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Immacolata intercessione

Romanzo

Carlo Kik Ditto
Il ramo e la foglia edizioni

Recensione di Antonio Piscitelli
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Pubblicato il 19/11/2021 12:00:00

 

«LA FIGLIATA»

 

«Ma io credo ca pe’ sta’ bbuono a stu munno

o tutte ll’uommene avarriano ‘a essere femmene

o tutt’’e ffemmene avarriano ‘a essere uommene

o nun ce avarriano ‘a essere

né uommene né femmene

pe’ ffa’ tutta na vita cuieta…

… e haggio ritto bbuono!»

[Roberto De Simone, La gatta cenerentola]

 

La rappresentazione più recente del rito propiziatorio partenopeo ce la offre il film di Ferzan Ozpetek, Napoli velata (2017). La recita emula un fenomeno noto agli psicologi come “sindrome della couvade”, una vera e propria sintomatologia psicosomatica presente nei maschi alla prima gestazione della consorte. Percepiscono i disturbi della gravidanza o addirittura le doglie del parto. In termini antropologici si sa che, presso alcune popolazioni primitive, gli uomini fingono il travaglio dello sgravio per prepararsi alla paternità.

A Napoli il cerimoniale, oggi ripetuto come spettacolo per turisti, ha radici antichissime, probabilmente greco-romane, e potrebbe essere legato al culto di Ermafrodito e alle sue lontane origini asiatiche (Shiva e Parvati fusi in una forma androgina, Ardhanarishvara). L’intreccio di credenze e liturgie della fertilità ha sempre una spiccata simbologia erotica e spesso prelude alla confusione dei ruoli sessuali. Potrebbe trattarsi di inconsapevole anamnesi dello stadio embrionale nel quale femminilità e mascolinità erano confuse e indistinte. Quale che sia la spiegazione razionale delle odierne tradizioni, c’è probabilmente in ciascuno di noi come un senso di incompiutezza, per ciò che non siamo o non siamo potuti diventare. Le donne che vorrebbero essere uomini e gli uomini che vorrebbero essere donne sono l’apice di un’aspirazione più o meno consapevole all’intersessualità. Come spiegare, altrimenti, che consuetudini di antichissima fonte stentino ad estinguersi e che, anzi, trovino nuova linfa nelle rivisitazioni della contemporaneità? Immacolata intercessione di Carlo Kik Ditto è probabilmente l’aggiornamento di usanze necessarie alla sopravvivenza, in termini antropologico-culturali, di una comunità. Le ritualità sociali, piaccia o meno, sono il collante di una collettività che non vuole essere soffocata da innovazioni esogene. A dispetto della risibile ambientazione americana, il romanzo di Ditto racconta Napoli e le sue dissacranti manifestazioni pubbliche, che non al folclore alludono, ma a una primigenia identità. Così “la figliata” è qualcosa di più e di diverso dalla rappresentazione del pittoresco. È espressione di un atto di fede nel novero infinito delle possibilità. Che un uomo partorisca è surreale; ma la somma divinità nella quale crede Unicorn, se può infrangere le leggi di natura e rendere gravida una vergine attraverso una mistica fecondazione, può ben concedere, per grazia, a un maschio di partorire. Poco importa che gravida resti una transessuale, sta di fatto che la femminilità artatamente acquisita diventi autentica nella dimensione onirica e irrazionale del racconto.

L’eventualità che il fatto si verifichi è un atto di fede possibile nel tipo di religiosità praticata a Napoli, credibilmente non a Chicago. La devozione napoletana è intrisa di usanze pagane, nei confronti delle quali non c’è stata gerarchia ecclesiastica che non abbia abbozzato. Fin dai primi secoli la Chiesa ufficiale ha dovuto venire a patti con le ritualità comastiche radicate nelle tradizioni greco-latine, trasformandole come poteva in riti cristiani. Le romerie e alcuni tipi di pellegrinaggi sono eredità di antichi baccanali, feste orgiastiche nelle quali crapula e copula si presentano come surrettizie pratiche in felice connubio. Si informi, il lettore di queste note, cosa sono, in Campania, i pellegrinaggi al santuario di Montevergine o a quello della Madonna dell’Arco.

