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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Il Cimitero di Praga

Narrativa

Umberto Eco
Bompiani

Recensione di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 08/02/2011 12:00:00

Fin dalla prima pagina è come aggirarsi all’interno di un vecchio Emporio e più precisamente nel reparto cristallerie e porcellane, tra le vetrine specchiate, infrante dalla luce diafana, luccicante di rimandi, tra immagini doppie, triple, di trasparenze che insorgono e subito si nascondono, nel breve spazio che intercorre tra un corridoio e l’altro, tra una vetrina e l’altra, tra uno specchio e l’altro, all’infinito. Guai ad aprirne incautamente una, è come se tutto ciò che era fermo si metta in movimento, che il bel vaso di Sèvres che stavamo ammirando all’improvviso scompaia, che la coppa di Baccarat urti contro le dozzine di altre, sì da far sembrare come se tutto stia per rovinare sul pavimento lustro infrangendosi in milioni di pezzi. Sono cristalli di vetro, stalattiti di ghiaccio taglienti come lame d’acciaio che, al pari di allucinazioni, inseguono i nostri sguardi stupefatti, impressionati, sbalorditi, si rincorrono tra vicoli e viuzze spesso senza via d’uscita, ci si stringono addosso per non lasciarci passare agilmente. Un labirinto oscuro e polveroso (già, la polvere, ma quella è tutt’altra storia) in cui l’autore vuole intrappolare l’affaccendato lettore e costringerlo a perdersi, nel rimando a un passato fin troppo presente, a quella realtà quasi sconcertante che è il nostro “surrealismo” quotidiano. È allora che, catturati dall’enfasi scrittoria dell’autore (che non ha bisogno di presentazione), entriamo nella fiction letteraria e ci fa dono di quella “meraviglia” che è il suo linguaggio: ora opaco di terracotta ruvida (degli errori e orrori della storia), ora di porcellana fine (personaggi e luoghi poco conosciuti), e pur sempre cristallino, di vetro soffiato (alchemico e misterioso), con un’eleganza verbale, una scioltezza di linguaggio tale da poter riscrivere tutto il dizionario italiano, dove perdersi, infine, nei meandri di quella realtà “immaginaria” che fa di Eco l’architetto della “storia”, sebbene traslitterata, proscritta e profuga che non conosciamo, solo perché abbiamo chiuso l’uditorio a ciò che è “altro”, o forse “l’altrui” che rifiutiamo, e che spesso si avvicina, più d’ogni altra cosa, alla realtà che viviamo. Se, come scrive Teilhard de Chardin, “Solo il fantastico ha qualche possibilità di essere reale”, allora l’immaginario mondo ricostruito per noi dall’infaticabile Eco, è l’unico dei mondi possibili: quell’Emporio di cristallo dove forse ci perderemmo e tutto potrebbe caderci addosso infrangendosi, ma che è anche il luogo dove poterci rincontrare e riaprire le porte a quella libertà di dialogo che c’è tolta.


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