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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Folle estate

Romanzo

Giulio Pinto
Albatros

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 02/10/2012 12:00:00

Samuele e Silvia, due fidanzatini, poliziotto juventino lui, insegnante amante dei cavalli lei, i loro ultimi giorni di lavoro in città e una lunga e spensierata vacanza in giro per l’Italia. Questa in estrema sintesi la struttura portante dell’opera prima di Pinto. Le avventure che segnano i due sono allegre e spensierate e ci mostrano i protagonisti piuttosto inclini a quella zona grigia che caratterizza spesso gli italiani: il confine labile fra legale ed illegale. Nel liceo privato di cui Silvia è proprietaria e vicepreside nessuno può essere bocciato, causa ripercussioni negative sul business, quindi si ricorre ad ogni sorta di espediente per riuscire in questo. Spesso Samuele, malgrado la carica pubblica, aiuta Silvia con vari sotterfugi per garantire la promozione ai suoi allievi. Sempre Samuele indulge in atteggiamenti non del tutto corretti e che magari non ci si aspetterebbe da un tutore dell’ordine. Ma quel che i due fanno, alla fine, è sempre a fin di bene, non commettono alcun crimine vero, cercano di aggiustare un po’ le cose, magari a loro vantaggio, ma senza danneggiare nessuno. Il romanzone scorre lungo l’estate del 1998, con grande florilegio di parole, infatti la narrazione è a mio parere assai prolissa, e se ciò non bastasse l’autore inserisce vere e proprie liste, quale l’ordine di piazzamento dei partecipanti ad una corsa di cavalli, di cui non si capisce l’utilità, appesantisce le pagine e fa vacillare l’attenzione del lettore. L’autore approfitta del romanzo per esprimere i suoi concetti su fatti reali di cronaca, quali le vicende della Uno Bianca o delle Brigate Rosse, e mi pare che indulga un po’ nelle lodi della DC. Tutte opinioni personali che, nell’economia generale del libro, risultano forse un po’ forzate. Come se ciò non bastasse l’autore ama sottolineare particolari un po’ raccapriccianti cui forse sarebbe più opportuno  accennare piuttosto che esplicare a gran voce, come per esempio le funzioni intestinali o sessuali dei protagonisti. In alcuni tratti si trovano delle autentiche trovate di pessimo gusto quale: “Micia era originaria di Giava, isola dove si balla, si canta e si chiava”, fioritura che forse starebbe meglio in un film con Alvaro Vitali che in un romanzo. Dico tutto ciò usando ovviamente il mio gusto personale, forse l’autore ha proprio voluto fare una sorta di goliardata, cercando di strappare risate ai lettori piuttosto che raccontare i fatti di una estate. O forse ha voluto supplire all’esiguità di quanto voleva raccontare rimpannucciando i fatti con descrizioni infinite e minuziose, dialoghi al limite dell’inutilità e conversazioni estenuanti come la serie sugli alcolizzati di un paese o le diatribe sulle squadre di calcio preferite. Il libro non riesce neanche a collocarsi nel genere picaresco, tutto accade abbastanza facilmente ai protagonisti, non ci sono trucchi, stratagemmi, trovate geniali, Silvia e Samuele sono, in buona sostanza, due come noi, come tanti, che vivono le loro vacanze felici ed innamorati. Tutto ciò potrebbe sembrare un giudizio negativo, ed in parte lo è, la narrazione è troppo prolissa, densa di elementi che appesantiscono la lettura, distraggono o irritano il lettore; a mio parere il libro andava sfrondato in maniera abbastanza decisa, salvando le avventure più significative e i giudizi sui fatti di cronaca dell’epoca, per contestualizzare meglio l’epoca narrata e consentire all’autore di mettere in risalto le proprie opinioni accanto ai fatti della coppia. Detto questo è doveroso aggiungere che il romanzo strutturalmente è ben scritto, l’autore ha un certo talento narrativo, conosce e padroneggia i mezzi espressivi. Lungo la narrazione non vi sono cadute o ripetizioni, la lingua è usata in modo estremamente corretto. Secondo me Pinto possiede la stoffa del narratore, ha forse bisogno di calibrare meglio quel che scrive, sfrondare e tagliare, e non cercare il facile effetto con battute e giochi di parole, che rendono il romanzo più simile ad una storia narrata a voce in modo estemporaneo che non un libro meditato e costruito quale un romanzo dovrebbe essere. L’autore dovrebbe, a mio avviso, lavorare sulla sua capacita costruttiva, sulla freschezza del suo scrivere e tagliare un po’ di più, soprattutto sulle parti di raccordo, e lasciar perdere particolari boccacceschi e frasette precostruite.



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