Un lungometraggio di Km di scrittura dinamica come solo può esserlo lo scorrere della pellicola sullo schermo eppure non è un film, bensì il reportage autentico di un dopoguerra visto attraverso lo sguardo, un tantino cinico e distaccato, del viaggiatore eclettico quale poteva essere John Dos Passos nel 1925/27. Ma non immaginatevi un percorso visto soltanto attraverso il finestrino del treno, in quegli anni, almeno fino a oltre il 1950, l’Orient Express non era ancora la gloria delle ferrovie nel mondo, piuttosto rappresentava un viaggio nel segno dell’avventura, che il guizzo rapido dell’autore, con una scrittura lineare e avulsa da pregiudizi di sorta, racconta con brio e un pizzico di ironia, senza lasciarsi prendere da facili sentimentalismi o piagnistei sulle cause e le conseguenze di un sfacelo imperiale che stravolse il mondo. Lo si direbbe un diario di viaggio, e almeno in parte lo è, se non fosse per quella trama sottile che l’autore insegue in ogni pagina, quasi come in un romanzo noir, e che porta a fare del suo viaggio, un costante avvenimento di situazioni e circostanze che arricchiscono il viaggiatore di notizie sugli usi e i costumi della gente che incontra, sui modi di essere e di comportarsi di intere popolazioni viste attraverso il caleidoscopio del reporter colto e raffinato che serba la sua dignità sulla punta della penna. Chissà se forse la vecchia ricaricabile col pennino d’oro non abbia influenzato la sua scrittura (?), tant’è che risulta erudita ed efficace ad ogni passaggio, senza urti e scossoni di sorta. Tale da lasciarmi pensare, che seppure qua e là dovesse risultare un poco approssimativa, lo si debba a un difetto di traduzione. Ma come si sa il passaggio da una lingua all’altra necessariamente lascia indietro qualcosa, che invece nella trama non sembra aver perso niente. Il percorso ferroviario che, solo ipoteticamente all’epoca era ‘diretto’ da Venezia attraverso i Balcani fino a Costantinopoli, e di lì attraverso i Balcani fino a Baghdad e Damasco, non corre su un binario unico o preferenziale. Come nel “giro del mondo” di Verne si è qui alle prese con interruzioni e soste improvvise, personaggi che entrano ed escono dalla scena in un battibaleno, giusto il tempo di prendere un tè, una volta nell’antica Bisanzio, un altra a Trebisonda o lungo le pendici dell’Ararat, un’altra a Baghdad e ancora a Damasco “in nome della Libertà, dell’Uguaglianza e della Fraternità”. Ma non sono questi i temi della Marsigliese, come lo erano un tempo della Rivoluzione? Di quel passato e di quegli sfaceli non poi così remoto che sembra non averci insegnato niente, se ancora oggi stiamo qui a combattere gli uni contro gli altri, per la supremazia di questo e l’altro stato, per la subordinazione di uno o l’altro popolo, come se non fossimo tutti uguali, tutti quanti bisognosi di pace e di serenità. Che cosa ci facciamo noi qui? Dove stiamo andando? Lo stesso Dos Passos se lo chiedeva già allora se scrive: “Con il passare dei giorni, le colline si fanno sempre più aride e spoglie, (..) e poi ci ritroviamo a serpeggiare tra un mare verde brillante e promontori gialli riarsi dal sole. D’un tratto il treno è intrappolato in mezzo a mura fatiscenti color senape, e le rotaie si infilano tra cipressi e cumuli di immondizia, (..) e poi si arresta impercettibilmente come a un binario morto”. E dire ch’era solo ieri, e il tempo davvero sembra essere passato invano.
John Dos Passos (1896-1970) scrittore e giornalista è l’autore di alcuni capisaldi della letteratura americana come Manhattan Transfer, 42° parallelo, e altri. Viaggiatore fin dall’infanzia, non smise mai di spingersi al di là dei confini statunitensi: dal Medio Oriente al Messico, dalla Russia al Sudamerica. Il suo tenace impegno politico, che lo portò in Spagna durante la guerra civile, ne fa una delle figure più significative e turbolente nel panorama degli intellettuali del Novecento.