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L’acqua della corsa

Argomento: Arte

di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 22/11/2013 21:36:12



L’ACQUA DELLA CORSA: appunti e note
su “LA SESTA VOCALE”, cortometraggio- e ricominciamento-
di Iolanda La Carruba.



“Le stelle cadono accese
per bruciare il mondo,
ma nessuno tende le mani
per abbracciarle
e si smorzano, tuffandosi nel buio”.

Scipione Bonichi.



Ci sono sguardi che da sempre ci appartengono, attendendoci con la tenerezza e la severità delle interrogazioni e che ci smuovono, ci pungolano carne e spirito manifestandoci alla realtà concreta del sogno- operativa diremmo rispetto alla nostra sete di espressione e tensione assoluta. Sguardi di donne (e di uomini), del mondo stesso nei suoi più infiniti occhi, o sguardi e musiche tra invocazioni e inni a incrinare ogni facile fede nell’immobilità delle ragioni e degli spazi ed in cui l’amore, piuttosto, nella sua reminiscenza è finalmente restituzione di sé nella polifonia e nella polidimensionalità degli accordi. Abbraccio, allora, e ritorno a quanto di più vero ed umano ci appartiene, e di cui l’arte non ne è che alla radice il racconto- o il suo tentativo, magnifico , imperfetto, mutilo nella sua dolenza a cui qualcosa sovente sfugge. Struggimento di un alfabeto a cui non riesce la quinta finale, sempre rimandata, sempre inseguita, ma pur sempre viva- e per questo già dinamicamente operante- nell’eco di una mortalità che nei suoi riflessi si cuce e si compie. Ansia, sì, che nel moderno ha trovato nell’intonazione e dilatazione sinestetica ulteriore chiave e misura di comprensione e rappresentazione del reale, prendendo- e dando- luce nell’incontro da quel dialogo ininterrotto e aperto delle risonanze alla base delle pronunce. E delle forme, nello svelamento che per inclusione nutrendo ci permea e ci trascende; ci significa, soprattutto, iscritto com’è nell’inscindibile legame di creature il mistero- e la radice- d’ogni natura. Eppure anche qui qualcosa nel commento è mancato, pur nello specifico delle diverse discipline. Eccesso di tecnicismo, forse, che ha finito con lo smarrire tempi e voci di scena, o più semplicemente, limite di un registro che nel continuum di verità e passioni altro non ha potuto rimarcare.Istanza di fede- e di parola nuova- che ha avuto comunque il merito di rompere le raffigurazioni unendole nel coro sotteso dei rimandi, ridestandole così con forza, tra logiche del quotidiano e scarti d’anima, all’autenticità più accesa delle urgenze. Slancio, impronta, di cui lo sguardo però ancora non ha perso lo sfondo, la nota rimessa nei sensi e a cui, per ostinazione d’eco, la ricerca espressiva ancora non cessa di rivolgersi consapevole delle determinazioni di un dettato da cui ripartire, mai domo, mai fermo proprio per lo spazio annunciato dalle feritoie recise. Ed allora colpisce nel segno l’operazione sicura, pronta di un gruppo di autori che ha impresso nuova spinta in tal senso in un breve ma intensissimo nastro, in un cortometraggio di circa venti minuti (finalista all’ultimo Festival Internazionale del Cinema di Berlino nella sezione relativa) ripartendo proprio da quel deposito di rimontaggi e peregrinazioni che fuoriesce così magnificamente, così miracolosamente, dai fermo immagini dell’avanguardia europea tra otto e novecento, nei cui quadri, come nelle sue musiche, nelle sue poesie, sono incarnati tutti i palpiti e i fremiti di un’epoca al bivio. L’idea, nata proprio dalla considerazione “sul destino e sul bisogno delle arti di interagire, rapportarsi, contaminarsi”, come Plinio Perilli (abile supervisore e curatore poetico dei testi) precisa a margine del mini saggio di presentazione, mette in relazione infatti, o sarebbe meglio dire in scena, sei celebri ritratti dell’arte moderna smuovendoli dalla fissità della rappresentazione per provare a dare ragione nel racconto a quello