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’Polvere ed anima’ nella poesia di Licia Liotta

Argomento: Letteratura

di Franca Alaimo
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Pubblicato il 08/06/2010 20:28:19

“Polvere ed anima sono presenze mai sfumate di un accesso compatto nel clima dell’esistenza”: così scrive Domenico Cara nella prefazione a Il pieno cosmico (l’ultimo libro di poesie di Licia Liotta pubblicato nel 2001, appena un anno prima della sua morte), indicando perfettamente i poli estremi di una produzione poetica, che non rinuncia all’attraversamento dei territori che si estendono anche tra l’uno e l’altro, manifestando un’apertura dinamica che si risolve nella consapevolezza di quanto lacerante sia la sostanza del mondo, intessuta di eguali misure di realtà e di immaginazione, di reale e di sovrarazionale.

I punti estremi di questo percorso vengono toccati, mi sembra, con maggiore nettezza, da Kemonia, pubblicato nel 1980 e dal già citato Il pieno cosmico. Ne fanno testimonianza perfino i titoli, riferendosi il primo alla realtà geografica, storica e civile della città di Palermo (Kemonia fu uno dei suoi fiumi più ricco d’acque), il secondo ad un volo verso uno spazio allo stesso tempo astronomico e visionario, che, confrontato con quello reale, appare vincente nella sua pienezza magica, nella sua simbolica allusione alla fertilità dell’immaginazione e alla universalità sapienziale dei simboli.

E’ dalle stesse dichiarazioni di poetica contenute nelle due sillogi che può evincersi la duttilità dinamica dell’itinerario mentale e poetico della Liotta; che ne ha piena consapevolezza (cosa che dimostra una sorveglianza del proprio fare poetico sovente rara), se dice di se stessa, nel testo che intitola I Sogni ( ne Il pieno cosmico), di essere “una pentita”, anzi, di più, di non volere identificarsi con “un Maramaldo/ per uccidere i morti sogni”, dopo avere ricordato di essere ricorsa alla “spada / di ferro arroventato / per cremare le esili efflorescenze / dell’anima nell’impari lotta / della cruda vita”.

Come davvero la sostanza poetica dell’ultima silloge sorprende il lettore, se messa a confronto con quella che tesse i grandi affreschi realistici di Kemonia, una sorta di libro-denuncia dei mali sociali che affliggono il capoluogo dell’isola siciliana: il boom edilizio voluto da una borghesia fortemente arricchitasi in contrasto con la fatiscenza dei tuguri abitati dai poveri, gli splendori ed il lusso della società bene di contro la malattia, l’abbandono, la sporcizia in cui vivono gli stentati angeli bambini dei quartieri popolari “che vomitano / dolore”, l’indifferenza della classe politica; mali tutti osservati con un realismo descrittivo a volte sconcertante, quasi con lo spirito di un reportage giornalistico, il quale, però, piuttosto che inclinare al nativo pessimismo dei siciliani , alla maniera, per esempio, di un Giovanni Verga o di un Tomasi di Lampedusa, si carica di un ottimismo ideologico progressista, che investe la poesia di uno slancio titanico, nella volontà di farne una delle armi utili per rinnovare il mondo.

La poetessa dice di avere, in E gigante divenne, “giambi e graffiti” (cioè ritmi guerreschi e segni graffianti), e “ virile cotone / in radura ribelle”, ed ancora “parole a spadice / per tagliare oscure doglie”. Per questo motivo la Liotta decreta una sua poetica anti-montaliana rifiutando un mondo privo di ideali, rinunciatario, ridotto ad un nudo e drammatico osso di seppia, quando scrive in Il banale non vede i berilli, che bisogna “Ricomporre i nostri ossi di seppia / con cartilagine e polpa”. La materia greve e pesante occupa l’inferno “dantesco” dei bassifondi panormitani aspettando il suo riscatto anche attraverso la denuncia di una poesia socialmente impegnata, che non disdegna di accogliere nel suo tessuto linguistico modi di dire del parlato e anche termini e costrutti del dialetto, che, a dire il vero, non ne oscurano quella qualità lirica che costituisce una costante del suo poetare.

La poesia della Liotta, anzi, proprio in virtù della ricchezza e varietà degli apporti linguistici ( un vero e proprio studio meriterebbe la folta presenza di una terminologia scientifica sottratta in buona parte alla sua semanticità a favore di un uso metaforico talvolta audace ) appare ad un tempo classica e moderna, composta e ribelle, anche se non si può parlare di un’eccezionalità nel campo della produzione poetica del tempo. E tuttavia si può affermare con certezza che la Liotta è tra le poche poete-donne del Sud che arrischi un’operazione del genere.

