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Fuga da Recanati

di Giulia Bellucci
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Pubblicato il 20/06/2017 12:30:14

Dopo tre ore e mezza di viaggio, eccoci, finalmente, giunte alla nostra meta, Recanati. Parcheggiammo distante da Palazzo Leopardi.  Mi accompagnavano le mie inseparabili amiche, Laura e Maria; frequentavamo insieme la facoltà di Lettere Classiche all'Università di Roma. Io stavo ultimando la mia tesi di laurea su Giacomo Leopardi. 

Scendemmo dalla macchina e mi sentii subito trasportata in un'altra dimensione. L'emozione di visitare i luoghi, laddove era maturato il pensiero poetico e filosofico di Leopardi, intensificava in me i già presenti brividi dovuti alla febbre. 

"Sicura di stare bene, Teresa?" chiese Maria.

"Ho preso una tachipirina. Ora mi passa."

Recanati è un paese sito su un colle, dal quale lo sguardo si perde spaziando nei dintorni. Prima di procedere, ci soffermammo un po' a guardare il panorama affacciati da una ringhiera lungo la strada: era il mese di maggio e ciò che si poteva scorgere da lassù era un vero tripudio di colori. Da una parte si intravedeva il Monte Conero che domina sui dintorni e in lontananza  l'azzurro del mare con la riviera adriatica, dall'altra parte, invece, si potevano ammirare le campagne variopinte perché variamente coltivate: vaste zone di marrone dei campi arati alternati al verde scuro degli alberi ed al verde più brillante delle coltivazioni.  Dopo esserci deliziate dell'amena vista, abbiamo proseguito all'interno delle mura quattrocentesche che delimitano il centro antico. Il pensiero che si faceva  spazio nella mia mente, era: 'Chissà quante volte il grande Leopardi percorse queste strade e cosa provava percorrendole? '  La strada ci portò direttamente davanti a Palazzo Leopardi, la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai suoi discendenti, ma è in parte messa a disposizione del pubblico, difatti è possibile visitarne la biblioteca, che custodisce oltre 20.000 volumi, raccolti dal padre del poeta, il conte Monaldo. Ed era proprio da lì che sarebbe iniziato il nostro giro, per poi proseguire verso il Colle dell'Infinito e quindi la Torre del Passero Solitario.

La Biblioteca mi apparve subito molto suggestiva anche se aveva un aspetto davvero austero e freddo. Migliaia di testi posti su tutte le pareti, irrefrenabile era il desiderio di prenderne uno a caso e sfogliarlo. Vicino ad una finestra c'era lo scrittoio di Giacomo, dove aveva speso il suo miglior tempo tra le sudate carte. Sopra vi stava ancora il suo calamaio. Mi chiedevo: 'come si può immaginare un fanciullo rinchiuso oggi in questa biblioteca, invece di giocare spensierato, come fanno i ragazzini del nostro tempo? Sembra contro natura. Ma d'altronde, se non fosse stato così, oggi non potremmo godere della bellezza racchiusa nella sua produzione letteraria'. Mi pareva di vederlo lì seduto che ogni tanto si alzava e si avvicinava alla finestra per porgere l'orecchio ad ascoltare la soave voce della giovanissima 'Silvia'. 

Dopo aver sostato per un po' all'interno della Biblioteca, ci dirigemmo all'esterno verso la cima del monte Tabor, ossia il colle dell'Infinito. Proseguii da sola poiché Laura e Maria dovettero tornare verso la macchina per recuperare le pillole per l'asma di Maria.

Giunsi all'interno del parco posto sulla cima del monte, dove trovai le indicazioni per il Centro Mondiale della Poesia e della Cultura, sede di manifestazioni culturali varie. Io mi diressi verso la muraglia con su scritto: Colle dell'Infinito. Il panorama era bellissimo, si riusciva ad avere una percezione dello spazio circostante straordinaria. Osservando il paesaggio da là, Leopardi diede vita all'Infinito, massima espressione, secondo molti, della sua poetica. Ciò che sentii in quel momento fu un'emozione grande e mi sentii come sotto ipnosi e trasportata in un passato di cui giammai fui testimone. Mi sedetti per un po' sul prato verde e dopo aver osservato il cielo di maggio limpido, totalmente sgombro da ogni nuvola, chiusi gli occhi per pochi minuti ricordando l'Infinito. Poi mi rialzai e a pochi passi da me scorsi, seduto con fogli e calamaio, uno strano giovane. Non pareva affatto del mio tempo, aveva lo sguardo perso nel vuoto ed un'aria alquanto malaticcia, il viso molto pallido. I suoi vestiti mi parvero ottocenteschi. Avendo deciso di proseguire, non appena mi avessero raggiunto le mie amiche, verso la torre del Passero solitario, pensai, con qualche incertezza, di chiedergli informazioni. Avvicinandomi mi resi conto che doveva essere poco più di un ragazzo, aveva l'aria di essere totalmente immerso nella lettura dei fogli che teneva in mano. 

"Mi scusi, posso disturbarla un attimo?" chiesi.

