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Una storia arrogante

di Stefano Ficagna
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Pubblicato il 18/05/2018 19:00:57

Questa è una storia arrogante.
Lo è per svariati motivi, primo fra tutti il modo in cui essa si autodefinisce tale nel titolo e, vieppiù, nelle prime righe, come in preda ad un autocompiacimento onanistico. Il linguaggio forbito con cui si presenta al lettore, mediante l’uso borioso di termini desueti, esprime poi una tracotanza d’intenti che questi potrà probabilmente recepire come uno sfregio, un orpello stilistico che necessita una buona giustificazione per non causare nella di lui mente una sensazione di rifiuto, il desiderio sdegnato d’interromper la lettura. L’autore, mentre intento alla poco gratificante occupazione lavorativa giornaliera sentiva accendersi la flebile fammella dell’ispirazione, non pensava inizialmente di servirsi di simili vezzi linguistici nell’atto di vergare le parole sulla pagina, né tantomeno di ergere sé stesso quale deus ex machina all’interno della storia che ivi sta narrando. In terza persona poi, quale ennesima dimostrazione di sproporzionata ambizione!
V’era da parlare, inizialmente, di quattro mura e dei di queste proprietari. Ma la storia, insoddisfatta di tanta noncuranza, pretende che si scavi a fondo nei concetti. Quattro mura? Perché, se in realtà son tre? Non s’ha infatti da contare il muro che volge ad est, a tutti gli effetti parte della residenza del vicino. Il giallo ocra che le riveste deve essere altresì evidenziato, ponendo l’accento sulla particolarità di una simile scelta cromatica in contrasto con l’imperante distesa di toni, fra il lattiginoso bianco ed il freddo e quieto turchese, delle dimore vicine.
Vi è poi da dar dignità alle pareti interne, subito, senza procrastinare, giacché l’idea iniziale le vede inanimate protagoniste dei drammi ancora là da accadere. La muffa causata dall’umidità negli angoli, i segni che le sfregiano dovuti all’incuria nel maneggiar o trasportare oggetti, la sensazione di claustrofobia che evocano quelle strette e ravvicinate del minuscolo bagno...e là, guardando nel dettaglio, quella piccola e quasi invisibile rientranza lungo la parete del corridoio, che se solo avesse parole da esprimere racconterebbe di sfoghi improvvisi d’ira, di frustrazione sopita e pronta ad esploder nuovamente. E tutto questo limitandoci al tempo attuale, in cui la nostra storia si vuol collocare! Forse si vuol evitare di pensare a quanto un personaggio ben riuscito (e le nostre mura e pareti tale figura ambiscono a rappresentare) debba la propria imperitura fama tanto alle proprie azioni quanto a quel bagaglio di emozioni, ricordi e vicissitudini che lo hanno formato e che, ora, lo giustificano quale elemento credibile della vicenda? Ecco doveroso quindi dilungarsi sui materiali di costruzione, sulla loro provenienza, sulla foggia grezza ed al contempo imperiosa che essi ostentavano mentre venivano estratti dalle profondità terrene, pronti a mostrarsi orgogliosi alla luce del sole o della luna, su tutti quei procedimenti laboriosi che gli hanno permesso alfine di arrivare qui, oggi, a svolgere il loro necessario ed ineludibile ruolo.
Perso in simili dissertazioni interiori l’autore ha un moto di stupore, rendendosi improvvisamente conto di non aver dato ancora alcuna spiegazione del motivo per il quale tali mura e pareti debbano essere così importanti. Si ritrova a dubitare di tale dotta parentesi, dell’effettiva utilità che un simile profluvio di parole possa avere nell’atto di veicolare i concetti che gli preme far risaltare. Eppure la vergogna di aver pensato ad un termine iniziale erroneo, quelle quattro mura che invece son tre, lo spinge a doversi giustificare di fronte alla storia che vuol narrare: forse che, ripiegando su di un generico edificio, si possa evitare di sottostare a tali e tante premesse, rimandando e diluendo il momento in cui il luogo acquisirà il beneficio dei dettagli accessori?
La storia, subdola, acconsente al cambio di terminologia ed alla proroga delle comunque necessarie delucidazioni in merito al luogo che – sia ben chiaro nella mente dell’autore – non è solo preposto all’azione, ma è di questa anche l’indissolubile complice!
Un sospiro di sollievo esce dalle labbra dell’autore mentre si appresta a poggiare la penna sul foglio, con l’intenzione di parlar finalmente dei proprietari dell’immobile. Ma ecco che, dalla prima stilla di inchiostro che si poggia sulla pagina, un nuovo fervore si impadronisce della storia, esigente un ulteriore tributo alla leziosità di informazioni che solo un profano oserebbe definire superflue.
Come poter infatti soggiacere al concetto di proprietà senza aver neppure tentato di dare una definizione ontologica del termine? Cosa infatti dà modo ai protagonisti, ancora una generica coppia formata da un lui ed una lei, di rivendicare il proprio possesso? I soldi? Ah! Come se un comune mezzo, tanto squallido oltretutto, potesse e dovesse essere posto a metro di paragone della natura umana, solo perché la società odierna ne è schiava: individui senza un grammo dell’energia primigenia che infuocava l’uomo agli albori della sua comparsa terrena che schiavizzano i veri eredi di quell’ardore primitivo, ingabbiati come animali dietro sottili ed invisibili sbarre di parole e numeri, che rifiutano in nome di una ideale rivincita della passione istintiva sulla logica. Anche ammettendo la possibilità che essi abbiano costruito la casa da sé non bisognerebbe analizzare comunque cosa, in nome degli dei, avrebbe dato loro diritto di utilizzo sui materiali primari, piuttosto che sulla terra ove essa sorge? Un documento del catasto non è che carta straccia di fronte alla predestinazione al possesso, al modo in cui un uomo può ergersi, in tutta la sua grandezza, nell’atto di rivendicare qualcosa. La terra gli appartiene di diritto? Giammai! Ma lo sforzo che egli protende nel legittimare i suoi averi, nel dar luogo ad una conquista che i posteri potranno narrare con orgoglio...questo, e molto altro, dovrebbe servire per poter cominciare a chiamare i protagonisti “proprietari”.
