EMIGRATI
Di Maria Rosa Giannalia
Le città erano due: New York, Brooklyn quartiere Little Italy.
Sicilia, Palermo, quartiere Kalsa.
Rosalia era sola nella grande casa al quinto piano del numero centonove di Mulberry Street. Ogni tanto si affacciava dal balcone e guardava di sotto in strada. Vedeva il grande telone del suo fruttivendolo preferito: Ciccio. Lui sapeva sistemare la frutta per sfumatura di colore: le mele dal rosso squillante al rosa acceso, al rosa tenue, altre dal giallo paglierino al giallo dorato fino al verde delle ultime, disposte in ordine nell’ultima fila in alto. E le arance, poi. A Rosalia piaceva annusarle quando risaliva nel suo appartamento: era un tornare nella casa di Palermo, quando dal cestino ricolmo di agrumi sceglieva quelli dalla buccia più grossa per fare il cileppo per le cassate. Rosalia scendeva a comprare la frutta tutti i giorni: quattro mele, due arance, due pere e qualche banana. Le piaceva parlare con Ciccio e contrattare sul prezzo. Nessuno in quel negozio lo faceva mai - contrattare sul prezzo - ma lei sì. Ogni tanto Ciccio la frutta gliela regalava. E Rosalia quasi si sentiva a Ballarò, il quartiere-mercato di Palermo dove andava ogni tanto con Totò, suo marito, a comprare frutta e pesce perché lì il pesce era più fresco, diceva lui.
Col suo vestito leggero a fiorami, a Brooklyn, in quella strada grande e affollata, Rosalia era elegante anche se scendeva solo a comprare la frutta. E i capelli non erano più legati a tuppo come quando era a Palermo, ma corti e con i boccoli ai lati della faccia. Non sorrideva, però. Solo gli occhi neri e grandi sfavillavano contro il biancore della pelle diafana e due piccoli segni sottili si intravvedevano agli angoli della bocca: era tutto il suo sorriso.
Suo marito era un po’ in pena per lei e le diceva scendi, scendi, vai a farti una passeggiata, vai nei negozi. Eh, sì, pensava lei: come quell’unica volta in cui aveva deciso di andare in uno store. Era grandissimo che quasi ci si perdeva. Era andata a comprare un utensile per la cucina ma sembrava che non ne tenessero. Aveva provato a chiedere a un commesso: uarioppe uarioppe, maccarruni stope poi aveva proseguito a gesti unendo i polpastrelli delle prime tre dita della mano destra per chiedere al commesso dove potesse trovarlo. Non c’era verso. Nessuno capiva e lei quasi stava per mettersi a piangere finché un altro commesso, in là con gli anni, che stava sistemando gli scaffali in fondo alla corsia, la vide e si avvicinò per dare una mano al collega. Please, what do you want ma'am?
Rosalia aveva ripetuto ancora e ancora, rossa in viso, confusa, con un filo di voce: uarioppe uarioppe, maccarruni stop, uarioppe uarioppe, maccarruni stop! E solo quando il commesso, sorridendo le disse: Signora ho capito, vuole uno scola-pasta, lei ebbe un sussulto di gioia che quasi lo abbracciava.
Rosalia si era illuminata e aveva iniziato a parlare col commesso come fossero amici da sempre. Si era scordata di tornare in fretta a casa come faceva tutti i giorni quando preferiva la solitudine e il silenzio di quell’estraneo appartamento al vocìo dei passanti.
Ma fu solo quel giorno. Il marito al rientro la trovò con le guance arrossate e un po’ affaticata. Le tolse lo scolapasta dalle mani e le chiese come c’era riuscita a farsi capire. Il sorriso soddisfatto di Rosalia gli diede la conferma che qualcosa di eccezionale era accaduto. Totò colse l’espressione di orgoglio soddisfatto e sperò che la moglie potesse spolverarsi di dosso tutta la malinconia di ogni giorno che si sollevava dai mobili pulitissimi, dal pavimento brillante e da ogni cosa al suo posto. Quasi non ci fossero abitanti in quella casa. Lei era accuratissima e niente sfuggiva alla sua meticolosità nel rassettare i cassetti, nel mettere a posto la biancheria stirata, nel lucidare il lavello di acciaio brillante che mai aveva avuto nella sua casa palermitana. Ma non ne era felice: quella brillantezza non illuminava il suo cuore né quell’ordine la rasserenava.
