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Non temere la notte

di Fernando Massimiliano Andreoni
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Pubblicato il 25/02/2020 23:28:05

NON TEMERE LA NOTTE

 

 

Non sempre è come sembra

Ma sempre c’è una strada

Dagli astri ben voluta

Che mi conduce a te

 

 

 


 

La luna era alta nel cielo, rossa come un tizzone ardente. L’aveva vista altre volte così, ma con lo sguardo si soffermò a lungo ad ammirarla, mentre nella radura risuonava solo il rumore del suo respiro, pesante e potente al tempo stesso.

Il maschio si mosse dalla roccia su cui era rimasto accovacciato per molti minuti osservando il cielo. Mosse lentamente gli arti, osservando con la coda dell’occhio dietro di sé, quasi in attesa di qualche cenno di vita animale.

Il bosco si infittiva là davanti: castagni, pioppi e molti altri tipi di alberi si intrecciavano fornendo all’occhio uno sguardo d’insieme armonico e selvaggio. Mentre avanzava si accorse di essere già passato di lì altre volte: ombre di rami, radici che spuntavano dal terriccio umido e sabbioso avevano un aspetto familiare.

Rapidamente iniziò a muoversi tra i fusti degli alberi: all’interno della boscaglia la luce della luna filtrava in maniera irregolare, illuminando a tratti: una goccia di rugiada sembrava staccarsi da una foglia di acero, brillando con un riflesso azzurrognolo, il muso di uno scoiattolo spuntava dal cavo di un platano, con gli occhi strizzati perché colpiti da un raggio di luce e laggiù, in fondo a quello che appariva come un sentiero naturale, liane scendevano da alti arbusti e intrecciandosi, si muovevano quasi a passo di danza sotto una leggera brezza.

Ad un certo punto gli parve di non conoscere quel pezzo di foresta: molte volte l’aveva attraversata, segnando con tutti i sensi di cui la natura lo aveva dotato la mappa di quei luoghi, ma in quel momento, quel tratto particolare, sembrava completamente a lui nuovo e inesplorato.

Strizzò entrambi gli occhi nel tentativo di individuare elementi conosciuti: la corteccia di un albero, la sagoma di un tronco, il disegno di un ramo, ma niente destò la sua attenzione come un qualcosa di già incontrato.

Mentre procedeva molto lentamente osservò in terra una qualcosa di molto particolare: il terriccio era completamente sottosopra davanti al suo arto, e, pochi centimetri più avanti, si infossava abbondantemente. Avvicinandosi con estrema cautela i suoi occhi individuarono distintamente il perimetro di un’orma, una molto grande, quella di un predatore; sì quella di un orso.

Con un movimento molto più rapido dei precedenti cercò di scrutare meglio il terreno, per scoprire altre orme, per capire la direzione che doveva aver preso il grosso bestione, per decidere che fare, per scoprire da quale parte proseguire.

Le orme però non erano per niente chiare, e non ce ne erano molte altre nitide come la prima, quasi come se il predatore avesse deciso di muoversi sugli alberi. Pur intuendone l’impossibilità alzò gli occhi in alto per vedere se e cosa si muovesse tra i rami intorno a lui.

Per far questo trattenne il respiro per alcuni attimi: il timpano, da sempre molto sensibile, captò il canto notturno di una civetta che risuonava in lontananza, lo sciacquettio del rigagnolo che scorreva poco più avanti, e il fruscio del vento tra le foglie, oltre all’inesauribile verso di un paio di grilli che parevano comunicare a distanza.

L’analisi dei rumori circostanti lo tranquillizzò e si avvicinò al ruscello per bagnarsi le labbra e far scorrere qualche sorso d’acqua in bocca.

Intanto la luna si era spostata e in quel momento si era infilata quasi a forza tra i grossi rami di due faggi che si incrociavano proprio sopra lo scorrere dell’acqua, provenienti ognuno da una sponda diversa del torrente. Era come se avesse scelto di incastonarsi in una cornice naturale, e il riflesso di quel corpo tondo, ora meno rosso e più giallo di prima, gli colpì il centro di entrambe le pupille che, dal canto loro, brillarono di un rosso amaranto così scintillante che si sarebbe potuto vedere a centinaia di metri di distanza, come due piccoli fari sparati nel bosco.