Si sbaglierebbe, però, chi pensasse ad una frattura netta all’interno del pensiero e della poetica della Liotta contrapponendo a Kemonia l’ultima stagione de Il pieno cosmico, innanzitutto perché tra queste raccolte se ne collocano altre due, nelle quali è invece visibile la gradualità del percorso intellettuale, etico ed estetico, maturato nell’arco di un ventennio (1980-2001) davvero formidabile per la storia d’Europa e del mondo intero, e, volendo restare in Italia, per la sorte delle ideologie che avevano caratterizzato schieramenti, riforme sociali ed economiche, e dello stesso ruolo dell’ intellettuale.

Inoltre, a ben guardare, quel lirismo di fondo che attraversa Kemonia ( e che non era assente dalle raccolte precedenti, la prima delle quali viene edita sul finire degli anni quaranta del 1900 ) introduce già quegli elementi spirituali, come il sogno, la fantasia, la beltà e la sapienza della natura, la forza del sentimento che in Il pieno cosmico sono prevalenti: è come se si fossero invertite le proporzioni dei due elementi, la materia e lo spirito, entrambe così fortemente recepite da spingere la poetessa a combinarle insieme; così che la prima non si riduca a mera percezione, ma, elaborata attraverso le qualità dello spirito, diventi espressione piena del processo creativo e del progresso etico e sociale dell’Uomo; e lo spirito, contemplato nella e attraverso la materia, partecipi consapevolmente al divenire della Storia.

Da qui ad identificare tout-court lo spirito come prova dell’esistenza di Dio, ce ne corre; perché la Liotta è giunta a questa convinzione a passi lenti, partendo da un’osservazione delle qualità più nobili della natura umana e della stessa Natura creante per giungere, grazie ad una serie di avvicinamenti e ripensamenti, all’idea di un mistero cosmico sovrarazionale , che non assume mai, però, un volto preciso, in quanto per tutta la vita ella si tenne lontana dalle pratiche religiose; credo, anzi, che rifiutasse la religione percependola come una sorta di imbrigliamento della percezione del sacro e del non-visibile.

E’ cosa questa che si deve dare per certa, (senza considerare le molte conversazioni sull’argomento che ebbi con lei, ma delle quali non ho testimone alcuno) proprio in base alla lettura dei versi dell’ultima silloge: è proprio questo mistero, l’evanescente presenza di esseri alati, l’eco di una Parola originaria che indirizza le sorti dell’individuo e del mondo a far sì che lo spazio cosmico, invece che apparire vuoto, venga pensato come pieno.

Per concludere queste brevi considerazioni, mi piace citare una strofa tratta da L’Es di un poeta donna, testo incluso nella silloge Sapore d’Astri, del 1988 (cioè quasi a metà del ventennio di cui si parlava sopra), perché più di ogni altra sta a testimoniare la compresenza dello spirito e della materia nel crogiuolo più intimo della sua personalità. Essa così recita: L’Es di un poeta donna è come la terra / (mari, ghiacciai, vette / che raggiungono Galassie ) / fuoco è il suo centro; ed è importante che Licia abbia sentito il bisogno di sottolineare che sta parlando dell’Es di una donna, e per giunta poeta; perché vuol dire che si percepisce (e così percepisce tutte le donne-poeta) diversa dai poeti di sesso maschile: affermazione che non è di poco conto, sia perché tende a proiettare la natura femminile all’interno di quella sfera magico-sacerdotale che le era propria nelle civiltà arcaiche; sia perché ridefinisce l’attività del fare poesia come una sorta di misterioso connubio con le forze primigenie della natura: acqua, terra, aria, fuoco sono, infatti, i quattro elementi delle antiche cosmogonie e filosofie.

Questa dimensione della femminilità è, inoltre, una connotazione in più della mediterraneità della sua poesia, che di tale universale categoria ha anche la solarità, la cromia accesa e vivace, la musicalità felice, lo slancio lirico, la forza drammatica del pensiero temperato dalla felicità dell’elemento naturale. E, per finire, in questa strofa sono riconoscibili anche quegli atteggiamenti di orgoglio e fierezza che quanti hanno, come me, conosciuto l’autrice, non potevano non riconoscerle come motori di una vita segnata sempre da scelte insolite e coraggiose.

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