Con Ciccio il fruttivendolo era più in confidenza. Andava in negozio per acquistare le zucchine lunghe e i tenerumi per fare la minestra. Lui gliele metteva da parte chè tanto a nessuno poteva venderli. Nessuno conosceva il fresco sapore della minestra con quelle tenere foglie di zucchina lunga che si coltivava solo in terra di Sicilia. La preparava la sera quando Totò, stanco del lavoro nella fattoria tornava a casa e si sentiva abbracciare da quel fresco profumo e anche a lui bastava chiudere gli occhi per ritrovarsi di colpo lì, a Palermo, nella sua casa di sole due stanze, con pochi mobili vecchi e nient’altro da mangiare che quella stessa minestra ma col cuore sereno e sicuro di trovarsi al suo posto in quel mondo.
Totò avrebbe voluto raccontare a Rosalia della sua giornata dei suoi compagni di lavoro e del boss che bonariamente ma con fermezza andava esortando tutti ad affrettarsi ché le commesse erano tante e bisognava affrettare le consegne.
Rosalia neanche capiva quella parola. Prima di venire a N.Y. era abituata al marito che lavorava nella sua piccola falegnameria sotto quelle due stanze, a Palermo, alla luce smorzata dalle case del vicolo che oscuravano il sole, dove spesso qualche amico andava a fargli compagnia discutendo del più e del meno mentre lui, Totò, passava la pialla sulle tavole di pino, l’unico legno che le famiglie si potessero consentire per i loro mobili. Totò era bravissimo e dalle sue mani nasceva qualsiasi oggetto gli ordinassero. Ma gliene ordinavano pochi perché quella gente non li poteva mai pagare e anche se costavano poco, Totò doveva accontentarsi di piccole rate mensili messi da parte a fatica da quel genere di clienti.
Ma i suoi due bambini dovevano andare a scuola, dovevano mangiare, dovevano anche avere degli abiti decenti. Totò e Rosalia si dicevano l’un l’altro che i figli dovevano studiare. Pensavano che quello fosse l’unico modo per sottrarli alla fame sicura e agli stenti che loro stessi non avevano mai potuto superare. Enzo e Carmelina no. Non avrebbero dovuto fare la loro vita. Non avrebbero vissuto nei vicoli stretti di Palermo con le balate sempre umide e bagnate dall’acqua che le donne che vivevano nei bassi, scaraventavano continuamente fuori dalla porta.
Volevano per i loro figli una vita diversa. Diversa soprattutto dalla loro.
***
Se n’erano andati via dalla loro casa di Palermo perché Totò non aveva di che vivere decentemente e di che far vivere Rosalia, Enzo e Carmelina.
Enzo e Carmelina erano ancora piccoli, ma non abbastanza per andarsene via senza dolore.
Anzi, fosse stato per loro, sarebbero rimasti avvinghiati alla strada polverosa, al marciapiede, alla persiana della casa del nonno.
Loro lì ci stavano bene. Giocavano in strada con gli altri bambini; correndo e vociando, andavano sempre qua e là in giro per il quartiere o a casa di questo o di quel bambino. Perché mai se ne dovevano andare?
Una mattina di primavera del millenovecentosessantatrè, molto presto - il sole era sorto da poco sul mare che si intravvedeva in lontananza alla fine del vicolo - Carmelina era già in strada col suo completino rosa a strisce bianche e un gilet senza maniche. Rosalia aveva un cappottino leggero celeste, le scarpe bianche intonate alla borsetta, Enzo indossava già i pantaloni lunghi, nuovi. C’era un gran viavai per la strada stretta.
Aiutato dai fratelli, Totò caricava sull’imperiale della Fiat Millecento le valigie voluminose, le borse, i pacchi. Poi salirono tutti in auto: i fratelli di Totò nella Millecento, Totò, Rosalia, Enzo e Carmelina in una Fiat Ottocentocinquanta, più piccola, verde mela. Guidava Totò, quella era la macchina del fratello.
Il vicinato spiava dietro le persiane: le donne ancora in camicia da notte, qualche uomo mattiniero con la tazza del caffè in mano, qualche altro si era già vestito, nessuno voleva perdersi la partenza degli americani.
Per loro già erano americani ancora prima che le ruote delle due auto si mettessero in moto.
Gli americani salirono a bordo, Totò e Rosalia raggianti, Enzo e Carmelina riottosi e piangenti.
