Pubblicato il 19/05/2019 12:40:11
La parola prosciugata
Purché sia la gioia: la profondità della gioia. Deve farsi spillo, essere trafittura. Sottile ed essenziale. Tale la parola prosciugata fino al suono. E ancora prosciugata, fino all’assenza del suono. Perché meditativo e intimo è il luogo che origina la folgore. Brace
che ancora non conosci cenere vita origliata / deformata argilla riconosciuta / trascorsa non dimenticata. Fedele al rosso che torni / che non parli che mi frastorni col tuo silenzio Irripetibile la miracolosità del battito – eppure possibile –
Una parola – la sola che ti trapassa – Troppo in alto per... Sono io ancora. Dimentica splendi ignora.
Tu ghiaccio / tu ala torre ascesa con tutte le sue alate pietre. Troppo rovente il fiato troppo tenero il giglio! Oh, mai del tutto fuggita, nel nome dei lasciati – a mia insaputa – ti invoco fino alla supplica.
Orgoglioso silenzio e maledetto inoltre che graffia dagli occhi la gioia. L’abbandonato scrive parole di vetro. Già si feriscono i fiori che sognavano di nascere e sono germogli impiccati al gioco dell’inverno
Questi versi per te sono un inno sconvolto. Io devo sostare nella mia ferita. Altrove esulta la notizia della tua fortuna. Musa oscurata io non sono una che annuncia primizie a chi è profeta del dire.
Arma che fu la sua luce nebbia ormai che più non ferisce e tuttavia patisce una morte più viva intermittente mai definitiva.
Io ti chiamo benché non ne abbia diritto a motivo del vuoto e della illusoria libertà perché le benedizioni del Dio degli eserciti hanno devastato il perimetro dei confini delle mura delle mie certezze.
Alba / dove la luce imbianca. A questa si fonde la luce degli occhi. L’anima vi riconosce il tempo quello bloccato / il prigioniero coi suoi nodi di catene alle caviglie. Niente vive – niente fugge. È pulviscolo: trapassa le maglie della rete. Tutto l’umano dolore non ha senso. È polvere / solo polvere sospesa nella luce.
Volgiti. La notte è smisurata ma cresce la falce della luna. Taci delle nefandezze – saranno lavate – Mi danno del voi. Perché lo permettete? – dicono – A me che sono fraterna delle meraviglie regali che ignoro la palude e l’alito di morte dei lazzari non risuscitati. Non tracciare cammini che io non farò. L’infanzia non cessa d’essere dimora e tomba. Le parole tornano ai righi i suoni al silenzio. Non chiamarmi più. Mi si è troppo avvinghiata addosso la vita.
Non tornano che i fuggiti. Non si arresta che l’andare in obbedienza al movimento. Partire è già incontro. Ma dove il richiamo? dove la fonte dell’eco? Volgersi alla nascita – ricongiungere il cerchio – Attuare l’unica perfezione concessa alla vita.
Non c’è definizione per la forma né immobilità. L’ombra si allontana dal suo chiodo la sua nudità è una viola dalle note sinuose. Già dispensatrice di carezze e per sempre disposta all’incontro accorda l’anima al ritmo della continuità – certa del germe che da sempre in qualche luogo vigila il respiro – Se tace è un lago felice del suo abisso.
Appartengo alla mia mutilazione come l’esilio al luogo della nascita. Esploro il lutto e la ragione dimentico di nascere. Conosco l’imposizione – che è la legge della tua mancanza – il disuso della lingua di cui sei custode e carceriera. Ma esiste una cerniera dalle labbra fredde. Lì si origina il tutto come nel dormire il sogno.
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