Mosse la testa a destra e a sinistra e riprese a muoversi, sempre in cerca di sentieri conosciuti, fino a quel momento non ancora individuati.

Per qualche metro seguì il corso d’acqua e, quando questo deviò in maniera improvvisa verso destra, lui si voltò nella direzione opposta e vide che poco più avanti gli alberi si diradavano. Seguendo il proprio istinto arrivò fino a quel margine di foresta e scorse, in mezzo ad una specie di anfiteatro naturale, una roccia molto grande con un bordo a spiovente. Vi si avvicinò con circospezione, mentre con le orecchie cercava di ascoltare ogni piccolo suono o vibrazione, quasi a coprirsi le spalle e, arrivato in prossimità di essa, fu attratto da uno spettacolo impressionante.

La roccia si trovava al limitare della collina e, sotto di essa, il contorno della radura precipitava a strapiombo per alcune centinaia di metri. Ma non era questo che aveva destato la sua attenzione. Più avanti, laggiù, in mezzo all’orizzonte, si accendevano le luci della città: centinaia, migliaia, milioni di piccoli lumicini di tutti i colori illuminavano a giorno la pianura.

Si accucciò sulla roccia stranamente ancora calda del tepore del tramonto autunnale di qualche ora prima e, quasi con avidità, si mise a scrutare il panorama con estrema attenzione. Individuò facilmente strade, autostrade, aeroporti, dove le luci seguivano delle linee regolari, ma anche i grattacieli che, con l’alternanza di luci accese e luci spente disegnavano lo skyline della metropoli. Non si era mai addentrato con così attenzione in quel paesaggio notturno e, per qualche attimo, l’affanno che aveva sentito salire su dalle viscere fino alla gola parve placarsi. Guardava con ingordigia il muoversi degli elementi sull’orizzonte, persone, come piccolissime formiche in lontananza, ma anche mezzi meccanici, che muovevano le loro luci quasi fossero occhi e i cui suoni arrivavano sulla montagna come rumori ovattati e quasi privi di sonorità.

Improvvisamente un fruscio proveniente dal bosco lo fece sobbalzare. In un attimo si ritrovò all’estremità opposta della radura, con le orecchie attente ad ogni movimento, anche il più impercettibile. Ne scorse uno a circa ottanta piedi dalla sua posizione, poi settanta, poi più vicino. In un batter d’occhio si addentrò nuovamente tra gli alberi, mentre il rilievo su cui sorgeva la foresta diventava più scosceso.

Mentre procedeva con passi piuttosto sicuri un gufo si mosse poco sopra di lui facendolo sobbalzare e, nel movimento inconsulto e precipitoso, sbatté il viso contro un arbusto rampicante particolarmente robusto. L’impatto fu repentino e violento, anche se non interruppe il suo procedere, e gli lasciò il viso molto indolenzito nella porzione colpita.

Mentre radunava nuovamente tutte le sue energie, una piccola ferita sul labbro superiore provocò rapidamente la fuoriuscita di sangue. Senza fermarsi si leccò entrambe le labbra e un sapore dolce e acidulo al tempo stesso gli riempì le papille gustative, accompagnato da una sensazione di calore.

Era ormai arrivato sulla sommità della foresta che sempre più ripida, si stagliava con gli ultimi alberi verso il blu profondo del cielo mentre la luna, salendo da est, continuava a levarsi nell’oscurità della notte senza ancora essere arrivata al suo zenit.

Lì sotto, di nuovo, la montagna precipitava in una gola molto profonda, tanto che alcune piccole rocce schizzate sotto i suoi piedi impiegarono almeno un minuto per giungere in fondo alla vallata, raccontandone la distanza attraverso l’eco della loro caduta.

Dopo averne osservato l’ altezza si voltò di nuovo verso gli alberi che, di fronte a lui, segnavano la fine del bosco, e, in quel medesimo istante, sentì nuovamente, l’avanzare del rumore da cui aveva tentato invano di allontanarsi.

