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Una vita diversa.

di Marco Raiti
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Pubblicato il 09/12/2010 17:28:07


...e la gente dirà che era un disadattato… un emarginato.
Non aveva né moglie né figli e, a trentasette anni, la convivenza
con i genitori poteva risultare penosa.
Non aveva hobby o interessi particolari, se non quello dello sci,
a cui vi si era dedicato solo da qualche anno. Ma una settimana
di vacanze e qualche week-end sulla neve potevano risultare di
ben poco svago nell’intero arco di un anno.
La sua vita era ormai là, sul luogo di lavoro, confinata tra
quelle mura a cui egli guardava come a quelle di una prigione che
gli avevano incatenato l’intera esistenza. Un’esistenza tutt’altro
che lieta.
Attendeva l’orario d’uscita e le ore passavano monotone
e lente tra una sigaretta e l’altra. Ne fumava parecchie, anche
due pacchetti al giorno. Spesso, si appartava in uno stanzino
comunicante con il laboratorio adibito solo in specifici momenti
a lavorazioni speciali, e rimaneva lì al buio per parecchio tempo.
Da qui, i colleghi di lavoro, quelli più maligni o solo più burloni,
gli affibbiarono il sopranome di pipistrello.
Se qualcuno entrava nello stanzino accendendo la luce,
egli se ne lamentava, diceva che amava restare al buio, era più
riposante. Sovente era oggetto di burle a causa del suo carattere
un po’ schivo. La stessa condotta di vita nonché l’aspetto non più
brillante e giovanile, ne avevano fatto la mira dei soliti colleghi
buontemponi (se così è lecito definirli).
Attendeva il suono della campanella, che indicava la fine della
giornata lavorativa, come una liberazione. Ma, contrariamente
all’illusione creatasi lungo il giorno, anche il dopolavoro, atteso
con tanta ansia, non gli portava che noia.
Avrebbe tanto desiderato una moglie ad attenderlo nella
quiete domestica, e magari dei figli che lo avessero tempestato
di problemi. Invece non gli rimaneva che andare a passeggiare
sul lungomare, come sempre lo si vedeva ogni volta che ci si
recava a Lerici. Solo o in compagnia di amici, che, per la verità,
sembravano molto occasionali.
Continuava a camminare per ore non passando di certo
inosservato, anche per via di un paio di occhiali scuri che
raramente si toglieva e che gli procuravano un poco di bramata
oscurità, nascondendo così agli ignari due grandi occhi azzurri
velati di malinconia per il desiderio di una vita diversa.
L’avevo conosciuto cinque anni prima, m’era parso molto
più allegro e scherzoso, disponibile anche a reciproche burle.
Poi, il tempo gli aveva gradatamente affievolito quelle qualità.
Forse anche perché si era stufato del fatto che le sue spontanee
manifestazioni d’allegria potessero essere, per alcuni, ulteriore
oggetto di scherno.
Qualcuno insinuava che avesse avuto una delusione amorosa,
dato che quasi mai parlava di donne e raramente si univa alla
discussione quando se ne trattava l’argomento in maniera
mondana. Di natura molto permalosa, passava facilmente dallo
scherzo all’offesa. Aveva, difatti, litigato un po’ con tutti, ma
sempre roba di poco conto. Difficilmente portava il broncio a
qualcuno per lungo tempo.
Aveva lavorato per qualche periodo all’estero, prima di essere
assunto in quella piccola ditta elettronica. In Iraq e in Libia, mi
pare di ricordare che dicesse. Ne parlava con una certa fierezza ed
orgoglio, tacendo però dettagli e particolari personali. Cosicché
si sospettò potesse aver avuto delle esperienze negative e che la
causa delle sue stranezze derivasse proprio da ciò.
Ma tutto rimaneva nel dubbio creandogli intorno un alone di
mistero, e la gente, probabilmente indispettita dalla difficoltà di
superare questo ostacolo, rinunciava ad ogni stimolo di curiosità,
disinteressandosi del problema ed abbandonando il poveraccio
ad un isolamento sempre più deleterio.
L’anno prima, poi, ero andato a trovarlo a casa sua insieme
a due miei colleghi. Era stato parecchio male, rimanendo
addirittura in coma per qualche giorno. Dissero che aveva bevuto
incoscientemente una birra dopo aver ingerito dei sedativi e che
l’effetto era stato disastroso.
Ci accolse tranquillo e giulivo nella sua casetta di campagna
sita in località Sarzanello, poco distante dalla città di Sarzana.
Conobbi i suoi genitori, gente semplice che sprigionava
spontaneità dai loro modi di fare. Ma anche ormai avanzati
nell’età, e questo, pensai, avrebbe potuto creargli problemi
d’incomprensione.
Tutto l’ambiente domestico, comunque, traspirava, almeno
quel dì, un senso di spensierata serenità.

***

Quella mattina la notizia giunse inaspettata.
All’inizio tutto era molto vago e i colleghi si riunivano in
piccoli gruppi bisbigliando ciò che era di loro conoscenza e
cercando di carpire dagli altri le novità. Poi, in poco tempo,
ogni dubbio ed ogni imprecisione scomparve e tutti dovettero
accettare la realtà.
Fonti era morto, si era suicidato!
Nella notte antecedente si era recato sul viale per Marina di
Carrara, qui aveva ingerito un grosso quantitativo di sedativi,
aiutandosi, nell’atto, con una birra. Proprio ciò gli era stato
fatale. Poi aveva posizionato il sedile ribaltabile della macchina
in maniera da coricarsi supino in attesa della morte. Allora
fu chiaro che l’episodio dell’anno passato non era stato un
incidente, bensì un primo fallito tentativo di farla finita.
I commenti sulla tragedia erano i più diversi, nell’ambiente
lavorativo. C’era chi, preso da tardivi scrupoli di coscienza, si
domandava se noi non avessimo contribuito in qualche modo
alla sua morte o perlomeno non avessimo lasciato qualcosa
d’intentato perché egli non giungesse a quella fatale decisione.
Ma vi era anche chi, trincerando la propria coscienza dietro
un costruito cinismo, se ne usciva con frasi del tipo: “Uno di
meno… ora c’è più spazio”.
In particolare mi colpì il commento di un responsabile, che,
per salvare la propria immagine forse più con se stesso che verso
agli altri, ne concluse che Fonti era malato e non si sarebbe
potuto far nulla per evitare il dramma.
Mi confidò inoltre che lui e qualche altro dirigente erano a
conoscenza del fatto che l’episodio dell’anno precedente non
era stato un banale incidente, ma la cosa era stata taciuta per
evidenti motivi di riservatezza personale.
Il giorno seguente il giornale riportava con un breve trafiletto
la notizia dell’accaduto.
Al funerale erano presenti tutti i dirigenti ed i massimi
responsabili della ditta, mentre molti compagni di lavoro avevano
disertato la cerimonia con banali scuse di inderogabili impegni.
Probabilmente avevano voluto evitare che i pianti strazianti dei
genitori intaccassero la corazza in cui era avvolta la loro coscienza,
così ben protetta in quel tranquillo letargo.

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