Qualcuno saprà che il Carnevale è un tempo liturgico di tipo penitenziale. Ma quanti, nella percezione comune, ne intendono il significato? Per i più si tratta di un periodo di trasgressioni durante il quale il vietato è autorizzato e l’indicibile è dicibile. Sospensione condizionale della pena! Pena di vivere, intendo. I vari Carnevale celebrati nel mondo sono, più o meno, feste pagane durante le quali ogni disubbidienza è concessa (ogni scherzo vale). I paludamenti dietro i quali celiamo le nostre identità ci consentono, verosimilmente, di essere, almeno una volta all’anno, ciò che non siamo. Il mascheramento potrebbe bene intendersi come bisogno di un’identità diversa, inclusa quella di genere.

Pochissimi ricorderanno com’era un tempo il Carnevale a Napoli. Parlo di un’epoca non lontanissima, ma sufficientemente distante per supporre l’assenza di una vera e propria consapevolezza delle frustranti e repressive norme sociali. Bene, i napoletani festeggiavano il Carnevale in questo modo: i maschi si vestivano da donna e le donne da maschio, andando poi in giro per le strade ad esibire, suppongo, più che un’omosessualità latente, un bisogno inconsapevole di provare l’ebbrezza di una differente identità sessuale, un’ancestrale memoria delle potenzialità dell’embrione dal quale ciascuno, per mera casualità, ha poi derivato il sesso anatomico, non senza nutrire nostalgia per l’anatomia sacrificata all’altare della necessità. Ciascuno di noi poteva essere di sesso diverso e non lo è stato. Ma per alcuni dei partecipanti alla mascherata era davvero la realizzazione di un sogno segreto. La transessualità era una chimera, per le metodologie mediche ancora rudimentali in buona sostanza e pericolose per quelli che vi si sottoponevano, come dimostra il bel film di Tom Hooper, The Danish girl (2015). Fino a tutti gli anni Cinquanta del secolo scorso il cambio di sesso si fermava al travestitismo e non andava oltre. Tuttavia, tale pratica come liturgia collettiva ci dice molto più della mera crisi di identità. Ci suggerisce che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo desiderato o immaginato di avere un sesso diverso, per curiosità forse, ma anche perché vorremmo sapere cosa prova il nostro, abituale o meno, partner sessuale. Un maschio potrebbe chiedersi: cosa avverte una donna, in cosa consiste il suo piacere rispetto al nostro? Cosa vuol dire essere penetrati?

Sembra che anche il maschio abbia un’area di elevato potenziale erogeno radiante situata in corrispondenza della prostata. Un surrogato della cervice uterina? Ne conoscono l’esistenza solo i gay o anche gli eterosessuali? Il celebre film di Bernardo Bertolucci, Ultimo tango a Parigi, risponde in qualche misura alla domanda. Pare, tuttavia, che molti etero temano che la cosiddetta stimolazione prostatica comprometta la loro virilità e dunque si astengano dal praticarla. Un pregiudizio come un altro, sembrerebbe, soprattutto se la sollecitazione è di tipo endoscopico. In altri termini, un dito, un oggetto apposito o anche un pene dovrebbe penetrare l’orifizio anale fino a circa cinque-sette centimetri per raggiungere la prostata e stimolarne l’area erogena. Per alcuni maschi inclini alla castigatezza una pratica del genere è considerata non virile. Ma altri sedicenti eterosessuali non si sottraggono all’esercizio della penetrazione di altri maschi, supponendo in tal modo di aver fatta salva la loro mascolinità, senza considerare che il partner è dotato di pene come loro e che dunque il rapporto è certamente omosessuale. Per altro verso il preteso passivo talvolta si compiace del ruolo femminile che il partner supposto etero gli attribuisce perché immaginare di essere amato da un vero stallone amplifica la percezione del piacere. Sono tutti piccoli escamotage che la psiche elabora per gratificare l’identità negletta, ignara della circostanza che l’individualità, comunque si manifesti, è un diritto sacrosanto che nessuno dovrebbe mettere in discussione. Malauguratamente i pregiudizi sono difficili da combattere quando sono conseguenza di culture ataviche fortemente radicate nelle comunità.