Quando l’ultimo sportello si fu richiuso con un gran rumore, in mezzo alle voci, ai saluti, alle lacrime, ai fazzoletti umidi, le automobili cominciarono a muoversi. Tutti seguirono quella piccola carovana fino all’imboccatura della strada maestra e poi via verso l’aeroporto di Punta Raisi.
Alcuni parenti stretti li accompagnarono, solo quelli che avevano l’auto, fin laggiù: attraversarono la città e poi la statale per Trapani, interminabile, e alcuni tra essi videro, forse per la prima volta, Sferracavallo, Capaci, Cinisi, il mare, l’Isola delle Femmine sempre in attesa di approdi vicino alla costa, la spiaggia, le onde, gli scogli, la tonnara, i giardini, i villini e di nuovo i giardini, i villini, i giardini, i giardini, i giardini, verde, verde, verde, e cielo azzurro, e le nuvole di zucchero filato e tutti i colori del torrone del festino di Santa Rosalia che correvano veloci, veloci. E poi l’aeroporto e quell’aereo, enorme, spaventoso, un uccello gigantesco che avrebbe portato Giuseppina, Totò e i bambini in un mondo sconosciuto di cui non sapevano, fino a qualche mese prima, neppure l’esistenza.
***
- Ma perché se ne sono andati in America? Ma chi glielo ha fatto fare? Che fa, non potevano vivere qui? Ma come? Lasciano il padre vecchio, la madre malata?
- Sì, ma ci sono gli altri figli: i fratelli di lei, la sorella di lui. Ce ne sono persone che badano a loro, non ti preoccupare!
- Ma che fa scherzi? Andarsene così coi bambini piccoli! E quand’è che ritorneranno? Non è che sono andati a vivere, che so, a Roma, che possono prendere il treno e venire! Ci vuole l’aereo, ci vogliono un sacco di soldi, e quando ce li avranno tutti i soldi per ritornare? Ma io non mi capacito: Totò ce l’aveva la sua falegnameria, perché se ne andò in America? Eh, lo so io: lui si vuole fare i soldi, i soldi si vuole fare!
- Ma che soldi e soldi, lo ha fatto per i figli! Per i figli, certo. Che fanno qui i figli, senza una sicurezza, senza un avvenire?
- E che fanno? Fanno come tutti gli altri.
- Perché gli altri che fa? Muoiono di fame? E noi, noi non stiamo ancora qui? E allora? Allora se ce ne andiamo tutti, qui non ci rimane più nessuno. Noi qui dobbiamo stare, te lo dico io!
- Tu stai dicendo un sacco di minchiate, tutta invidia è la tua! Questa è terra bruciata, lo vuoi capire o no? Che futuro abbiamo noi qui? Bene hanno fatto ad andarsene. Anzi, sai che ti dico? Che ci dovevano pensare prima, anche prima di aver i bambini. Prima se ne dovevano andare. La Sicilia, la Sicilia! E che è? Perché qui ci siamo nati, detto è che ci dobbiamo pure morire?
- Certo! Io qui voglio morire, non me ne voglio andare. A sentire te io me ne dovrei andare. Ma dove? a Bruccolino, a che fare poi? Lì una persona non è una persona, è uno dei tanti. Con chi parli a Bruccolino se non sai neppure la lingua? Che farà Rosalia tutto il giorno a casa, con chi parla, coi muri?
- Ma vah, vah! lascia stare, si vede che sei arretrato. A te ti pare che uno, perché nasce in un posto ci deve stare per sempre, magari pure che muore di fame. Io se muoio di fame sai che ti dico? Me-ne-vado! Ecco che faccio. I parenti, il padre, la madre, i fratelli, sì, lo so, dispiace, ma che vuoi fare? Prima viene il pane.
***
- Za’ Giuse’, che dice Rosalia, scrive? E suo marito lavora bene? E i bambini ci vanno a scuola? Quando ci scrive me li saluta tutti, ci dice che noi li pensiamo sempre. Ci dice pure a Totò che quando passo davanti alla falegnameria mi viene un groppo nella bocca dello stomaco. Si ricorda ancora delle nostre chiacchere Totò? Ce lo scriva, mi faccia questo piacere. Mi fa vedere una fotografia? Ih! Guarda che belli! Come sono cresciuti i bambini! E questa che è? La casa loro! Che bella casa che hanno. Si vede che stanno bene. E Rosalia pure: che beddra!