spirito di vita raccolto poi in tutto il suo incanto- e in tutta la sua inquietudine dunque- nella geometrica parzialità della tela. Chi era, ad esempio, Adele Bloch-Bauer, la signora alto-borghese ritratta da Klimt o “La giovane Louise” lasciataci da Modigliani (solo per citare due delle figure qui celebrate) si chiedono e si chiede con rara maestria l’occhio indagatore della telecamera. E chi erano le altre quattro donne a cui anche a loro un indovinato testo poetico dà verso e bocca tra sogno e angoscia, inevitabilmente, secondo il segno dell’epoca? Perché la sortita in ogni arte è raggiungibile nella sola piena in cui un’esistenza, una ferita, consente d’essere accompagnata e cioè in una disposizione a più specchi, qui data come accennato non solo accostando ad ogni raffigurazione una poesia specifica di altrettanti grandi autori più o meno contemporanei ma dalla meraviglia filmica di La Carruba che in un solo corpo sa far parlare nitori e orizzonti diversi restituendo della parabola che si cela in ognuno di noi la fedeltà e la perseveranza, il copione (seppure a volte oscuro, ahinoi, troppo oscuro) e il labirinto (tutto ciò poi entro le maglie di una musica, pure!, che nella sua presenza aderente, mai preponderante è come un respiro o una coperta di cui tra l’altro, ambiguamente, non si è mai certi totalmente del bene). E cos’altro è quindi se non Amore, tornando all’accompagnamento e al racconto paziente di ciò che siamo, questa vigilanza, questa cura sostenuta, innaffiata ci verrebbe da dire, da una vocalità in concerto di colori, arie e impasti attoriali? Cos’altro se non il riconoscimento del mondo nel caldo e nel freddo a cui ci dispongono, e sollevato e preservato entro lo splendore di medesime corde in quel nucleo orientante fatto di vaglio e di memoria del peso? Non a caso, a proposito di vocalità alchemica ed essenziale del verbo, il riferimento immediato che torna alla mente- qui esplicitamente richiamato nel titolo de “La sesta vocale”- è al lascito infrenabile delle Voyelles rimbaudiane, a quel dolby di segni coraggiosamente aperto e disposto in quel circuito infinito di rotte per troppo tempo inascoltato- e nascosto- dentro al cuore e all’animo umano. E in questo play, in questo gioco serissimo rimesso in circolo sotto la spinta e per mezzo della vocale aggiunta- che sola le feconda tutte- l’Amore appunto: l’Amore ancora, generato e generante- e per questo sempre nuovo- che tutto comprende e sostiene, ogni cosa in nuovo stato illuminando e liberando. E che in quanto tale non punta l’indice ma sfila, semina nell’ascolto commosso di queste donne tra confessioni e smarrimenti, vanità e domini. Femmine, donne che insieme ai tratti di Modigliani e Klimt, crepitano anche in quelli di Munch, Matisse, Chagal, Picasso e, rispettivamente, contemporaneamente, dentro alle tavole vive delle parole di Schnitzler, Achmatova, Strindberg, Marie Noèl, Cvetaeva, Juana de Ibarbourou. Magia e realtà di un’arte il cui flusso, il cui plasma, per curiosa coincidenza, pare esser racchiuso proprio nei versi della Noèl per la Laurette matissiana: “io sono una Fonte/nel bosco che non sa,/sono l’acqua che nessuno/ beve nella corsa”. “Mistero che si offre in fiore a chi lo vuole cogliere” (come ci ricorderebbe Apollinaire, re forse d’ogni avanguardia), spazio che affacciandosi sempre ci conferma e sempre ci cancella- tra enigmi di finitudine ed imprimatur di terra - e che ne “La sesta vocale” oltre che dei summenzionati La Carruba e Perilli porta anche il nome degli attori Nina Maroccolo, audace performer, modella di modelle e Fabio Morici- Modigliani, le cui movenze in trasparenza ci han ricordato gli esili, filiformi omini di Giacometti; di Amedeo Morrone infine, dalle bellissime- bellissime!- foto di scena e di Gianni Maroccolo, della cui musica, essenzialmente prossima già è stato detto.



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