Il protagonista del romanzo di Ditto è un maschio omosessuale di aspetto virile. È un gettonato pornodivo, di carattere volitivo, fortemente sicuro di sé, non privo di un pizzico di narcisismo legato alla fisionomia e alle dimensioni del suo pene. Il lavoro che svolge è per pochi privilegiati. Coniugare gradevolezza fisica e misure falliche non è proprio da tutti. Per lui è una specie di missione finalizzata a dare piacere ai fan. Si atteggia anche a benefattore dell’umanità. Troppe qualità per un sol uomo. Intanto mi sento di affermare che le dimensioni spropositate del sesso non sono sinonimo di potenza o appagamento sessuale. I tessuti cavernosi necessitano di un adeguato afflusso di sangue. Un fallo smisurato non ne riceve a sufficienza e dunque regge l’erezione a fatica o non la regge affatto. Uno svantaggio piuttosto che un vantaggio per una stella del porno. È per questo che penso che rappresentare l’enormità dei peni sia piuttosto retaggio di religioni primordiali veneranti divinità itifalliche, le più celebri delle quali furono Priapo e Dioniso. I grandi peni che spesso vediamo comparire sui muri delle nostre città sono simulacri che non rinviano a nessuna realtà sottogiacente. Hanno un valore apotropaico o propiziatorio, per chi ci crede. Manifestano una fede o rivelano un’angoscia, quando non un complesso di inferiorità. Il cornetto della superstizione napoletana (il nome d’arte Unicorn lo evoca) è un simbolo derivante dalla forma del fallo.

Queste osservazioni mi consentono di interpretare una delle sequenze più raccapriccianti del libro di Dotti nel suo valore simbolico di rito propiziatorio della fertilità. Compaiono ben cento attori maschi, più il protagonista, in un unico film porno. Cento amplessi anali subiti nell’arco di poche ore e un mare di liquido seminale. Non credo esista nulla del genere nella pur nutrita produzione pornografica. Devo pensare a una liturgia della fertilità concomitante del miracoloso stato di gravidanza di Shebop, la trans coprotagonista del romanzo.

Intendo dire che la vicenda è così paradossale che dev’essere per forza riconducibile alla tradizionale simbologia della figliata napoletana e ascrivibile alla letteratura antropologica che vanta non pochi precursori, non ultimo dei quali quel Roberto De Simone citato in esergo che, esattamente tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, attraverso opere di grande successo, diede dignità artistica e autentica drammaticità al personaggio del femminello tipico della cultura popolare campana. Intorno alla sua drammaturgia in musica ruotarono giovani autori che diedero lustro al teatro napoletano e variamente trattarono la commistione tra sessualità e religione nella sensibilità del volgo: Annibale Ruccello, Enzo Moscato, Manlio Santanelli, Franco Autiero, Francesco Silvestri, Ruggero Cappuccio, Fortunato Calvino.

In “Festa al celeste e nubile santuario” di Enzo Moscato puoi rinvenire il connubio sesso-religione che caratterizza Unicorn. La figura iconica del femminello è celebrata nel noto documentario di Fortunato Calvino su Carmelo Cosma (La Tarantina).

Dalla nutrita letteratura sui temi dell’altra sessualità potrebbe avere attinto Dotti nel progettare il suo racconto. Potrebbe essersi mosso sulla scia di Curzio Malaparte (La pelle), Giuseppe Patroni Griffi (Scende giù per Toledo). Penso anche al film Splendori e miserie di Madame Royale, opera notevole del compianto Vittorio Caprioli, oppure a Mater Natura di Massimo Andrei e, ovviamente, alla vasta produzione hollywoodiana più convenzionale, in relazione all’ambientazione e alla caratterizzazione (per la verità poco credibile) dei personaggi, che appaiono come una parodia degli americani. La figura di Shebop somiglia ad alcune omologhe della recente serie Netflix intitolata Pose, puta caso ambientata negli stessi anni del romanzo nel contesto dell’house system newyorkese. L’esotismo è il peccato di tanti che si affacciano alla letteratura, ahimè! Per molti giovani scrittori sprovveduti un nome straniero è sufficiente a dare spessore e anima al personaggio e pensano che ambientare una storia in un posto lontano dalla patria renda più accattivante l’opera. Sindrome di Alberto Sordi la chiamerei, se non fosse che l’americanismo di Sordi avesse un carattere smaccatamente parodico. Elena Ferrante scrive di Napoli e i suoi numerosi lettori americani l’apprezzano per questo.

Ecco, se il lettore immagina Napoli come scenario, tutto diviene meno improbabile e l’intera vicenda potrebbe postillare la riedizione di Sud e magia. Intendo dire che una lettura in chiave etnologica si rende necessaria, se si vuole escludere la gratuità dell’operazione. In altre parole, il libro di marcatamente letterario ha poco, mentre sul fronte dell’investigazione psico-etno-antropologica ha più cose da dire di quanto, a priva vista, appaia.

