Ciao, Cesare
1950. E’ l’anno della mia morte e non è casuale, sapete?
L’ho “scelta”. Così come “loro”, le parole, hanno scelto me in vita.
Le parole… ancora mi chiedo come io possa avvertire anche adesso il disastroso fascino della scrittura. In questo ammasso di macerie che sono, so che la pioggia brilla di poesia persino nei vicoli più ciechi e infuocati del mondo.
E non è solo la mia voce, ma la voce di tutti quelli che percepiscono il respiro delle cose e per questo sempre a un passo dall’abisso. Dalla morte.
Oh, però le cose non sono mai o solo bianche o solo nere.
E’ il mondo, sapete, che non smette mai di tacere e non ha notti come queste, non potrà mai ingerire in un solo gesto tutto l’oblìo esistenziale, bevendosi fino all’ultima goccia il suo amaro tormento.
La guerra fredda, gli scontri in Tibet, i fuochi aperti in Corea, Marais e Cocteau, Orfeo il mito di Euridice, Braque, Picasso, Sugar Ray, il Maccartismo… che anno !
Il mondo si abbandona a se stesso e si lascia abbandonare.
Non so davvero se è un buon anno per morire ma questo è proprio il mio.
Eccole qui, dieci bustine di veleno per ogni dita.
Dieci dita che hanno scritto prima ancora sulla mia pelle, e forse anche sulla vostra, o almeno vorrei crederlo. Vorrei credere di esser servito a qualcosa. A qualcuno.
Io, che non sono mai appartenuto a nessuno. Mai.
Se anche solo una briciola di bellezza, di emozione, è nata dalla mia penna, lo devo a voi. Voi, che per me non siete stati mai fantasmi ma una nebulosa umana fatta di carne e anima.
Voi, personaggi reali che siete entrati in questo mio inchiostro avvelenato di vita così sporco d’esistenza, denso, come un prezioso distillato.
Di questo ho vissuto, di questo hanno narrato le mie dita. Grazie. Veramente.
Ma non mi basta più.
Ho 42 anni ma ne ho mille in più di ieri.
Fa caldo stanotte, desidero la pioggia, una pioggia calda, leggera, quieta. Qualcosa che parli piano nel buio…..avrei aspettato altre sei ore sotto la pioggia, se fosse venuta. Ma, perché adesso ? Ti rimetti a pensare alla follia dei 17 anni, ad una promessa andata in fumo, al viso di una ballerina un po’ svagata ? Una infatuazione stupida, stupida come la mia timidezza.
Eppure è da lì che è sbucata fuori per la prima volta la Malinconia. Da una sera così, e sempre la pioggia a brillare di poesia e miseria. Fradicio d’acqua e di delusione, che poi tutti i miei amori sono stati roghi, che ti aspettavi ?
E a seguire, tutti i maledetti NO delle mie donne, gli amori bruciati. Quelli che ti lasciano dentro la morte insonne.
Tina dalla voce roca, la ribelle, la burrascosa Tina. Un temporale in piena estate, un pugno forte nel petto.
E Fernanda, l’allieva conosciuta durante una lezione di supplenza d’italiano, creatura curiosa, intelligente tanto da esserne, poi, diventato “geloso come un gorilla”, lei che lo aveva abbandonato come Tina al suo destino. La sua seconda croce.
Anche Bianca non l’aveva voluto; intensa, cocente sofferenza. Quante cene a parlare di letteratura e ad assaporare la sua anima “fatta di terra e di mare”! Bianca dal nome luminoso come una nuvola che passa e che non torna.
La sue muse, le sue donne, i suoi roghi, i sogni infranti. Poi Costance, conosciuta per caso in un capodanno. Ed era solo l’anno scorso… perduta come le altre, sul finire della vita. Sì, Connie, proprio tu, “verrà la morte a avrà i tuoi occhi”. I tuoi bellissimi occhi.
Scrivevo di voi, volevo essere salvato , volevo vivere.
Ma è lei che mi ha avuto. La Malinconia. Dannata, insostenibile, Malinconia.
L’essere più fedele del mondo, colei che aveva sposato fin dai tempi del liceo classico, la mia sposa vestita di grigio…
La sua sposa vestita di nero, ora, adagiata nel letto accanto a lui, in una notte aperta sulle stelle dentro un’anonima camera d’albergo . E Torino, anch’essa dentro una piazza troppo grande per prestare ascolto al suo ultimo grido.
