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L’inventore di sogni

di Elisa Mazzieri
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Pubblicato il 03/06/2019 05:01:22

L’inventore di sogni

 

Michele era basso, nervoso, prosciugato, sordo alla rissa ma velocissimo di lama. E già perso. Insomma, con Michele era meglio non litigarci e, inoltre, sembrava più alto.

Immaginarlo al lato del bancone, di un pub fumoso con la spillatrice di birra, bionda anche lei, giovane o rugosa secondo il vezzo di chi legge o scrive, va sempre bene: Michele.

Il ricordo del pub fumoso e aperto il pomeriggio o aperto fino a così presto la mattina che poi fuori è giorno, invece, è più difficile. Almeno, per me, che sono donna, ho una certa e comunque a Michele, magari gliela avrei pure data, ma non di pomeriggio.

In ogni modo, a Michele non importava quasi niente: della fica, la politica, il disturbo della quiete, il diritto al riposo, il calcio, l’oroscopo, la birra in plastica dopo un’ora precisa della sera, ma sempre diversa in ogni città per ogni stagione.

Michele, al pub, ci andava di pomeriggio. E non era disperato. Non era abbastanza giovane per redimersi o vecchio per dare consigli e non era, soprattutto, in quella età di mezzo adatta al pentimento. Quella età che si dilunga per generazioni e a ognuna ruba quattro, cinque anni, quanto basta, così che la durata della crisi coincide quanto serve con tutta l’età adulta.

A Michele non importava della crisi. Era sempre vestito di jeans, forse, o forse di velluto a coste, forse, il pub era sempre fumoso, infatti; e la donna al bancone, sicuro, un po’ mignotta, per scelta, ovviamente, e soprattutto perché la parola mignotta è proprio l’unica che rende l’idea. Secondo Michele che all’etimologia ci stava attento.

Ecco, il vero interesse di Michele: l’etimologia.

A circa un terzo delle parole già scritte sull’idea complessiva della bozza, è il minimo dare una virtù a Michele che, essendo l’unico nominato, è per necessità il protagonista.

Dargli uno scopo vero.

Trascendente.

Forte di librarsi sopra il bancone fumoso — detto fra trattini, se qualcuno (e mi rifiuto le “barra a” dato che l’italiano equipara il neutro al maschile e personalmente sono d’accordo, ma proprio d’accordo, d’accordo alla Christa Wolf, se qualcuna intende, sull’equiparazione maschile neutro e soprattutto poiché questo è un bieco esercizio di stile, io non sono una scrittrice, questa non è narrativa e di certo non ho stile) conosce un pub fumoso dove è sempre buio, buio davvero anche a luglio, magari fresco e senza obbligo di consumazione, con il fumo più che altro decorativo dato che in realtà fumo poco e, anzi, con gli anni mi urta anche un po’ la condensa, comunque se lo conoscete un posto così, sarei molto lieta di scoprirlo, anche io—elegante e inaspettato come la spillatrice di birre, che sciacqua le olive (tre!) prima di infilzarle con lo stuzzicadenti del cinese e affogarle nel vermut del discount, per niente dry, ma bilanciato da un accettabile gin. La barista beve gin, il Martini lo sa fare, di pomeriggio, nel fumo del pub, rigorosamente vuoto eppure al centro di Roma, era chiaro fosse il centro di Roma.

 

Bene, poiché ci si accinge alla risoluzione del racconto e va giustificato il titolo —altro motivo per cui, dell’italiano, oltre al neutro equiparato al maschile, è il caso di apprezzare le infinite potenzialità aperte dall’uso della forma passiva: fuorimoda come una permanente anni ‘80, vilipesa come un gay che non fa outing il giorno di Natale di fronte alla nonna novantenne — e poiché non è accaduto quasi niente: ecco Michele, scosso dal suo torpore. Attore di tutta la trama.

Dunque: Michele tutto vestito di jeans a coste — privo di veri interessi e per sua fortuna tutto privo anche di più di drammi — è appoggiato al bancone.

Entra un avversario. Chiede un Martini. La donna al bancone miscela un eccellente Martini cocktail, forse un po’ dolce per Hemingway che era più alto e maschio di Michele, tuttavia un gran Martini: con le olive sciacquate dalla salamoia e tutti gli orpelli del caso di un pub fumoso senza lavastoviglie, eppure al centro di Roma. Il tizio, però, la schifa e dice qualcosa che per ragioni di spazio ha poco senso indagare, qualcosa che include la parola “mignotta”.

“Eh no!” chiarisce Michele “la signora è tutt’altro che ignota.”

In più, per fatica o gioventù, la signora ha sgravato proprio lui: un difensore dell’etimologia. Uno che è meglio non litigarci e tutto il resto ma che la madre, puoi anche offenderla, certo (mica è bigotto!), come la crisi, la fica, la politica, il calcio e tutto il resto, ma senza imprecisioni. Soprattutto senza imprecisioni avvocatesche di etimologia che, si intuisce a questo punto, sarebbero il motivo vero per cui il davvero Michele svuota i suoi pomeriggi nel pub insieme ai bicchieri.

Ci è voluto un racconto inutile, ma finalmente Michele uno scopo ce l’ha. Un dramma persino, ce l’ha. Quindi: un passato potenziale parallelo antagonista futuro, insomma un fantasma frustrato regnante, un alter ego, un arazzo, un doppio sognante, un tarlo, una tenia, un verme solitario, un po’ di gastrite, almeno, qualcosa ce l’ha! Qualcosa Michele, finalmente, ce l’ha, oltre il velluto jeansato accostato alla permanente gay anni ’80!

 

Questo sognava Michele, accasciato sulla piramide di pinte svuotate, verso le due di notte, di fronte al cartello lampeggiante “non soking”, — la”m” è fulminata dal giorno del divieto.

“A Miche’, sveglia, devo chiude” urla la davvero biondissima, stanca, eternamente all’erta, livida, pallida, negra barista “vattene!”

“Mamma!” risponde tutto luce e moccolo Michele tirando su la faccia e il naso dal bicchiere.

“C’hai detto? Mamma a chi? Ma che te sta’ a inventa’? Stavi a sogna’? Levete che devo chiude!”

“Ecchilo” rincara un tipo all’altro lato del bancone “ce mancava: è arivato l’inventore di sogni!”

 

 


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