chiedo: al di là delle valutazioni nutritive su una simile alimentazione, di cui è bene parlino gli specialisti, a cosa somiglierà l'uomo che nascerà da queste nuove equazioni culinarie?»
Dunque, secondo lei, i nuovi cibi globali forse non faranno male al fegato, ma senza dubbio "addormentano" il cervello". Concetto affascinante, forse un po' tranchant…
«Non direi. Dalle mie parti dicono che non si mangia solo con la bocca, ma anche con la testa. La standardizzazione dei cibi non è solo frutto di una logica economica. Si può pensare che essa sia una maniera moderna di risolvere l'angoscia alimentare. L'uomo occidentale è passato in pochi decenni dalla paura per la mancanza di cibo a quella per l'eccesso di cibo. Le grandi multinazionali della ristorazione, proponendo un'alimentazione sempre più omogenea, hanno inventato un nuovo modo di placare quest'angoscia. La "standardizzazione", come pure gli esperimenti sui cibi per renderli più belli e appetibili, sono i nuovi "dogmi alimentari" del nostro tempo, perché si ritiene che possano rendere gli uomini felici».
Lei scrive saggi, il "popolo di Seattle" manifesta, alcuni economisti predicano vie di sviluppo alternative. Qual è, a suo parere, la forma più efficace di opporsi ai "difetti" della globalizzazione?
«Ho accettato di testimoniare a favore dell'agricoltore Jose Bové, mio connazionale noto per le sue forti proteste anti-mondializzazione, in un processo che lo vedeva sul banco degli accusati. Ma credo che la strada, per chi vuole affermare il proprio diritto a non essere schiacciato dal rullo della globalizzazione, sia quella di contribuire con la propria opera a una presa di coscienza generale. In modo pacifico, ma fermo. Solo così, con un ampio movimento d'opinione che coinvolga Paesi e culture diverse, si potranno innescare meccanismi in grado di dare il via a processi positivi di cambiamento.»

Vincenzo R. Spagnolo

da www.molilli.org

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