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Quell’andarsene nel buio dei cortili

Poesia

Milo De Angelis
Lo Specchio - Mondadori

Recensione di Giorgio Linguaglossa
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Pubblicato il 11/01/2011 12:00:00

SPOSTARE IL CENTRO DI GRAVITA’


Scriveva Franco Fortini nei suoi «appunti di poetica» nel 1962: «Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi. La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».
Ritengo queste osservazioni di Fortini del tutto pertinenti anche dopo cinquanta anni dalla loro stesura. I problemi di fondo non sono cambiati e non bastano cinquanta anni a modificare certe invarianti delle istituzioni stilistiche. Vorrei dire, per semplificare, che certe cattive abitudini di certe istituzioni stilistiche, tendono a riprodursi nella misura in cui tendono a sclerotizzarsi certe condizioni non stilistiche. Al fondo della questione resta, ora come allora, il «consenso sui fondamenti della commozione». Insomma, attraverso la lettura e l’ingrandimento di certi dettagli stilistici puoi radiografare e fotografare la fideiussione stilistica (e non) che sta al di sotto di certe valorizzazioni stilistiche; ed anche: che certe retorizzazioni sono consustanziali alle invarianti del gusto, del movimento delle opinioni, alla adesione intorno al fatto poetico… insomma.
Non c’è dubbio che nella poesia di Milo De Angelis si rinviene uno sbilanciamento dei rapporti poetici in favore dei «rapporti predicativi (aggettivali)» rispetto a «quelli operativi», ovvero, «sintattici», così che il punto di equilibrio passa dai rapporti ritmici e sintattici a quelli dis-metrici, dalla funzione sostantivale a quella aggettivale. In questo senso, il primo libro di De Angelis Somiglianze (1976) è un esempio impareggiabile, e mai più eguagliato, (nonostante una quarantennale imitazione da parte di una innumerevole schiera di epigoni), di spostamento dei rapporti poetici dalla funzione sostantivale a quella aggettivale. Si direbbe che il «nuovo» modo di intendere la funzione poetica inaugurato dal poeta milanese sia stato baciato dalle labbra di un successo onnilaterale e incondizionato durato quasi trentacinque anni e, si ritiene, che debba durare almeno per altrettanto in quanto certi disequilibri di fondo delle istituzioni stilistiche novecentesche sono, di fatto, rimasti immutati. Voglio dire che certo «consenso» «sui fondamenti della commozione» (come diceva Fortini), è rimasto immutato (e destinato ad essere immutabile) perché sono rimasti immutati i sottostanti fondamenti, appunto, della «commozione»: il registro lirico di De Angelis nell’arco di un trentacinquennio si è venuto così a sclerotizzarsi in una esondazione maggioritaria del principio aggettivale rispetto all’altro piatto della bilancia del principio sostanziale e sostantivale. E qui sarebbe il caso di andare ad indagare sul perché la poesia italiana del tardo Novecento abbia subito la esondazione del principio aggettivale senza neanche tentare una linea di resistenza almeno difensiva. Non voglio dire che ci sia stata una supina e generalizzata accettazione del «nuovo» uso della funzione poetica perché una tale affermazione non sarebbe vera, ma, di fatto, tale «linea di resistenza difensiva» è rimasta inascoltata, è rimasta minoritaria. Come non pensare alla poesia di un Ripellino o a quella di una Helle Busacca o a quella di Maria Rosaria Madonna, di Salvatore Toma, di Giuseppe Pedota e di Maria Marchesi (tanto per citare soltanto poeti morti) se non come un tentativo di raddrizzare lo sbilanciamento dei rapporti tra le istituzioni stilistiche?
Di fatto, però, (lo so, forse è paradossale) è avvenuto che una poesia di indubbia caratura come quella di De Angelis abbia finito per ridurre (ulteriormente) gli spazi di manovra e di affermazione di una poesia «diversa» che si richiamasse alla via fortiniana del principio sostanziale rispetto a quello aggettivale.
Tutta incentrata sul piano emotivo e sulla commozione emozionale, la poesia di De Angelis rivela una predilezione, ed un uso asintotico, per l’impiego di una aggettivazione sghemba, che taglia obliquamente il sostantivo… una aggettivazione incantatoria, convalescenziale, febbricitante. Già il titolo con «quell’andarsene nel buio dei cortili», dove «la luce parlava. Sulla tua fronte / il prodigio. La nudità / di tutto il sangue. Un vestito…», è sintomatico di quella ricerca dell’originalità a tutti i costi… quando si sa innanzitutto che la luce non parla e non può parlare, che il sangue non può mai essere nudo, che la fronte non fa nessun prodigio e così via… i metaforismi di De Angelis sono dei travestimenti che ormai non sorprendono più nessuno, sono un linguaggio che rivela la sclerosi multipla della significazione, un impiego telefonato delle retorizzazioni, un uso abilissimo dell’abbecedario delle variazioni del principio aggettivale.
Di fatto, e nei fatti, la poesia di De Angelis ha contribuito in modo determinante a spostare il centro di gravità della poesia italiana del tardo Novecento verso, come detto, il piatto della raffigurazione dei sentimenti e delle emozioni, delle effrazioni delle emozioni mediante l’impiego di metaforismi e una imagery rigorosamente «intensificata». Scrivere che «Il citofono chiede ancora la tua voce», è una brillante ma scontata e prevedibile inversione dei nessi logici e causali del linguaggio strumentale, ma quando frasari simili invadono la totalità del testo poetico si ha, per contraccolpo, una desertificazione, un isterilimento della significazione: forse sarebbe stato più vantaggioso invertire nel modo seguente: «la voce chiede ancora il citofono», il che avrebbe avuto più senso.
Ma quand’anche, sta di fatto che questo impiego generalizzato e, ritengo, quasi inconsapevole da parte dell’autore milanese, di inversioni, ellissi, accentuazioni, iperboli, ablativi al posto di nominativi, e viceversa produce l’affievolimento della attenzione critica da parte del lettore intelligente il quale viene bersagliato e soggiogato e infine assopito da una enorme massa di inversioni logico-sintattiche del tutto gratuite ed arbitrarie e di una produzione irriflessa di espressioni aggettivali. Potrei continuare con centinaia di altri esempi ma sarebbe un esercizio scolastico e stucchevole. Sempre per restare nella stessa composizione a pag. 55 si legge:

«Un vestito. / i gialli, gli azzurri, / un colletto. Il citofono chiede ancora / la tua voce. Se non parli, / tutto si oscura. Solitudine saliente. / Solitudine innata…».

Non c’è dubbio che qui siamo dinanzi ad un fenomeno di idioletto, di sillabazione in stato semi ipnotico, di lallismo in stato di veglia… la poesia è ridotta a veicolare lo stato semi comatoso della coscienza, del dormiveglia, degli irrazionalismi e delle pulsioni, di incomprensibili lacerti di memoria.
Si ha la sensazione, leggendo questo tipo di poesia, che il mondo sia diventato più lontano e incomprensibile.

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