Quaranta piedi, trenta, venti, le foglie dei rami che iniziarono a muoversi in maniera quasi spasmodica e poi, sempre più vicino, un rumore goffo e a tratti fragoroso, smorzato e ansimante al tempo stesso, un misto tra l’affanno di un respiro ed un grugnito.

Fu il naso la prima cosa che spuntò dietro quegli alberi, un naso pronunciato che con energia iniettava aria nei polmoni e con altrettanta forza la espelleva insieme a liquidi e rantolii di vario genere. Ma attaccato a quel naso c’era l’enorme corpo di un pachiderma, un orso labiato, con la tipica macchia bianca sul muso, con le sue quasi trecentocinquanta libbre di peso addosso, e con un’aria impenetrabile tra il minaccioso ed il bonaccione.

Si fermò improvvisamente al limitare del bosco scorgendo una sagoma stagliarsi alla luce della luna sul bordo della montagna. I due maschi si osservarono in silenzio per lungo tempo. Non ci è dato di sapere che cosa sia passato per la testa dell’orso, mentre, leccandosi ancora con la lingua la ferita da cui non colava più alcuna goccia di sangue, l’altro maschio parve intravedere in quell’incontro un dejà-vu, quando, circa trenta lune prima, aveva incontrato un orso simile, e si era poi infilato in una grotta stretta e inaccessibile al grosso mammifero per evitare un’impari lotta.

Adesso era più adulto, adesso era più esperto, adesso aveva pochi attimi per decidere il da farsi. Senza che potesse evitarlo alcuni fotogrammi della sua vita gli si posero davanti: scene di vita, i suoi eredi, la garanzia del proseguo della sua stirpe, che giocavano ancora piccoli a rincorrersi in un prato pieno di margherite e di farfalle, l’odore del muschio sotto le radici degli alberi dopo una giornata di pioggia, l’immagine di un cervo che lo aveva guardato negli occhi in un atteggiamento di sfida durante una delle ultime battute di caccia.

Ma tutto questo in un paio di interminabili secondi. Subito dopo gli occhi dei due maschi si incrociarono, l’amaranto contro il grigio, pupille che nella notte scrutavano l’altro: la preda, il carnefice o, semplicemente l’avversario?

In quel preciso momento tra le zampe posteriori dell’orso si udì un altro movimento, ansimante e incerto, e la macchia bianca del muso di un piccolo orso fu la prima cosa che apparve sotto il dorso dell’orso adulto.

L’orsetto si leccò abbondantemente una zampa con la lingua e si raggomitolò sotto l’addome del genitore che con un colpetto affettuoso lo spostò e lo fece girare su se stesso. Appena il tempo di gettare un ultimo sguardo verso il profilo del suo rivale e l’orso sparì tra gli alberi spingendo amorevolmente il cucciolo davanti a se.

L’altro maschio respirò a pieni polmoni, osservò la luna, ora completamente bianca, che si stagliava nel punto più alto della volta celeste, mentre da est brillavano nella profondità del cielo boreale Andromeda, Pegaso, l’Acquario e la costellazione dei Pesci e, con passi lenti e misurati, arrivò fin sotto la quercia che delimitava il confine nord della montagna.

Dal limitare del bosco, silenziosa e inaspettata, si avvicinò la sagoma di un altro essere, una femmina, che senza quasi produrre alcun rumore gli si avvicinò, sfiorandone il petto.

E mentre una nuvola copriva parte della luna, il viso della femmina si avvicinò a quello del maschio, fino ad annusarne l’odore, e a sincronizzare il respiro. Il battito di ali di un falco che in picchiata si lanciava su una preda ruppe la magia di quel silenzio, i visi dei due lupi, finalmente vicini, si sfiorarono e il loro accovacciare il muso sulla spalla dell’altro si stagliò sullo sfondo della luce della luna. Avrebbero trascorso lì la notte, accovacciati sotto l’occhio delle stelle.

 

02 ottobre 2016


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