E possiamo forse tralasciare l’importanza del loro desiderio, dell’orgoglio che scaturisce dall’essere finalmente giunti al punto in cui le loro pretese di possesso sono esaudite? Si abbozza l’idea che i nostri soggetti lavorino entrambi, abbiano interessi disparati al di fuori delle pareti del focolare domestico, e che ivi spesso giacciano con meno consapevolezza di ciò che li circonda di quanto non faccia il gatto di casa, un bastardo rosso e ben pasciuto, re solitario per svariate ore al giorno e per questo forse ben più meritevole del rispetto che si deve ad un padrone di casa. Mentre lei di notte dorme, rigida in una posizione supina che la fa somigliare ad una defunta, non continua a ticchettare imperterrito in cucina l’orologio a cucù, quello che lui ha voluto a tutti i costi appendere vicino alla porta, fra un termometro malfunzionante ed un tavolino su cui sonnecchia il forno a microonde? Ad un esterno, una creatura di un altro mondo od universo, chi sembrerà più inanimato? Come può una simildonna, indegna di un intrico di ingranaggi e lancette, accampar pretese di possesso?
L’autore si ferma, confuso. Non doveva spiegare meglio ciò che per lui conta, l’intreccio, il dipanarsi di una trama? Forse evitando quel termine tanto inviso alla storia, regredendo i protagonisti da quel ruolo tanto altezzoso a quello di semplici abitanti, si potrebbe ottener di soprassedere a tutti questi complicati ed obiettivamente sprezzanti discorsi, tanto più che, con un moto di comprensibile vergogna, ammette con sé stesso (ma cerca di tenerlo nascosto alla storia) di aver pensato alla coppia come due semplici affittuari.
Abitanti, generico, limpido, asettico. Dopotutto si deve parlar d’altro, no?
Ma certo caro, lo blandisce sbarazzina la storia, abitanti è un’ottima soluzione. Guarda però, rincara, guarda quanto hai già scritto. Val la pena di gettar via tutto, rigettar queste parole fluite con tanta naturalezza per assemblare altri concetti in un artificio che ne sminuisca il valore? Assuefarsi all’ordine logico di un’idea piuttosto che al fuoco dell’ispirazione del momento, l’improvvisazione, l’urgenza creativa? Suvvia, non essere sciocco!
Ma l’autore lo è sciocco, e solo ora si rende conto del suo ruolo infimo di pedina nelle mani di un abile giocatore. Che stolto son stato io, manovrato da una storia di cui avrei dovuto esser guida e padrone! Dopo un’ora di elucubrazioni non c’è verso di costringersi a buttar via tutto, non resta che prostrarsi al volere di una storia che da premessa si è fatta testo, e del contesto si è impadronita con un imperioso colpo da maestro. E l’idea, il fuoco originario, che fine farà? Privata del giallo ocra, del muro confinante, del gatto, del cucù e della posa notturna immobile di lei, come potrà viver di vita propria privata degli elementi che le appartenevano di diritto? La storia è gelosa ed infida, non permetterà che glieli si strappi: per l’idea, acquattata in attesa nei recessi della memoria da lungo tempo, si prospetta forse l’oblio proprio ora che era stata liberata dalle nebbie della mancanza d’ispirazione? E’ questo ciò che quella storia truffaldina otterrà, con la sua conquista della ribalta?
Eccola, la sua arroganza solenne, quella d’impadronirsi dello spazio preposto ad altri. L’autore sa che ormai non può privarla della luce che ha conquistato, che gli deve quel posto, anche al prezzo di dover perder nuovamente di vista ciò che veramente gli premeva raccontare. La bolleranno, gli anemici critici, come esercizio di stile fine a sé stesso, la sminuiranno definendola quel tipo di storia che titilla di onanistica delizia più la mente di chi scrive che quella di chi legge. Anche se qui, in realtà, chi legge quasi non v’è, perché l’autore non pubblica: scrive per sé e per quei due o tre che, a tempi alterni, hanno piacere o si sentono in dovere di esprimere un parere sul di lui operato.
Valeva quindi la pena, per una storia che si basta da sé, di arrogarsi il diritto d’esser scritta? Essa risponderà prontamente, altezzosa, con subitanea certezza: sì, perché ora esisto. E che siano due o due milioni coloro che mi incontreranno lungo il cammino poco importa, che siano anzi anche zero! Potrò permettermi anche di non piacere, perché sarà l’autore a far da scudo alla mia tracotanza con l’evidente incapacità di cui l’accuserò a più riprese, uomo meschino che non è riuscito a ricavare ambrosia per gli occhi e le orecchie dal mio enorme potenziale. E, se dovessi invece piacere, non mancherò di ricordargli quanto mi deve, di far presente in maniera incessante alla sua patetica figura che una storia come me avrebbe reso grande chiunque.

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