Peregrina, almeno per me, è l’esplorazione di un universo che non conosco o conosco marginalmente. Non sono mai stato sul set di un film pornografico e meno che mai mi sono imbattuto in una pornostar. Invece Dotti ci prende per mano e ci porta nel bel mezzo di riprese hard, ce le descrive, ci lascia immaginare l’apparato scenico e il canovaccio. Ne ha esperienza? Sa di che parla? Non ne ho idea. So che la postfazione è firmata da Ettore Tosi. Carneade! Chi era costui? Cerco il nome sul web e scopro trattarsi di un attore pornografico, regista e produttore cinematografico italiano, che lavora esclusivamente nel campo della pornografia gay. Fin qui Wikipedia. Dunque, uno del mestiere che potrebbe bene essere stato il consulente dello scrittore. Il suo commento al romanzo ne certifica la verosimiglianza, almeno relativamente alla rappresentazione degli ambienti della pornografia. Ci dice che, dietro i Big Jim dello schermo, si celano anime che palpitano e cuori che ardono. Mai messo in dubbio l’assunto! E tuttavia vorrei saperne di più. Non esprimo giudizi di valore, ma di realtà. Non sono un moralista e mai lo sarò, nondimeno pretendo di sapere in quale contesto di legalità si muove la pornografia, come sta messa col fisco, chi investe nelle lucrose produzioni, quali garanzie di sicurezza ricevono gli attori e soprattutto che fine faranno quando dovranno per necessità ritirarsi dalle scene. Mi preoccupo degli esseri umani e nessuno può negare che i pornodivi lo siano. Non mi importa come si guadagna da vivere la gente, fatta salva la sua dignità. Apodittica, in qualche misura, è l’umanità del pornodivo che trovo nel penultimo romanzo di Massimo Carlotto, La signora del martedì. Leggere per credere.

La scopofilia è sempre esistita, persino in epoche in cui la pornografia era di là da venire. Recentemente ho letto un saggio sui nudi artistici come mezzo di turbamento carnale o incentivo all’onanismo. Un corpo ben fatto può suscitare “cattivi pensieri” e non me ne preoccuperei più di tanto. Se potessimo leggere nella mente della gente, troveremmo un bel po’ di oscenità. Oggi i bei corpi non sono solo immagini, appartengono a uomini e donne viventi. Rispettarne diritti e sicurezza è sacrosanto, come per chiunque. Niente raggiri, niente costrizioni, niente sfruttamento, sia ben chiaro!

Per il mestiere che faccio non posso esimermi da marginali notazioni di carattere critico e valutare la forma del romanzo sul quale ho fin qui sproloquiato.

Mentre sul fronte del narrato mi pare che lo scrittore poco curi prosodia e ritmo del discorso, sul versante drammaturgico l’eccesso di dialogato sovraccarica il testo sacrificandone la fruibilità. Vedete, in un romanzo, i dialoghi sono la cosa più difficile da scrivere. Si corre il rischio di farne un pastrocchio e di compromettere l’attenzione del lettore. Per farmi intendere cito la sceneggiatura di un film-commedia americano ben costruito. Il film, nelle sue due versioni, è tratto da un testo teatrale, dunque girato tutto in interni. Gioco di macchina e dialoghi efficaci sono fondamentali, servono a tener desta l’attenzione dello spettatore e ad acuire la drammaticità dello spettacolo. The Boys in the Band di Mart Crowley (versione teatrale e duplice versione filmica) è un buon esempio per due comprensibili ragioni: i personaggi sono tutti omosessuali di sesso maschile; i loro dialoghi sono serrati e fortemente caratterizzanti non della categoria, che è una semplice e banale invenzione ghettizzante, ma degli individui. Le categorie sono astrazioni, gli individui sono personalità. Le parole che pronunciano sono espressioni di sé, non so se mi spiego. Se l’autore non gliele mette in bocca in maniera fortemente caratterizzante, nell’annullare la personalità, ne sopprime la raffigurazione e la funzione. Sparisce il dramma di cui ciascuno di loro è portatore e banalizza la vicenda. Insomma, i personaggi diventano maschere della Commedia dell’Arte. Bisogna tradire le attese del lettore/spettatore, evitare i cliché se non si vogliono alimentare pericolosi pregiudizi. Non sono certo che l’autore di Immacolata intercessione voglia questo. Spero che qualcuno mi capisca.

Ho finito? Sì, ho proprio finito!

 

📸 The Real Lady Stretch

in uno scatto di Garth Meyer https://garthmeyer.com/

 


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