Pubblicato il 03/04/2010 19:44:37
Mi chiamo Miryam. Sono una donna Masalit. Il mio villaggio si chiamava Balla. Oggi non esiste più. La notte in cui vennero i Janjaweed fu la notte dei demoni. Nel villaggio eravamo rimaste noi donne, i nostri bambini e pochi vecchi. E per noi, solo per noi, fu fuoco in cielo e terra. Mentre dall’alto piovevano bombe, i demoni abbattevano le nostre case, bruciavano gli abiti, le coperte, le provviste. Il pozzo fu fatto saltare. Gridando, scappavamo, senza vedere dove, fra fumo e polvere. Mi sentii prendere per le caviglie e, mentre cadevo in terra, cercavo di spingere avanti i miei due figli. Risucchiata sotto il corpo di un uomo, fui violentata. Poi, mi strapparono i vestiti e mi presero, uno dopo l’altro. Non so dire in quanti: svenni o morii, non so come, non so perchè mi risvegliai; intorno solo rovine, carogne d’animali e i corpi straziati della mia gente. L’odore di carne bruciata mozzava il fiato. Vagai, rovesciando piccoli cadaveri, folle ed incurante del dolore e del sangue che mi colava giù dal ventre. Poi li trovai, abbracciati l’uno all’altro, dilaniati dagli artigli dei demoni. In un angolo, accovacciato nella polvere, un vecchio piangeva, dondolandosi avanti e indietro, come portato dal vento e le lacrime lavavano l’urina con cui avevano profanato i nostri Corani. Allora e solo allora, urlai, urlai con quanto fiato avevo in gola; urlai contro il cielo, urlai contro mio marito che combatteva non so dove, urlai contro mio padre e mia madre, contro il Profeta. Come richiamate dalle mia grida, comparvero dal nulla poche, povere ombre. Raccogliemmo quel nulla che riuscimmo a trovare rovistando fra le macerie e ci mettemmo in cammino. Qualcuno diceva che c’era un posto dove ci avrebbero aiutati. Arrivammo al campo dopo giorni di cammino. Ci accolsero ma non c’erano tende per tutti. Cominciai a dormire sotto ad un telo tenuto su da quattro rami secchi. Con le altre donne, mi mettevo in fila, per ore, per una ciotola d’acqua e un po’ di cibo quando ce n’era. Intanto i giorni passavano ed il mio ventre s’ingrossava. I miei figli erano morti ma nel mio utero cresceva quello di un demone. E mi succhiava via quel poco che riuscivo a trovare. Quando ero, ormai, all’ottavo mese, un gruppo di uomini si avvicinò al campo. Erano guerriglieri del Movimento per la Liberazione del Sudan. Quando scoprirono i volti per bere la nostra acqua, riconobbi mio marito. Mi avvicinai piangendo ma lui mi guardò, sputò in terra davanti ai miei piedi e mi voltò le spalle. Da allora non volle più sapere nulla di me e non chiese a nessuno cosa fosse successo ai nostri figli. La vita nel campo divenne insopportabile: sola, ripudiata e madre di un bastardo.
Oggi sono tornati i Janjaweed. Hanno saputo del campo e sono venuti a finire ciò che, più di un anno fa, avevano iniziato. Ci hanno ammucchiati al centro dell’insediamento ed ora sono intorno a noi, imbracciano armi e fra un minuto inizieranno a sparare. Non so cosa o chi mi spinga a farlo, ma mi alzo e vado verso uno di loro. Con le braccia alzate, tendo verso di lui il bambino che piange. Urlo: “Questo non è mio. Prendetelo: è vostro. Non ha sangue Masalit o Fur. È un arabo come voi: prendete vostro figlio, salvate vostro figlio!”. Il primo colpo mi fa scoppiare fra le mani, come un’anguria colpita da un sasso lanciato da una fionda, il bambino ed il secondo è per me. Mi centra in pieno petto. Mentre cado, strane parole mi attraversano la mente: “Tutto è compiuto!”. Sprofondo e tutto intorno è un crepitio di spari. Sento il sangue scivolare via insieme ad una vita che non voglio e confluire, in un rigagnolo, con quello bastardo di questo bambino che, più degli altri, mi fu figlio e con quello delle mie sorelle. Il deserto non ha acqua ma potrà fiorire di papaveri.
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