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I pilastri della Terra

Romanzo

Ken Follett
Mondadori

Recensione di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 14/12/2010 12:00:00

Ken Follett non ha certo bisogno di presentazioni, il suo libro "I pilastri della terra" e il successivo "Mondo senza fine", tornati prepotentemente sui banchi delle librerie, devono certamente qualcosa alla straordinaria versione cinematografica di Ridley Scott presentata in esclusiva per Sky Cinema. E non tanto per rinverdire un successo letterario strepitoso, quanto per ripercorrere lo "straordinario" che nei due romanzi è contenuto. Quel tanto che per noi lettori serve ad addolcire gli effetti alienanti, prodotti dagli odierni media, e dalla massificazione elettronica, segnalando la necessità di tornare a una maggiore cura dell'io narrante a vantaggio di un colloquio con ciò che la scrittura ha di più intimo e sensibile. In cui lo "straordinario" è soprattutto inteso come "memoria storica", "immaginazione visiva", di quel "reincanto" che in sociologia ha significato di recupero della fase storica in cui viviamo, troppo spesso dismessi o assenti nel linguaggio e nella scrittura odierna, nonché come reazione all'instabilità del mondo contemporaneo. Come appunto scrive M. Longo: "Che muove una riflessione che dai classici (Durkheim, Weber, Simmel) attraversa tutta la ricerca sociologica del Novecento (Parsons, Horkheimer, Adorno) fino al dibattito attuale. Con l'ipotesi che, mentre la prima modernità ha prodotto un'immagine disincantata del mondo (Weber), in quella contemporanea si manifestano "reincanti" che rendono più tollerabile per il singolo la crisi delle certezze e l'instabilità dei punti di riferimento". La scrittura e la lettura di un "romanzo" così concepito, che affronta temi a tutto tondo quali le guerre, le passioni, le speranze degli uomini nell'Inghilterra del XII secolo, intorno alla costruzione di un’imponente cattedrale, che come "un sogno di pietra che si staglia contro il cielo", si traducono qui in monumento letterario che va oltre il suo impaginato per restituire alla memoria ciò che è stato. Come qualcosa che verosimilmente l'autore ricrea, rileggendo e reinterpretando la storia in chiave fantasy, archeologia futura, repertorio d’immagini già immaginate, che va a sostituire l'immaginario con l'immaginazione, in un repertorio che è lavoro creativo, personale, realisticamente immaginato. "L'unico vero realista - diceva Federico Fellini - è il visionario che sta sempre altrove rispetto a dove sembra che stia. L'occhio del visionario può ricreare il ricordo, riconfigurandolo e inventandolo nuovamente, intendendolo come resistenza al principio di realtà". Allo stesso modo Italo Calvino afferma che esistono due tipi di processi immaginativi: "... Quello che parte dalla parola e arriva all'immagine visiva (avviene nella lettura, quando leggiamo siamo portati a vedere la scena come se si svolgesse di fronte a noi); e quello che dall'immagine visiva arriva alla parola. E questo avviene nel cinema. L'immagine che vediamo passa prima attraverso un testo scritto, poi attraverso la vista mentale del regista è poi ricostruita sul set e fissata in fotogrammi". Sostenendo inoltre che: " ... il cinema mentale dell'immaginazione ha una funzione simile a quelle delle sequenze che sono prima registrate e poi montate (.) nell'esperienza dello scrittore fantastico, al quale, nell'ideazione di un racconto, la prima immagine che gli si crea nella mente è quella che gli si presenta più carica di significato". Si è qui presi dall'enfasi di un romanzo rivolto appunto al recupero della memoria, lì dove la memoria è meno prevedibile e meno motivata dall'esigenza razionale, rispetto all'intelligenza e all'azione. Così come la memoria – scrive Asor Rosa: "..è, oltre che inesplicabile, anche inesauribile, possiede la conoscenza del passato, ma ha anche memoria di sé: persone, oggetti, cose di cui ognuno fa esperienza. .. Se i tempi della vita sono: presente, passato e futuro, quello della memoria, è invece la simultaneità, che coincide con l'identità. Il nostro "non tempo", va arricchendosi sempre di nuovi particolari in cui immaginazione e realtà si mescolano, e attraverso le quali l'uomo non fa che costruire, decostruire e ricostruire se stesso". Quale mescolanza d’immaginario e realtà, la memoria storica va comunque tutelata, sia che miri a ottenere risultati oggettivi contrastanti, sia che ponga obiettivi determinati come appunto accade in I Pilastri della Terra, in cui l’autore ci restituisce la storia rivisitata e filtrata dalla memoria, che si fa così racconto, dispiegandosi liberamente senza frapposizione di ostacoli. In Follett, infatti, la memoria storica, reale o