Notte calda, voci di ragazzi per strada.. che avrà la vita in serbo per loro ? Ora ridono e pensano di poter conquistare tutto , ma tutto fa schifo, tutto è disincanto, inumana stanchezza, solitudine. Niente !
Sei qui con me, Gaspare? Chissà perché penso a te anche se la guerra è finita da poco, verrò a trovarti piccolo eroe della Val d’Ossola, dove hai seppellito il tuo riso, i tuoi 18 anni.
Piccolo partigiano dalle grandi idee, tu che quando spiegavo in classe mi leggevi negli occhi. Tu non hai venduto la tua idea per campare un po’ meglio, ma sai, anch’io dopo… dopo ho detto no, che non potevo piegarmi mai più ai compromessi. Nemmeno adesso.
E’ che si capisce la vita solo quando questa ti bussa forte alla porta per riavere indietro i suoi crediti. Ho pagato come ho potuto, ogni giorno la mia anima bruciava sempre un poco, produceva cenere e nient’altro.
Una malattia strana il mal di vivere, basta un soffio di vento a spazzar via apparenze e fortezze. Non mi è mancato niente, il carcere, il confino e queste indicibili mani. Dannato vizio, amavo troppo la letteratura per fermarmi solo a leggere, a tradurre…dovevo, sentivo, capivo che le mie dita volevano qualcosa di più, forse volevano aggrapparsi al cielo o alla nuda terra, non so, ma sentivo che dovevo scrivere. Come tu dovevi combattere.
Ci ho provato, Gaspare, fin da quando me ne andavo sulle rive del Belbo a guardare la valle, ad annusare l’aria di primavera.
Il soffitto di questa stanza non esiste, è un affresco della memoria che mi cava gli occhi dalla testa per volare sulle colline delle Langhe. Questo è il ricordo che voglio tenermi negli occhi prima di chiuderli.
Io che ho sempre visto il mondo rotondo, come una casa sempre aperta, ora so che la mia terra è un’immagine che stinge un poco il mio male.
E’ quasi dolce, mi sembra di annullare ogni tempo, ogni distanza… io che corro fra le vigne allineate, le mie gambette infantili arruffarsi nei prati dintorno al Cascinale, la polenta come una luna rotonda e gialla, i cortili e gli orti d’estate, i tetti a colombaia e quell’attimo di curiosità stupita quando appoggiavo l’orecchio sul tubo del telegrafo per sentire il ronzìo dell’elettricità, e la neve quando cade lenta e copre ogni macchia di colore, ogni dolore.
E’ una terra di sangue, la mia, una terra partigiana e non l’ho mai scordato questo, mai, ma stanotte sono io bambino che voglio portar via con me, oltre questo soffitto.
E’ lui che vorrei salvare da tutto questo macello di vita irrisolta.
Fra poco avrò annullato la distanza che mi separa dalla luna.
Questa è una luna senza falò.
Non mi fa paura morire, sapete ? Mi fa paura vivere così, come un naufrago che si spinge al largo e non cerca la riva.
Cosa vorrei lasciarvi ? … questo, semplicemente questo:“ Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”
Ora lasciatemi dormire, e non dite che non vi ho avvertito. La mia è solo una storia come un’altra. Una storia perbene finita un po’ male. Una notte come tante, è la fine dell’estate del 1950.
Ciao Cesare.
E Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina,
e rimane lì, a bagnarsi ancora un po’, e il tram di mezzanotte se ne va
ma tutto questo Alice non lo sa.
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" Alice guarda i gatti - Francesco De Gregori”
NDA:
Omaggio a Cesare Pavese morto suicida in una stanza d’albergo di Torino la notte del 27 agosto 1950. Venne trovato disteso sul letto dopo aver ingerito più di 10 bustine di barbiturici.
le citazioni virgolettate sono sue espresse parole o titoli di poesie da lui scritte.
De Gregori scrisse la canzone “Alice guarda i gatti” ricordando come Pavese rimase per sei ore dentro un bar ad aspettare una ballerina di cui si era innamorato e che non andò mai all’appuntamento.
(2015)
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