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A CESARE PAVESE

di Maria Musik
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Pubblicato il 13/06/2008

Perché ti sei ucciso, come la tua Rosetta, in un’anonima stanza d’albergo, ingollando sonniferi come un comune mortale che voglia lasciare la vita senza farsi troppo male? “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.
Ma a me non hai chiesto perdono!
Cosa avevi da farti perdonare da una che neanche era nata quando ti sei ammazzato?
La tua morte, la tua stupida morte.
Mi hai costretto ad amare un morto: i tuoi occhiali, il tuo corpo magro da intellettuale, le tue esili braccia, i tuoi capelli neri. Nulla di tutto questo c’era più quando ho cominciato ad amarti.
Avevo diciotto anni, pazza di te e dei tuoi libri, delle tue poesie. E ti ho difeso da tutti i professori che ti volevano simbolo del neo-decadentismo, che ti facevano incapace di conciliare arte e vita, che parlavano con spregio della tua “inutile” sensibilità, che ti descrivevano incapace di rapporti umani, inadeguato nei confronti della realtà, politicamente inetto.
Per te mi sono giocata il voto all’esame di maturità. Il commissario d’Italiano diceva che eri un vigliacco, perché ti eri ammazzato. Ed io ti ho difeso, come ti ho difeso... come neanche tu avresti potuto perché, forse, ti credevi un vigliacco.
Quella tua incompiutezza, quella dolorosa indecisione, quella edonistica ricerca dell’inutilità del vivere io l’ho amate e le amo ancora… dopo trenta anni, le amo ancora.
Non c’era niente di eroico e perfetto in te e la tua imperfezione mi fa ancora impazzire. Trattavi male le donne? Quanto avrei voluto essere stata trattata male da te.
A diciotto anni pensavo che, se quella fatidica sera avessi chiamato me, sarei corsa a salvarti, non ti avrei lasciato morire.
Ora, che sono donna fatta, so che non avrei potuto fare nulla per fermarti e che ti amerò per sempre, vivo e morto, fragile poeta che ha attraversato la mia vita, segnandola con il suo dolore.
E ti perdono!

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