Alzò lo sguardo dai suoi figli e si soffermò con tenerezza sui miei. Intravidi in quegli occhi tanta tristezza, ma dopo qualche secondo si accesero meravigliati: "Teresa, siete voi?" domandò. Pensai tra me: 'ma come fa a sapere il mio nome? Dove ci saremo conosciuti? Possibile che io non ricordi'. 

"Si, sono io", risposi con grande incertezza.

Allora si alzò quasi di scatto, così di scatto che gli caddero i fogli e il calamaio per terra. La sua postura era completamente incurvata in avanti. D'istinto mi abbassai a raccogliere i fogli e, dando una sbirciatina fugace, lessi: "Sempre caro mi fu quest'ermo colle/.....", poi li consegnai all'uomo che mi stava di fronte. Ero alquanto incredula, restai ammutolita, letteralmente senza parole: non poteva essere reale. Riprendendosi i fogli, l'uomo mi disse: "Mi avevano detto che eravate morta un anno fa. Pensavo che la vita fosse stata così crudele a troncare la vostra giovane vita nel pieno dei sogni e delle più belle speranze. Mi hanno ingannato! Ma allora anche per me ci possono essere speranze ancora".

D'istinto, con gli occhi bagnati di lacrime, per la forte emozione che mi assaliva in quell'istante, risposi:

"Certo che c'è speranza. C'è sempre speranza". Pronunciai quelle parole con una convinzione tale, che lo sconosciuto che mi stava di fronte ne risultò nell'aspetto totalmente rinfrancato. Fu un istante e poi nella mia mente si riaffacciò la domanda: "Ma voi chi siete? Come mi conoscete?".

Egli mi guardò stupito e rispose: "Sono Giacomo, il figlio del conte Leopardi, per cui lavora vostro padre". Seguirono attimi di silenzio, in cui io non sapevo come rispondere. Quel tale era Giacomo Leopardi che mi scambiava per Teresa Fattorini?

Fu lui a rompere il silenzio ancora una volta: "Ma se non eravate morta, dove siete stata tutto questo tempo?".

"A Roma".

"A Roma! Sapevate che dopo la vostra presunta morte ho tentato di fuggire anch'io da Recanati, progettavo di andare a Milano, ma non avevo il passaporto, quindi mio padre ne è venuto a conoscenza e mi ha fermato. Da allora mi fa sorvegliare sempre anche da vostro padre. Non vuole concedermi di andare via, di conoscere il resto del mondo".

"Ma perché desiderate tanto fuggire da Recanati, qui è così bello".

"Non è Recanati, bensì la gente. Qui ho speso i miei migliori anni nello studio profondo ma la gente non mi capisce, quasi con disprezzo dicono di me saccentuzzo, filosofo, eremita. Unico divertimento a Recanati è  lo studio: l'unico divertimento è quello che mi ammazza. Al di fuori di Recanati c'è la vita ed io devo tentare ancora, prima che per me sia tardi, perché magari sarò già morto".

Allungò la sua mano e raccolse la mia, poi mi guardò, quasi implorandomi: "Se voi siete riuscita ad andare via, aiutatemi, indicatemi una via. Di voi sento di potermi fidare, di altri no".

"Va bene, vi aiuterò. Ci sono le mie amiche che mi attendono lungo la strada che esce da Recanati. Seguitemi, possiamo portarvi con noi fino a Roma".

"Allora raggiungiamo le vostre amiche prima che qualcuno ci possa vedere".

Camminavamo l'uno a fianco dell'altro sulla strada che scendeva dal colle. C'era silenzio, non sapevo cosa dire, ero stata così impulsiva: ma come avrei potuto negare il mio aiuto proprio a lui? All'improvviso, passando davanti a Palazzo Leopardi, udimmo un forte rumore simile ad un ringhiare di cani. Ci volgemmo nella direzione di provenienza dello stesso e scorgemmo un signore, anch'esso in abiti ottocenteschi, con due cani enormi, che veniva verso di noi, urlando: "Conte Giacomo, dove andate? fermatevi! Vostro padre vi cerca."

Indugiammo un attimo a guardarci negli occhi, ma all'improvviso i cani si lanciarono abbaiando verso di me. Iniziai a correre all'impazzata, non vedevo più nulla. Poi all'improvviso inciampai e caddi. Quindi persi i sensi. 

"Teresa!" rinvenni e vidi  Laura e Maria chine su di me. Intorno c'era molta gente accorsa da ogni parte.

"Ricorda cosa è successo? Come si sente?" mi chiedeva qualcuno che mi stava visitando, certamente un medico. Mi ripresi subito e non seppi spiegare nulla di ciò che era accaduto, sebbene il ricordo fosse ben nitido in me. Una volta tranquillizzate sul mio stato di salute, riprendemmo la strada per Roma. Più tardi, cercando i miei occhiali, nella tasca della mia borsa rinvenni una penna d'oca identica a quella con cui avevo visto scrivere il giovane incontrato sul Colle. Ma allora era stato tutto reale?

 

 

 

 

 


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