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Ragazzo di città

Romanzo

Edmund White
Playground

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 25/10/2011 12:00:00

Quando si pensa a New York la prima immagine che affiora alla mente è quella di capitale del glamour, città scintillante sempre in fermento, giorno e notte, coi suoi ambitissimi appartamenti su Central Park, o l’incessante andirivieni di gente scandito dalle quotazioni della Borsa e del Nasdaq continuamente aggiornate e in continuo movimento sui ciclopici display di Time Square. Ma la cosiddetta grande mela non è sempre stata così, lo è da relativamente poco tempo, sino agli anni settanta la città era sporca, pericolosa, con rifiuti ad ogni angolo, poca illuminazione e tanta delinquenza. Era una città che si poteva amare o odiare, e non vi erano vie di mezzo, chi viveva a Manhattan e pochi altri che sognavano di andarci la idolatravano, tutti gli altri statunitensi la odiavano. La città che oggi è il fiore all’occhiello dell’economia a stelle e strisce era, fino a pochi lustri fa, talmente a corto di finanze che la municipalità dovette licenziare i poliziotti, lasciando campo libero a delinquenti di ogni genere. Ma New York aveva una grande ricchezza, che forse ha contribuito a dare alla città l’immagine che ora si è consolidata, i suoi abitanti, dicevo, innamorati, malgrado tutto, della loro città, ed attratti dalle pigioni relativamente basse. La città divenne così polo d’attrazione per ogni genere di artista che poteva vivere con pochi mezzi e in un ambiente dei più tolleranti, noncurante di qualsiasi stravaganza o debolezza. Ed è in questa sorta di crogiuolo che approda il giovane Edmund White, spinto in città dal desiderio di continuare a stare vicino al ragazzo dei suoi sogni e dal desiderio di diventare uno scrittore. Il primo sogno, si vedrà, vivrà fasi alterne e porterà tanta amarezza nel giovane. Il secondo sogno, invece, verrà coronato da un grande successo editoriale, che dura tuttora e soprattutto ha legami con praticamente tutto il mondo della cultura di lingua inglese, e non, che sia passato da New York negli ultimi trent’anni. Vi è nel libro un rapido accenno ai viaggi a Parigi e a Roma, qualche pagina è dedicata al soggiorno a Venezia, ma è soprattutto la vita trascorsa a New York che viene narrata in queste pagine dalla fortissima connotazione autobiografica.

Nella fitta e raffinata cronaca di White il lettore vivrà l’evoluzione della città avvenuta di pari passo con l’affermazione dei personaggi che la abitavano via via che essi raggiungevano la notorietà. White rivive tra le pagine la prima rivolta gay, allo Stonewall bar, che diventerà la pietra miliare della affermazione dei diritti gay e contro la loro discriminazione. Maggiori diritti ai gay significava maggiore visibilità e quindi maggiori probabilità di avere avventure sessuali, sino ai giorni tetri della comparsa del virus HIV e della sindrome ben nota ad esso correlata. Fu, probabilmente, proprio la grande sciagura a fare da estremo collante per la comunità gay: essa aveva preso coscienza della sua forza all’inizio degli anni settanta, aveva vissuto spensierata per una ventina di anni, poi la grande epidemia aveva fatto capire ai gay che essere una comunità non significava solo facili incontri e avventure da un paio d’ore, ma significava anche essere una struttura ordinata. Ed infatti la società gay di New York reagì prontamente alla calamità dell’infezione dandosi severe norme che fecero calare quasi da subito il numero delle persone infettate dal virus.

Ma non solo di gay si parla nel libro, vi sono soprattutto scrittori, raccontati da chi li ha visti da vicino e con occhio raffinato ha saputo cogliere tratti che li caratterizzano, accompagnati dai loro vizi che generalmente vengono omessi dai biografi ufficiali, come la cocainomania di Truman Capote, le bizzarre abitudini di Susan Sontag in compagnia di una nuova amica. Gossip, anche, forse, ma soprattutto la storia della letteratura, e delle arti contemporanee americane e del resto del mondo. Se White nel suo recente “My lives” narra la sua vita in funzione delle persone incontrate nella vita privata, in questo “Ragazzo di città” la narra attraverso fatti che l’hanno visto insieme a personaggi famosi, celebrati e, alcuni, purtroppo già dimenticati. Nelle pagine del libro sfilano quasi tutti i nomi noti, oltre ai già citati Capote e Sontag, appaiono Chatwin, Burroghs, Bishop, tra gli scrittori; inoltre appaiono, tra gli altri artisti, Mappelthorpe, Peggy Guggenheim, e fa addirittura una velocissima comparsata Vittorio Sgarbi. Di questi e molti altri personaggi White ha modo di creare delle biografie esaurienti di poche righe, realizzandole, con la sua abilità, da fatti apparentemente insignificanti (White è noto biografo, vi sono sue biografie di Proust, Rimbaud, Genet), ponendo in relazione il lato umano di ciascun personaggio con la sua produzione artistica, creando dei mirabili, ancorché velocissimi e succinti, quadri di una notevole completezza, dotati di quelle poche informazioni, fondamentali, che consentono di capire un artista partendo dalle sue manie o dalla sua vita. Tutto questo senza mai giudicare, ma tentando piuttosto di dare una spiegazione o una lettura da una prospettiva più corretta delle opere.

Assistiamo, nello scorrere delle pagine di questo “Ragazzo di città”, al crescere di una città sino a diventare un faro del mondo occidentale, allo svilupparsi di vere correnti artistiche che saranno determinanti in tutto l’Occidente e alla crescita di un ragazzo, quasi fuggito dalla provincia, che diventa un uomo e un grande scrittore. Tra le righe si trovano interessanti riflessioni sulla letteratura, su quella che si considerava “di genere” e su quella dall’afflato più universale; su come un contesto sociale possa influire sulla produzione artistica oltre a simpatici quadretti sulla vita di ogni giorno in una metropoli malandata.

Una lettura assai piacevole, densa di aneddoti che farà gettare al lettore uno sguardo indiscreto sulla vita di tanti personaggi considerati “mostri sacri” ma, malgrado ciò, molto umani.



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