- Ma voi come ve la passate senza di loro? Nostalgia? I bambini li vorreste vedere? E loro? Quando vengono a trovarvi? Eh, sì, i soldi, i soldi, sempre per questi soldi si dividono le famiglie! Pazienza bisogna avere, tanta pazienza. Ma poi vedrete che tornano, tornano. Tornano sempre. Cosa? dice che non tornano? Per i bambini che crescono lì a Bruccolino? Eh, sì, ma loro, vedrete, vedrete che tornano. E Totò? Si è impiegato in una bella fattoria? Ma perché? Lavora con le bestie? Ah, no? La fattoria in America è dove fanno le porte? Allora, sì sì, una falegnameria, grande. Certo, certo. Lui falegname è, quello è il suo mestiere.
Ma vede che appena si fanno un po’ di dollari, tornano.
***
Sono tornati, Totò e Rosalia. Hanno venduto la casa di Brooklyn, ma si sono tenuti i mobili. I mobili della loro vita li hanno voluti con sé. Ora stanno in un appartamento al primo piano di un palazzo nuovo nuovo nel quartiere Oreto. Un quadrivano grande con la sala da pranzo, la cucina, due bagni, una camera da letto dove dormono tutte le notti i loro sonni senza sogni, e un’altra camera con due letti in attesa. Il tavolo pieno di fotografie in fila, pulite, con le cornici d’argento scintillanti al sole che tutte le mattine allaga la stanza. Tutto è pulito, tutto è in ordine.
Totò ogni mattina va a fare la spesa, Rosalia resta a casa a sbrigare le faccende.
I suoi gesti sono lenti, si muove in quegli spazi con molta cautela, silenziosa, senza disturbare. Con Totò parla poco. Ogni tanto squilla il telefono.
- Ciao, Carmen sei tu? Come stai? Che fai? Ah, sei a Dallas? No? A Seattle? (chissà dove si trova ‘sto posto. Quando torna Totò?, quanto ci mette a tornare?) lo sai, tuo padre è uscito, ma torna presto. Dici che non puoi aspettare? Ma lo sai che lui ci tiene a sentirti. Quando vieni a trovarci? Non puoi più venire? No? Il prossimo anno a Natale? Allora ti faccio richiamare? No? Va bene, Te lo saluto io.
Rosalia si alza dalla sedia dove pensava di stare a lungo. Decide di farsi un caffè, suo marito sta per tornare, gli racconterà di Carmelina e della telefonata e di quando verrà a trovarli.
Totò arriva: è stanco e sudato. Rosalia gli racconta della telefonata.
- Ah, che peccato, non c’ero. Sempre quando non ci sono telefona!
Totò si asciuga il sudore, si siede, si guarda intorno. Posa la busta sul tavolo.
- Ma, Rosalia, lo senti tutto questo chiasso? Sono le automobili, fuori in strada, io non lo so perché si sente tutto questo chiasso, e anche questi ragazzi che giocano in strada, il pallone che tirano giù contro la saracinesca, la gente! Fanno tutti voci, parlano forte, si sentono dappertutto, le senti, le senti Rosalia? E i ragazzini? Non si sta in pace un momento in questa strada. Ti ricordi quando in America ci veniva la nostalgia della campagna di qui, ti ricordi quanto piangevi che non avevi nessuno per parlare, nessuno per uscire a fare le spese, ti ricordi? Perché non vuoi uscire mai, ora? Perché non vieni con me? No? Sei stanca? Hai messo su il caffè: ne prendiamo una tazza?
E tutti questi rumori! Sì, è vero, hai ragione, non c’erano tutti questi rumori: quando ce ne siamo andati in America non c’erano. Guarda, ho comprato il pane, il pane inciminato.[1] E’ quello che ti piace di più.
Lentamente, seduti in cucina, Totò e Rosalia bevono il caffè ancora caldo.
***
Totò ha ritrovato il suo silenzio. Anche lui ormai è là, alla villa dei quattro tumuli, Rosalia ogni tanto va a mettere dei fiori nello stretto vaso di ottone e lucida la foto del marito che la guarda rassegnato e ironico dall’ovale porcellanato.
Forse devo portare quelli di stoffa, questi fiori qui muoiono presto e puzzano.
[1] E’ una specialità di pane con i semi di sesamo tipica di Palermo
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