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Così si mantenevano in vita

Poesia

Enrico Diciotti (Biografia)
LietoColle

Recensione di Roberto Maggiani
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Pubblicato il 03/12/2010 12:00:00

Enrico Diciotti, classe 1960, è nato a Siena e vive nella campagna senese, “Così si mantenevano in vita” è la sua opera prima, vi raccoglie poesie scritte in brevi periodi che vanno dal 1984 al 2005. La raccolta è senza prefazione o introduzione, mi ha subito incuriosito il titolo, evocante stratagemmi esistenziali per mantenersi in vita. Fin dai primi versi ha raccolto la mia attenzione: “Accipicchia”, mi son detto, “questa è poesia, raccoglie dall’ovunque i miei pensieri, qui e ora, come fossero una necessità inconscia proprio queste parole e i loro significati così ben articolati a comporre, con chiarezza di scrittura, un mosaico di importanti e variegate sfumature”. Ho trovato una lingua trasparente, e proprio per questo universale, parole come luce bianca, invisibile nel vuoto, ma che non appena trova la materia, alberi, paesaggi, persone, nell’incontro e nel riflesso diventa visibile e rende visibile il mondo, diversificandosi sulle dissimili caratteristiche fisiche dei soggetti illuminati.
La seconda poesia, intitolata “La baracca” (pagina 10, leggibile alla fine di questa mia scrittura), mi ha letteralmente convinto sulla poesia di Diciotti, avrei potuto fermarmi lì, quella poesia valeva già tutto il libro; come ho già avuto modo di dire altrove, una poesia da sola può giustificare un’intera raccolta poetica, se non addirittura l’intera ricerca poetica di un autore. Infatti penso che l’intera scrittura di un poeta non sia soltanto rappresentata da una somma di versi e di poesie, bensì dalla singolarità della sua scrittura, che talvolta può esprimersi anche in una sola poesia, quella che sembra scritta proprio per me lettore, quella che mi rassomiglia, quella che io avrei scritto se avessi saputo-potuto-intuito, ecco, quella è la poesia che giustifica tanta scrittura e ricerca poetica, e non davanti all’umanità dei lettori, ma al singolo lettore. Se anche un lettore/uditore non trovasse in un poeta una sola poesia per sé stesso, quel poeta non avrebbe giustificazione nella sua scrittura, perché la poesia è universale e penso che un poeta debba avere anche una sola parola valida per ognuno dei lettori/uditori. Ma proseguendo nella lettura di questo poeta ho trovato molti altri testi stupendi, animati da una sana cortesia verso la natura, ho trovato uno sguardo attento, quasi fotografico, che sa registrare colori pieni e sfumature, queste ultime espresse e ravvivate nel gioco della parola, mai ostentata, sempre snella, leggera, adatta, che si interseca perfettamente con il senso e le sensazioni che vuole evocare. C’è un’intenzione di fondo nei testi di Diciotti che è esemplare, forse non ci sono novità nella sua scrittura rispetto a quella del Novecento, così come non ci sono novità nella natura, ma nello stesso tempo la natura si presenta sempre nuova, sempre ci stupisce, ci rasserena o ci rende inquieti, mai ci stufiamo di essa, per quanto apparentemente si ripresenti uguale nelle varie stagioni. Così, allo stesso modo, nella poesia di Diciotti non c’è nulla di nuovo, ma allo stesso tempo è tutto nuovo, tutto bello, godibile, inquieta o rasserena. La sua poesia rasenta la naturale insistente presenza delle cose create, proprio perché di esse parla. E’ veramente sorprendente che una scrittura così bella sia uscita solo ora allo scoperto. Ci sono poesie scritte nel 1984 che solo oggi, nel 2010, leggiamo in questa sua prima opera, voglio riportare quella intitolata “Un cipresso” (pagina 25), scritta a 24 anni:

L’alto cipresso nero nella luce
che affoca il campo immoto lento oscilla
il suo vertice aguzzo, come se
un dio nell’antro delle fronde cave
lo sommovesse arcano.
Nell’assenza
della terra sepolta sotto il sole
non visti ci specchiamo: il mio respiro
è il suo corpo flottante, il suo inarcarsi
traccia lo spazio aereo del mio esserci.


Una poesia dal profumo esistenziale, a mio avviso notevole proprio per il suo carattere di semplicità, il poeta descrive in pochi versi la propria simbiosi con il cipresso nel quale si identifica e dal quale è rappresentato. E’ una poesia che si comprende, è universale, semplice e ben scritta, ma come sempre esprimo solo un parere personale, da lettore e amante dei versi.
Oppure a pagina 50 la montaliana poesia “Per che cosa per chi”, va a scavare nel senso del mondo e traccia e segue un percorso su quel dubbio esistenziale che affiora dall’anima che ferve sotto la responsabilità di una chiamata all’esistenza, e di quest’ultima, fatta di azioni, fatti e oggetti, cerca di trovare motivazioni e rendere conto a un Sé interiore e profondamente legato al buon senso del mondo che in un “dietro”, nella trama intessuta sul pensiero del poeta, rivela oscillazioni e tagli e sovrapposizioni e incertezze. E non a caso la raccolta termina con un climax verso un’assenza e una ricerca di segni, attraverso riti e gesti come messaggi, nel caos del conclamato non senso, attraverso i quali “cercavano di mantenersi in vita”, sperando forse in una risposta da quel “cielo bianco dell’inverno”:

in quell’assenza ogni cosa poteva
essere un segno.

e così gettavano nel vento
pugni di polvere rossa,
leggevano i rifiuti, il fango e le crepe dei muri,
pisciavano tracciando sull’asfalto
linee, cerchi e spirali.

Bruciavano bidoni di gasolio
per inviare neri
messaggi al cielo bianco dell’inverno
quanto più muto tanto più invincibile.


Fin dall’inizio del libro le poesie sfilano come fotogrammi sulla natura di colori e forme e sensazioni di colori e forme, per poi, improvvisamente, degenerare, implodendo nel non senso esistenziale: grattando, sotto sotto, ci deve essere qualcosa che dia ragione a tanta bellezza, che è l’esistenza, e al fluire dei giorni.
Complimenti, dunque, a Enrico Diciotti, attendiamo di proporre su LaRecherche.it una sua poesia inedita come poesia della settimana. Intanto dal libro riporto la poesia “La baracca”:

deflagrò all’improvviso l’azzurro divorando
la cornice degli archi. Ombre stinte passarono
confondendosi l’una nell’altra, spinte
da soffi impercettibili. Mi chiamasti, ma quando
voltai la testa non vidi che il brillio
dei tuoi occhi svanire nell’impronta di biacca
che era stata il tuo corpo.
Poi in silenzio crollò
la baracca


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