verosimilmente ricreata, ha molti rimandi oggettivi quanto letterari, come ad esempio ci permette di ricordare una straordinaria Mostra sul duomo di Modena vista nel lontano Luglio '84 (a cura di Claudio Franzoni), intitolata "Quando le cattedrali erano bianche", dall’omonimo libro di Le Corbousier del 1937, anni in cui affermava: "Nel corso degli anni, mi sono sentito diventare sempre più un uomo di dovunque". Inutile dire che lo sguardo del celebrato architetto, il cui testo consacrava il lirismo logico del suo essere creativo, non era rivolto solo al mondo dell'architettura, anche se esso, costituiva per lui una pietra di paragone, un messaggio sociale, una profezia capace d'interpretare le speranze di rinnovamento di un'intera civiltà, per la frequente contrapposizione storica tra il vecchio e il nuovo continente. Tutto ciò è quanto mai attuale se applicato al tempo in cui l'Europa tutta riorganizzava le arti e i mestieri dietro l’azione imperativa di una tecnica di costruzione completamente innovativa, e gli uomini erano piuttosto artisti che non semplici plasmatori di materia e che riempie l'altro tomo "Mondo senza fine" di cui già il cinema si è appropriato, con buon auspicio per l'autore. E che è quanto poi ricorre nel romanzo di Follett, che va dal medioevo fino a ieri, cioè fino a quando la costruzione dell'uomo (e della società) sembra essersi fermata, prima di ritrovarsi all'interno di una rievocazione storica in chiave mystery, ricca e attenta, incentrata sulla mistica sospensione dell'amore, quasi da sfiorare l'inverosimile per la ricercatezza degli orpelli e l'ordine estetico. E in questo, il sequel cinematografico, è un po' carico e fin troppo "limpido" ma, comunque, artisticamente valido. Pur se, diversamente, nel romanzo la storia d'amore assume la dimensione epica, che si svolge nell'Inghilterra medioevale al tempo della costruzione di una cattedrale gotica, con la stessa infallibile suspense che caratterizza tutti i thriller di Follett: la sua corsa contro il tempo. Ed è in questa dinamica della corsa dietro la fugacità del tempo che si registra quel "mi sono sentito diventare sempre più un uomo di dovunque" di Le Corbousier in cui, anche noi, di fronte alla costruzione, (impossibile), della grandiosa cattedrale, finiamo per ritrovarci davanti a quel reincanto che è la costruzione stessa dell'uomo, nel ripetersi di quel primitivo incanto originario ricevuto nel momento della creazione. Il rincarnarsi dell'uomo nella crescita e nella sua evoluzione, con i suoi sentimenti e intrighi, i pericoli e le minacce, le guerre civili e le carestie, i conflitti religiosi e le lotte per la successione di troni, in un momento storico che oso definire "esemplare" dell'avventura e della sopravvivenza umana. Lì dove l'uomo faber infine si è imposto e ha creato la sua civiltà, la sua gabbia dorata, e ha trovato la sua redenzione nell'elogio dell'altro. E che, alla stregua di tanta arte, evidenzia una storia di ambizioni e di coraggio, di dedizione e tradimenti, amori e vendette, ove si scontrano le segrete aspirazioni e i sentimenti dei protagonisti, di quegli uomini che come tutti noi, verosimilmente compiono la storia. È sullo sfondo di questo tempo, che oso definire del reincanto, che tuttavia si sovrappone al tempo del timor sacro, onde il voler evidenziare l'incertezza che ci spinge, paradossalmente, a pensare il tragico, a incontrare e vivere la morte come un'assenza. Come pure accadeva in "Il nome della rosa" di Umberto Eco, (il primo grande capolavoro del genere), nel romanzo di Follett, si respira l'integrazione della morte come il migliore e l'unico modo per esorcizzare il tragico, rappresentato dalla sublimazione artistica della costruzione della cattedrale, per cui l'impostazione creativa va oltre quanto offerto dalla quotidianità, per superare di gran lunga la forma letteraria, sospingendosi inesorabilmente verso il pensiero virtuale moderno. Pensiero che tuttavia è capace di far esplodere nuovamente il mito, e mostrare il re-incantamento del mondo, come un mix di gesta leggendarie dove cavalieri e dame di corte sono protagonisti di gesta eroiche, quasi a voler indicare che è proprio questo nostro essere ludico, giocoso del bambino che muove le marionette, che in fondo anima la nostra vita quotidiana, e che ha nome: destino. Dan Brown (ad esempio) è molto lontano da tutto questo, né i film tratti dai suoi romanzi, sfondano lo schermo. Neppure il film del pur eccellente Ridley Scott, in questo non va oltre il romanzo di per sé copioso, comunque scritto e plausibilmente tradotto in maniera eccellente, dove al contrario troviamo l'impeccabile arte di narratore del più celebrato scrittore contemporaneo.

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